Siamo soli nell'universo?

Come la scienza va in cerca degli "extraterrestri"

  • In Articoli
  • 12-05-2004
  • di Venturoli e Ranzini
Come la scienza va in cerca degli "extraterrestri"
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L'osservatorio Lick presso l'università della California, impegnato nel progetto SETI.
È storia recente, anzi recentissima e allo stesso tempo antica come l'uomo. Veramente questo nostro pianeta è l'unico, in tutto l'universo, a ospitare forme di vita? Ci sono molti modi per cercare di rispondere a questa domanda. Quello dei poeti e degli autori di fantascienza, che hanno inventato i mondi più strani abitati dalle specie più curiose. Quello degli amanti dei misteri, come chi si interessa di paleoastronautica, per esempio, con la ricerca di segni di visite extraterrestri nelle innumerevoli testimonianze lasciateci dalle civiltà che ci hanno preceduti. E quello della scienza, che è poi quello del quale ci occuperemo in questo articolo.

Al contrario della quasi totalità delle discipline scientifiche, possiamo stabilire con certezza la data di nascita della scienza che si occupa di cercare segni di vita al di fuori del nostro pianeta. È stato infatti nel 1960 che Joshua Lederberg, professore di genetica al Medical Center dell'Università di Stanford, in California, ha proposto di chiamare questa scienza esobiologia, tratteggiandone i principali scopi e metodi. Se i metodi non avevano niente di rivoluzionario, dipendendo in gran parte dall'evoluzione della tecnologia, il grande merito di Lederberg è stato di riconoscere piena dignità di oggetto della ricerca non solo alla specie umana ma a tutte le miriadi di specie che vivono sul nostro pianeta e, viste le inevitabili difficoltà che si incontrano nell'effettuare le ricerche di oggetti microscopici, tipici della biologia, alle enormi distanze proprie dell'astronomia, di estendere questa analisi ai possibili ambienti in cui la vita potrebbe essersi sviluppata, e a ogni possibile segno che possa far pensare che in un remoto futuro, o in un lontano passato, potrà o potrebbe esserci stata vita sull'oggetto celeste che si sta osservando.

Sicuramente questo cambiamento di prospettiva, insieme al miglioramento tecnologico degli strumenti di osservazione avvenuto in questi anni, ha portato i suoi frutti. L'esempio tipico è il diverso atteggiamento nei confronti dell'esplorazione di Marte. Se si confronta l'ambiente culturale in cui maturò, alla fine del diciannovesimo secolo, la teoria di Percival Lowell dei "canali" costruiti dai presunti abitanti di Marte e osservati da Virginio Schiapparelli, e lo scopo delle molte missioni che stanno esplorando il pianeta rosso in questi anni, alla ricerca di possibili tracce di acqua nel sottosuolo piuttosto che di specifiche molecole di origine biologica, è palese la differenza nella quantità e nella qualità dei risultati ottenuti. Anche se non va dimenticato che in ambito esobiologico, molte volte anche per la piccola quantità di campioni disponibili, è difficile arrivare a conclusioni definitive. Da questo punto di vista ancora Marte ci fornisce due esempi significativi.

Verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso la NASA realizzò la prima missione dichiaratamente esobiologica, grazie all'instancabile contributo di Carl Sagan, a buon diritto considerato uno dei "padri" dell'esobiologia. In realtà si trattava non di una ma di due sonde gemelle, le Viking 1 e 2, ognuna delle quali aveva a bordo una dotazione di strumenti che avrebbero dovuto rilevare i prodotti del metabolismo di eventuali microrganismi presenti nel suolo di Marte. Il problema fu, ed è tuttora, a quasi trent'anni di distanza, che due degli esperimenti diedero un chiaro risultato a favore della presenza di questi microrganismi mentre il terzo, che avrebbe dovuto darne la conferma definitiva, fornì invece risultati ambigui e difficilmente interpretabili. D'altra parte sembra difficile pensare che nei campioni analizzati dalle sonde Viking non fossero davvero presenti dei microrganismi: nessuna delle teorie finora proposte, per quanto complesse, riesce infatti a spiegare adeguatamente questi risultati così contraddittori. Anzi, l'analisi dei vecchi tracciati sperimentali con nuove tecniche matematiche, che permettono di mettere in evidenza ritmicità tipiche degli organismi viventi, sembrerebbe modificare gli ambigui risultati del terzo esperimento in una sostanziale conferma. Il condizionale, però, è ancora d'obbligo. Ma, visto che le molte sonde, che dal 1976 hanno visitato e stanno visitando Marte, si stanno concentrando su altri aspetti, non è detto che una conferma ai risultati delle missioni Viking non arrivi per via indiretta.

