Il vangelo della moglie di Gesù: un falso contemporaneo?

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  • 24-11-2016
  • di Roberto Labanti e Sofia Lincos
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©Wikimedia
Sono ormai passati quattro anni da quando Karen L. King, Hollis Professor of Divinity della Harvard University presentò, ad un convegno internazionale di coptologia che si stava tenendo a Roma in quel settembre 2012, un frammento di papiro con alcune righe di testo in copto, subito divenuto noto come “Vangelo della moglie di Gesù”, per le parole «Gesù disse loro: “Mia moglie [...]”». E con alta probabilità siamo infine giunti alla fine della vicenda.

Riassumiamo un poco la storia (si vedano Query 12 e 18). Il frammento era stato prestato all’università statunitense da un collezionista che intendeva rimanere anonimo. Per King il papiro, che in un primo tempo un esame paleografico aveva datato al quarto secolo ma che esami successivi alla presentazione romana avevano invece attribuito all’ottavo, sembrava essere l’unico testimone di un’opera gnostica non altrimenti sopravvissuta, forse risalente anche al secondo secolo. Un’opera che, è il caso di ripeterlo, non era utile per ricostruire la figura del “Gesù storico”, ma che avrebbe potuto esserlo per studiare idee e discussioni di quella particolare forma di cristianesimo.

In un intervento al convegno “Fragments of an Unbelievable Past? Constructions of Provenance, Narratives of Forgery” tenutosi a settembre presso l’università di Agder, in Norvegia[1], Liv Ingeborg Lied, una specialista di letteratura pseudoepigrafica presso l’università di Oslo, ha descritto diversi “approcci” discorsivi che attraversano quella che lei ha definito la “saga del vangelo della moglie di Gesù”[2]. Il principale è stato quello relativo all’autenticità del frammento: fin da subito, come i lettori ricorderanno, un agguerrito gruppo di coptologi aveva contestato l’autenticità del testo che compariva sul papiro. Secondo Lied, nella controversia che si è svolta su riviste accademiche (nel 2014 sull’Harvard Theological Review con la presentazione del papiro, mentre nell’estate del 2015 le tesi dei critici avevano avuto largo spazio su New Testament Studies), ma soprattutto su internet, attraverso blog e social network, si è vista “l’applicazione di metodi differenti”. Un primo gruppo comprende quelli propri dell’erudizione umanistica, “ad esempio analisi paleografiche, analisi grammaticali e comparazioni di testi letterari”: proprio il fatto che il testo sembrava dipendere da un errore tipografico in un’edizione del ventunesimo secolo era l’indicazione più importante che ci si trovasse di fronte ad un falso. Un secondo gruppo di metodologie era quello degli esami tecnico-scientifici (come l’analisi del radiocarbonio del supporto in papiro), su cui torneremo dopo.

Un diverso approccio discorsivo era invece relativo alla provenienza del reperto, ma si era scontrato con qualcosa che sembrava di difficile superamento: l’attuale proprietario, dicevamo, desiderava rimanere anonimo e King intendeva rispettare questa richiesta. Per risolvere la situazione è qui servito un diverso gruppo di metodi, forse sorprendenti in questo contesto: quelli giornalistici. Ciò è avvenuto principalmente grazie ad un’inchiesta di Ariel Sabar, uno dei pochi giornalisti che segue la vicenda da quando era ancora sotto embargo, sfociata in un lunghissimo articolo (14 pagine) apparso sul fascicolo di luglio/agosto di The Atlantic che ha scompaginato le carte in tavola, rivelando chi è il proprietario del frammento e suggerendo una soluzione per il caso[3].

Ma andiamo con ordine. Grazie ad una cortesia di King, dal 2012 Sabar era in possesso della corrispondenza, resa anonima, intercorsa fra la studiosa e il collezionista: fra il materiale trasmesso alla docente di Harvard c’era una fotocopia di quello che appariva essere il contratto di acquisto di sei papiri, nel novembre del 1999, da un tedesco, tale Hans-Ulrich Laukamp, che a sua volta affermava di averli acquistati a Potsdam nel 1963. La corrispondenza sembrava suggerire che la cessione fosse avvenuta negli USA, mentre il tedesco vi risiedeva. Laukamp, si era poi saputo, era morto nel 2002 mentre l’egittologo tedesco Peter Munro, autore di una presunta lettera a Laukamp (di cui King aveva solo una scansione di una fotocopia) era anch’egli scomparso nel 2009: nel 2012, quindi, nessuno dei due poteva ormai confermare il proprio ruolo nella storia. Proprio a partire da questo aspetto, i critici hanno sollevato dubbi sulla backstory del papiro, che poteva essere stata costruita da un falsario utilizzando come attori persone non più in vita. Nell’articolo sulla Harvard Theological Review, King si lamentava della “mancanza di informazioni” sulla provenienza ma sembrava di ritenere di non poter far di più.

