Lo strano caso dei tre prigionieri di guerra dispersi in azione

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  • 03-12-2003
  • di Sergio De Santis

La guerra del Vietnam si conclude ufficialmente con la conquista di Saigon da parte dell'esercito nordvietnamita il 30 aprile 1975, ma il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nei combattimenti è già terminato da due anni, con la firma degli accordi di Parigi, che nel gennaio del 1973 hanno dato inizio al ritiro delle truppe americane.

Secondo le fonti ufficiali l'intervento americano è costato 57.939 fra caduti in combattimento e morti per altre cause: cifra cui sono da aggiungere altre 2.500 perdite per piloti e marines catturati dai comunisti e finiti nei campi di concentramento (POW cioè Prisoners Of War), soldati morti in combattimento ma i cui corpi non sono stati recuperati (KIA/BRN cioè Killed In Action/Bodies Not Recovered), dispersi (MIA cioè Missing In Action) e disertori che hanno preferito arrendersi ai Vietcong per farla finita con la "sporca guerra".

Gli accordi di Parigi prevedono la restituzione di tutti i POW: e nel marzo del 1973, mentre i militari lasciano il Sudest asiatico, la cosiddetta "Operazione Ritorno" (Homecoming) riporta negli Stati Uniti 591 ex-POW, seguiti di lì a poco dai resti di altri 500 militari deceduti durante la prigionia.

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Pur tenendo conto dei numerosi cadaveri rimasti a marcire senza sepoltura sui campi di battaglia e dei disertori che hanno scelto di rimanere sul posto piuttosto che affrontare una Corte Marziale dopo il loro rientro, sembra chiaro che molti americani - più di un migliaio secondo le stime del Pentagono - sono ancora rinchiusi nei lager dei tre paesi coinvolti nel conflitto (Vietnam, Laos e Cambogia).

Il governo di Hanoi nega recisamente una loro presenza sul proprio territorio: ma gli esperti di politica asiatica ritengono che il processo di liberazione dei POW sia destinato a proseguire, come era avvenuto dopo fine della guerra di liberazione dal dominio francese nel 1954 e la divisione dell'Indocina in due Vietnam - uno a sud e l'altro a nord del 17° parallelo - quando il regime di Hanoi aveva liberato un po' per volta alla chetichella i prigionieri in concomitanza con lo stanziamento di aiuti finanziari da parte di Parigi per la ricostruzione della neonata Repubblica Democratica del Vietnam (RVD).

E così avverrebbe probabilmente di nuovo, se il Congresso degli Stati Uniti non si rifiutasse di stanziare i 3,2 miliardi di dollari che Nixon aveva promesso a titolo di danni di guerra nel corso delle trattative di Parigi.

Così, subito dopo la restituzione dei primi 519 ex prigionieri, i cancelli dei campi di concentramento vietnamiti si richiudono per sempre: e nel 1978 tutti i dispersi del Vietnam (salvo uno per impedire che la pratica venga archiviata in forma definitiva) vengono dichiarati ufficialmente morti. Ma il caso dei POW/MIA si trasforma per gli Stati Uniti in una sorta di scheletro nell'armadio che mette in imbarazzo il governo, turba l'opinione pubblica e infurentisce le famiglie dei dispersi ancora speranzosi nel possibile rientro a breve scadenza dei loro cari.

Non a caso la seconda "fatica" dell'Ercole-Rambo sarà qualche anno dopo dedicata proprio a un'improbabile ritorno dell'eroe nel Sudest asiatico con l'obiettivo di rintracciare e liberare qualche POW/MIA ancora rinchiuso nel gulag indocinese, mentre nel paese cominciano a far la loro apparizione parecchi loschi figuri pronti a promettere alle famiglie dei dispersi l'evasione dei prigionieri in cambio di sostanziosi anticipi "a fondo perduto".

Nel quadro di queste attività truffaldine una delle esche più frequenti è rappresentata dalle foto: immagini sfocate di uomini in cui l'affetto dei parenti possa riconoscere qualche tratto famigliare, facendo scattare la speranza di un possibile ritorno.

La marea di queste foto-trappola è enorme. Sono sedicenti "istantanee" a volte chiaramente false, altre volte risultato di contraffazioni più sofisticate: ma tutte, comunque, invariabilmente prive di origini controllabili e di qualsiasi riferimento concreto ai luoghi e ai tempi dei sedicenti "scatti".

Le autorità americane ripetutamente si preoccupano di mettere in guardia contro questo racket, ma la sensazione che il governo si preoccupi soltanto di mettere a tacere lo scandalo dei POW/MIA abbandonati al loro destino toglie credibilità agli avvertimenti: e gli sciacalli possono continuare imperterriti nella loro fruttuosa caccia alle famiglie disposte a sborsare montagne di dollari in cambio dell'illusoria speranza di vedersi restituire i loro cari.

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Questi precedenti e questo clima sono necessari per poter valutare al suo giusto valore la bomba che scoppia il 18 luglio 1991 in seguito alla pubblicazione sul quotidiano USA Today di una foto (riprodotta in questa pagina) che sembra finalmente fornire la prova inconfutabile dell'esistenza di POW/MIA ancora in vita nel gulag indocinese.