La conferma dell'esistenza di microrganismi nel suolo marziano si intreccerebbe poi a un'altra scoperta: la presenza in una meteorite proveniente da Marte di batteri fossili. Nel 1984, in Antartide, un gruppo di ricerca ha raccolto una meteorite, sepolta nel ghiaccio da migliaia di anni, che è stata battezzata "ALH84001". È stato solo più di dieci anni dopo, però, nel 1996, che la pubblicazione dei risultati dell'analisi di questa meteorite ha scosso la comunità scientifica dando origine, una volta di più, a un dibattito che dura ancora oggi. Una delle microfotografie che corredavano l'articolo originale è ormai celeberrima: in primo piano, appoggiato alla parete di uno dei microscopici anfratti di ALH84001, si vede una struttura che sembra a tutti gli effetti di origine biologica. Anzi, sembra proprio il fossile dell'involucro di alcune specie di batteri presenti anche sul nostro pianeta. Ma per sostanziare una scoperta di questa portata non è certo sufficiente una rassomiglianza. Si è cercato anzitutto di escludere la possibilità di contaminazioni da parte di microrganismi terrestri, rese comunque difficili dal fatto che la meteorite, incandescente al suo arrivo sul nostro pianeta per aver attraversato l'atmosfera, abbia penetrato uno spesso strato di ghiaccio. L'analisi dei gas presenti nella meteorite, poi, confrontati con la composizione dell'atmosfera rilevata dalle sonde, ne ha indicato la provenienza marziana. Le analisi geochimiche, infine, hanno mostrato tutta una serie di caratteristiche compatibili con la presenza di organismi viventi nel suolo dal quale è stata strappata, probabilmente da un altro impatto. Ma anche in questo caso, come si è già detto, il risultato è tutt'altro che acquisito.

Paradossalmente sembrano suscitare minori diatribe, forse anche per la loro portata meno dirompente, risultati ottenuti studiando altri corpi celesti assai più lontani. Dal punto di vista esobiologico, per esempio, due sono gli altri luoghi del sistema solare che si ritengono particolarmente interessanti: Europa e Titano.

Europa, satellite di Giove (una delle "lune medicee" di galileiana memoria), è particolarmente interessante perché sembra ormai assodato ospiti, al di sotto della sua dinamica superficie ghiacciata, un oceano. Nell'ottica di ricerca proposta da Lederberg, come si può immaginare, la ricerca dell'acqua allo stato liquido riveste un interesse del tutto particolare. La superficie del nostro pianeta è coperta per gran parte dall'acqua, e in questa vivono migliaia di specie. La nascita stessa della vita ha avuto quasi sicuramente a che fare con l'acqua, sia come ambiente in cui sono nati e si sono sviluppati i primi organismi sia come elemento fondamentale della loro struttura (tutti gli organismi viventi contengono acqua, pur se in diverse percentuali).

Titano, uno dei satelliti di Saturno, è invece uno dei pochi satelliti del sistema solare dotato di un'atmosfera che, osservata da Terra e dalle sonde che l'hanno sfiorato, sembra essere particolarmente interessante. Non tanto per possibili paralleli con l'atmosfera terrestre, ospitando quella di Titano elevate quantità di idrocarburi, ma per la possibilità forse unica di poter osservare un'atmosfera in piena evoluzione.

Abbiamo quindi visto che l'esobiologia (o l'astrobiologia, come l'hanno recentemente ribattezzata gli scienziati della NASA), allargando i suoi orizzonti, è riuscita a conquistare risultati insperabili fino a qualche decennio fa. Ma non si deve pensare che la ricerca di specie intelligenti non abbia la stessa dignità di quella esobiologica tratteggiata qui sopra. Anche il progetto SETI, che si propone di cercare possibili segnali radio provenienti da altre civiltà, fa parte a pieno titolo di questo tipo di studi. E chissà che dall'uno o dall'altro dei tanti punti di vista di questa nuova prospettiva non arrivi presto un segnale chiaro e incontrovertibile del fatto che non siamo soli, in questo nostro universo.

'Daniele Venturoli e Gianluca Ranzini'
Gli autori hanno recentemente pubblicato, insieme a Luigi Bignami e per la Bruno Mondadori, il volume La vita nell'universo (2003), approfondendo i diversi aspetti trattati in questo articolo e discutendone molti altri. ''

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