Sabar si è chiesto se non si fosse piuttosto di fronte a “mancanza di investigazioni”. Attraverso dati pubblicamente accessibili, ha quindi scoperto che una persona che rispondeva al nome di Laukamp era vissuta con la moglie in Florida, tra il 1997 e il 1999. Costui, che non aveva terminato le scuole superiori e che per buona parte della sua vita era stato un artigiano (finché, nel 1995 non era riuscito a fondare con un altro socio un’azienda metalmeccanica), aveva effettivamente abitato a Potsdam, ma da qui, e dalla Repubblica Democratica Tedesca, era fuggito illegalmente, raggiungendo, presumibilmente già nell’ottobre 1961, la parte occidentale di una Berlino divisa in due da un Muro costruito qualche mese prima: perché due anni dopo sarebbe dovuto tornare oltrecortina, mettendo a rischio forse non solo la propria libertà personale, per acquistare dei papiri? Mentre era negli Stati Uniti Laukamp si era occupato della rappresentanza commerciale della sua azienda, insieme, come sempre Saber ha scoperto, con un altro immigrato tedesco giunto precedentemente, tale Walter Fritz. Ed è qui che le cose si fanno interessanti.

A Fritz, prima di Sabar, erano in realtà giunti anche altri critici. Il primo, probabilmente, era stato un giornalista canadese con una formazione storica, Owen Jarus, durante un’inchiesta per LiveScience[4]. Jarus non aveva pubblicato quel nome ma ne aveva parlato con il coptologo Christian Askeland, uno dei più agguerriti sostenitori della falsità del papiro. Questi aveva notato che in alcuni siti collegabili a Fritz e alla moglie erano in vendita supposti frammenti iscritti di papiri, cosa che, al di là della loro origine ed epoca di produzione, era un indizio del fatto che il tedesco avesse qualche interesse in questo campo. Askeland, a sua volta, aveva condiviso parte delle sue ricerche con Lisa Wangsness del Boston Globe: quest’ultima aveva allora individuato un articolo pubblicato nel 1991 da un Walter Fritz su Studien zur Altägyptischen Kultur sull’utilizzo della fotografia infrarossa per lo studio di una tavoletta egiziana. Secondo Askeland “diversi di noi [critici] erano convinti dall’ottobre del 2015 che Fritz avesse svolto un ruolo centrale nella saga del Vangelo della moglie di Gesù”[5]. Una convinzione che però non doveva essere ritenuta ancora abbastanza solida per essere resa pubblica.

Sabar, grazie ad un’inchiesta che si potrebbe definire di vecchio stile e che ha richiesto all’autore mesi di tempo e viaggi in Germania e negli Stati Uniti, è riuscito invece in maniera indipendente a ricostruire la storia di Fritz e del suo rapporto con il papiro. Secondo quanto da lui accertato, Fritz, a cavallo fra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90 era stato uno studente presso l’istituto di Egittologia della Freie Universität Berlin, dove aveva studiato anche con Munro: qui aveva scritto l’articolo relativo alla tavoletta egiziana che citavamo prima. Successivamente, dopo aver abbandonato gli studi universitari, aveva diretto per qualche tempo il museo di Berlino dedicato alla polizia politica della Germania orientale, prima di trasferirsi in Florida, dove aveva poi iniziato a lavorare per Laukamp.

Raggiunto da Sabar, in un primo momento Fritz non ha voluto ammettere di essere quello studente che si era ritirato dall'università quasi venticinque anni prima. Di fronte però all’evidenza che il giornalista ha raccolto nei mesi successivi non ha potuto fare altro che confermare l’identificazione, pur continuando per qualche tempo a negare di essere il proprietario del papiro.