Nella foto si vedono tre uomini baffuti, due dei quali reggono una tavoletta di legno su cui si leggono una data (il 25 maggio 1990) e due sigle misteriose (NNTK e K.B. 19).

Come si saprà più tardi, l'istantanea era stata offerta al Pentagono nove mesi prima da Eugene "Red" McDaniel, ex POW e direttore dell'associazione di veterani nota come American Defense Institute. Il documento era stata accettato anche se McDaniel aveva rifiutato di fornire elementi precisi circa l'identità dell'anonimo ex sorvegliante di lager che avrebbe effettuato lo scatto: ma l'analisi cui era stata sottoposto aveva sollevato parecchi dubbi. La foto infatti era risultata una copia di terza o quarta generazione, se non addirittura il risultato di un neanche troppo sofisticato fotomontaggio; lo sfondo - gabellato per "tropicale" - era apparso troppo generico per risultare credibile; la testa del personaggio al centro era sembrata fuori proporzioni rispetto alle altre due; e i personaggi erano stati giudicati troppo ben pasciuti e ben rasati per essere prigionieri reduci da vent'anni di stenti in un campo di concentramento. I folti baffoni avevano sollevato il sospetto che fossero stati aggiunti di proposito per rendere i volti meno facili da identificare; le sigle avevano resistito a ogni tentativo di decifrazione condotto dai crittografi dei servizi segreti e avevano fatto pensare a segnali di fantasia destinati unicamente ad avvolgere il documento in una stuzzicante aura di mistero; mentre la data - lungi dal fornire un elemento credibilità - era sembrata un indizio cronologico troppo preciso per non far temere che si fosse trattato di un ingrediente inserito a bella posta al fine di dimostrare che l'istantanea era stata scattata solo pochi mesi prima.

Il documento era stato quindi archiviato: ma "Red" McDonald non si era dato per vinto e aveva deciso di pubblicizzarlo attraverso la stampa. La presenza di POW/MIA nel Sudest asiatico - così ormai apparentemente "provata al di là di ogni ragionevole dubbio" - scuote il paese, tanto più che due mogli e una madre annunciano di aver riconosciuto i tre personaggi. Nel corso di un'affollata conferenza stampa a Los Angeles, infatti, il personaggio a sinistra viene identificato come il colonnello della USAF John Robertson, il cui F-4C era stato abbattuto dalla contraerea nordvietnamita il 16 settembre 1966, mentre quello seminascosto al centro sarebbe il maggiore della USAF Albro Lynn Lundy, il cui A1E era caduto sul Laos in seguito a un guasto tecnico il 24 dicembre 1970, e l'ultimo a destra sarebbe il tenente Larry James Stevens, il cui aereo era svanito ancora nei cieli del Laos il 14 febbraio 1969. La somiglianza fra i visi dei tre anziani supposti prigionieri e le foto che ritraggono i giovani ufficiali al momento della loro partenza per il Vietnam oltre vent'anni prima è tutt'altro che convincente: ma l'annuncio induce comunque il Dipartimento di Stato a chiedere spiegazioni ad Hanoi per via diplomatica.

La RDV - oltre a smentire ancora una volta la presenza di MIA/POW sul suo territorio - sostiene anche di aver restituito proprio il corpo del colonnello Robertson nell'aprile del 1990 insieme con quelli di altri 9 militari recuperati da una commissione mista di indagine sulla sorte dei dispersi USA dopo la fine della guerra. Ma la circostanza viene contestata dal Pentagono, e la penosa odissea delle tre famiglie si colora ulteriormente di giallo in seguito all'apparizione sulla scena di un dubbio uomo d'affari cambogiano che si dichiara pronto a mettersi in contatto con i tre prigionieri in cambio della modica cifra di due milioni e mezzo di dollari.

Alla fine però l'operazione non va in porto: e il caso dei tre POW/MIA rimane in sospeso sinché nel luglio del 1992 il Pentagono annuncia ufficialmente di aver scoperto che l'immagine è stata truccata utilizzando come base la foto sovietica di tre contadini russi, probabilmente colcosiani, scattata nel 1923 e pubblicata su una rivista comunista nel 1989 (qui a destra). I tre, completamente glabri, mostrano un cartello e una bandiera con scritte in cirillico inneggianti al sistema sovietico, mentre ai loro piedi si vede un ritratto di Stalin.

La foto in realtà risulta tutt'altro che convincente ed è stata respinta con scherno dalle associazioni di veterani come un falso fabbricato dai servizi americani per archiviare l'episodio. E' la classica tecnica del debunking-rebunked, che però risulta in questo caso non del tutto destituita di credibilità, data l'incongruenza di parecchi dettagli e visti numerosi comprovati interventi della CIA nel campo della disinformazione.

Il caso - Hoax di primo oppure di secondo grado - resta insomma aperto: anche se di esso, bizzarramente, non resta più alcuna traccia, neanche sul sito internet http://hoaxbusters.ciac.org, vera miniera di informazioni ufficiali e ufficiose su tutte le truffe, i falsi, gli scherzi & Co. che vivacizzano i vari campi dell'Hoaxdom mondiale.

 

Sergio De Santis

Giornalista e direttore della collana "StoricaMente" per la casa editrice AVVERBI

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