Combustione umana spontanea: un mistero in cenere

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©yatesmon, deviantart
Un po’ di cenere, qualche osso affumicato e un inquietante piede intatto è tutto ciò che rimaneva della signora Mary Reeser dopo il misterioso incidente che la uccise il 2 luglio 1951.

Quel giorno, a St. Petersburg, in Florida, giunse un telegramma per la sessantasettenne signora Reeser. Lo ritirò la padrona di casa che poi salì i gradini per consegnarlo alla sua inquilina. Nonostante i ripetuti richiami, però, la signora Reeser non rispondeva: eppure, nessuno l’aveva vista uscire quella mattina. Preoccupata, la padrona di casa chiamò aiuto e fu raggiunta da due imbianchini che lavoravano in strada. Quando gli uomini riuscirono ad aprire la porta dell’appartamento della signora Reeser furono investiti da una folata di fumo. Una volta entrati, videro sul pavimento i macabri resti della donna, un piede sinistro con tanto di pantofola e un po’ di cenere.

La polizia, che arrivò poco dopo, notò che il soffitto era coperto di una sostanza grassa, oleosa, che si estendeva sulle pareti fino a circa un metro dal pavimento. Al di sotto di questa linea creata dal fumo, ben poco era stato danneggiato. Al di sopra, il calore aveva liquefatto l’interruttore della luce, un bicchiere di plastica e una scatola di candele.

Nei giorni seguenti i giornali fecero a gara per cercare di spiegare il misterioso incidente: la donna era stata uccisa da un pazzo con il lanciafiamme, aveva ingerito dell’esplosivo, era stata colpita da un fulmine globulare e via dicendo. Finché qualcuno suggerì che si fosse trattato di un caso di “combustione umana spontanea” (in inglese: SHC, cioè Spontaneous Human Combustion). Secondo alcuni, infatti, un’improvvisa (quanto misteriosa) reazione di sostanze chimiche all’interno del corpo umano potrebbe essere responsabile per questi strani incendi.

I dubbi degli esperti


«In letteratura», spiega Mark Benecke, biologo forense tedesco, che ha lavorato tra l’altro per il dipartimento di medicina legale della polizia di New York e che ho avuto il piacere di conoscere in Germania, «non esistono casi noti in cui gli organi interni di un corpo bruciato sono stati trovati più danneggiati delle parti esterne. Questa osservazione pratica è una prova del fatto che la combustione non comincia mai dall’interno di un corpo».

Benecke e il suo collega biologo David Pescod hanno da tempo reso noti i risultati relativi a un esame condotto sui 200 migliori casi di presunta SHC e hanno rilevato alcune interessanti caratteristiche ricorrenti. Per esempio, sembra esserci una correlazione tra l’ubriachezza e l’autocombustione.

Alcuni teorici, all’inizio, avevano suggerito che i tessuti corporei impregnati d’alcol potessero facilitare l’autocombustione; tuttavia, fu fatto notare che una persona sarebbe morta di avvelenamento da alcol molto prima di potere raggiungere un livello di impregnazione dei tessuti tale da renderli infiammabili. Piuttosto, la correlazione alcol-autocombustione è più facilmente spiegabile con il fatto che una persona ubriaca è meno spaventata dal fuoco, quindi più maldestra a controllarlo e meno capace di reagire in maniera adeguata a un incidente.

Inoltre, è stato scoperto che nei casi in cui la distruzione del corpo è stata minima, l’unica fonte di combustibile sembra essere stata fornita dagli abiti dell’individuo. Dove, invece, la distruzione è stata più devastante, la combustione è stata favorita da ulteriori fonti carburanti: poltrone imbottite, pavimenti in legno, tappeti...

Tali osservazioni, unite al fatto che spesso accanto ai corpi bruciati vengono rinvenute possibili fonti di incendio (candele, sigarette, camini, forni, lampade), porta a considerare l’ipotesi dell’autocombustione umana come del tutto ingiustificata.

Come spiegare allora il fatto che il forno crematorio di un cimitero richieda ben 1.300 gradi centigradi per potere incenerire un corpo? Con il fatto che tale elevata temperatura è necessaria se si intende terminare il processo nel giro di un’ora. Tuttavia, secondo gli studiosi, un corpo umano può essere completamente distrutto da temperature molto più basse se c’è più tempo a disposizione.

Sono anche state spesso riportate abbondanti tracce di una sostanza grassa che impregnava gli oggetti circostanti. Pare dimostrato che esista un “effetto candela inverso”: i vestiti iniziano a bruciare carbonizzando parte del corpo e facendone colare il grasso, che li impregna e alimenta ulteriormente la combustione, come una candela con lo stoppino attorno alla cera anziché al centro. Ciò si accorda anche col fatto che le vittime solitamente non erano magre e che gli arti, soprattutto inferiori, che contengono meno grasso e spesso non sono coperti da indumenti, sono le parti che più facilmente si salvano e che sembrano sopravvivere unicamente per aggiungere orrore alla scena dell’incidente.

Thomas J. Ohlemille, un esperto del Center for Fire Research al Department of Commerce degli Stati Uniti, spiega: «Le morti da incendi provocati dalle sigarette sono tra le più comuni negli Stati Uniti. L’incenerimento si espande lentamente e può a volte consumare mobili interi senza fiamme».

È proprio per via delle tante possibilità di spiegazione naturale, e della mancanza di prove convincenti, che la comunità scientifica non considera la combustione umana spontanea un fenomeno realmente esistente. Non è infatti compreso tra le malattie elencate nell’International Classification of Diseases, compilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, né nell’Index Medicus, l’indice della letteratura medica.

Il caso “meglio documentato”


Cosa dire, infine, del caso della signora Reeser, indicato da molti come “il caso meglio documentato” di SHC? In apparenza non furono trovate fonti esterne che avrebbero potuto dar fuoco alla donna e il corpo fu quasi completamente distrutto. È stato condotto un attento esame di tutte le fonti originali, a partire dai rapporti della polizia, ed è stato possibile determinare che l’ultima volta che la signora Reeser fu vista (dodici ore prima della scoperta dei suoi resti) indossava una vestaglia di tessuto sintetico, era seduta in una poltrona, fumava una sigaretta e aveva appena preso due pillole per dormire. Una volta che sono noti questi particolari, il mistero sembra svanire. Forse, la signora Reeser aveva preso sonno con la sigaretta ancora accesa, che poi le era caduta sulla vestaglia dando inizio all’incendio. L’imbottitura della poltrona e il grasso della donna possono avere alimentato per varie ore il fuoco, che in questi casi può essere molto basso e non generare fiamme. Il piede, infine, rimase intatto perché, probabilmente, quando le gambe della poltrona cedettero, nel cadere una gamba della signora si tese fuori dal raggio del fuoco.

In conclusione, la convinzione della comunità scientifica è che la teoria dell’autocombustione umana, per quanto suggestiva, non ha alcuna base scientifica e può avere spiegazioni alternative più semplici. «Le fotografie e i resoconti pubblicati finora su presunti casi di autocombustione», conclude Benecke, «possono essere spiegati da meccanismi ben noti che si ritrovano presso il sito dell’incidente. Non c’è alcun bisogno di inventare bizzarre reazioni chimiche o attività paranormali per spiegare ciò che viene erroneamente definito come “autocombustione umana”».

Per saperne di più

  • Nickell, J. Fiery Tales That Spontaneously Destruct. “The Skeptical Inquirer”, March/April 1988, (22) 2
http://www.csicop.org/si/show/fiery_tales_that_spontaneously_destruct/
  • Benecke, M. Spontaneous Human Combustion. Thoughts of a Forensic Biologist. “The Skeptical Inquirer”, March/April, 1998, (22) 2
http://www.benecke.com
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