Infine, all’inizio della primavera scorsa, Fritz ha riconosciuto di essere l’anonimo collezionista, raccontando al giornalista di come avrebbe conosciuto Laukamp a Berlino e di come questi gli avrebbe venduto i papiri nel 2009. La storia raccontata, però, per Sabar presenta delle incongruenze: quella principale è relativa al fatto che, nel momento in cui fu stipulato il contratto, Laukamp era rientrato in Germania per assistere la moglie morente. E, ad un occhio attento, la foto della copia della lettera di Munro che sarebbe dovuta servire da supporto per confermare una parte della storia mostrava di essere più tarda rispetto all’anno riportato, il 1982: «il carattere tipografico Courier non appare in nessun’altra lettera di Munro [che il giornalista è stato in grado di recuperare] fino ai primi anni ‘90, gli anni finali all’università di Fritz. Lo stesso vale per l’intestazione [...] iniziata ad utilizzare solo intorno all’aprile 1990». Indizi che, aggiunti a quelli già raccolti dagli altri studiosi, non possono che rafforzare l’ipotesi della fabbricazione.

Se il papiro è un artefatto contemporaneo, secondo Sabar, ogni indizio indica che «Fritz aveva le competenze e le conoscenze per falsificare il papiro della moglie di Gesù. Era l’anello mancante fra tutti gli attori [Laukamp, Munro] del racconto sulla provenienza. Si era dimostrato abile nel decifrare testi egiziani enigmatici [si riferisce all’articolo]. Aveva la parlantina di un venditore che ha affascinato Laukamp e forse altri. Forse più importante, aveva studiato copto, senza mai essere stato bravo con esso - cosa che potrebbe spiegare la “combinazione di goffaggine e raffinatezza” [che si rilevava nello scritto del papiro] che King aveva ritenuto “estremamente improbabile” in un falsario».

Perché farlo, però? Saber si avventura in una serie di ipotesi, che qui non è il caso di riprendere per i limiti dello spazio. Del resto, senza la cooperazione dell’autore, è sempre difficile individuare le ragioni che portano qualcuno a produrre un falso. Però, in questo caso, una parte importante può avere giocato il motivo che il giornalista indica come forse troppo semplice: un possibile desiderio di rivalsa verso l’élite accademica, che non l’aveva apprezzato vent’anni prima quando aveva dovuto o aveva deciso di abbandonare gli studi in egittologia nella natia Germania. L’essere riuscito a far superare lo scrutinio accademico ad una propria creazione potrebbe essere stata una sottile forma di vendetta.

Che ci si trovi di fronte ad un falso è ormai opinione della quasi totalità degli studiosi, «oltre ogni ragionevole dubbio» come dice Lied, anche in assenza di una confessione. Almeno fino ad ora, Fritz non ha mai ammesso di essere l’autore di un falso: si è limitato a dire, quando ancora negava di essere il proprietario del papiro che, in via ipotetica, se avesse voluto, «in una certa misura, probabilmente» sarebbe stato in grado di creare un falso, negando di averlo però realizzato. In quella stessa occasione, però, aveva anche detto che nessun proprietario aveva affermato che il frammento fosse autentico. Con quella che potrebbe essere oggi letta come ironia, aveva anche aggiunto che non era in grado di dire se un suo falso sarebbe stato assolutamente non rilevabile dai più recenti metodi scientifici.

Proprio gli esami scientifici, nel 2014, erano stati l’elemento cui era stato dato il peso maggiore: grazie a quei risultati King aveva potuto finalmente presentare il papiro sull’Harvard Theological Review. In realtà, per Lied, «[in] retrospettiva, e notando che il caso relativo all’autenticità è stato risolto [...] dalla combinazione di metodi umanistici e giornalistici, si potrebbe sostenere, ulteriormente, che gli esami scientifici sono stati quelli di minor successo, che hanno portato ad un vicolo cieco». Del resto, come si era scritto qui su Query, riecheggiando l’opinione di importanti studiosi, un falsario un poco accorto non avrebbe avuto particolari difficoltà ad utilizzare papiri ed inchiostri compatibili con un’età antica: come ha ricordato Jim Davila, professore di Studi del primo Giudaismo alla School of Divinity della University of St. Andrews in Scozia «non solo è possibile, in teoria, utilizzare vecchi materiali per un falso, ci sono casi in cui è stato fatto fin dal diciannovesimo secolo. Il falsario Constantine Simonides creò un falso palinsesto ([un supporto] il cui testo scritto è stato cancellato per poi essere utilizzato per un nuovo testo) utilizzando un autentico manoscritto antico per il testo riscritto. Creò anche un falso antico manoscritto del Vangelo di Matteo utilizzando un antico manoscritto ieratico cui aveva cancellato (in modo imperfetto [...]) il testo [originale]»[6].

Per quanto, almeno per ora, l’Harvard Theological Review non abbia intenzione di ritrattare l’articolo[7], dopo l'apparizione dell'inchiesta di Sabar anche Karen King ha cambiato opinione sul papiro: pur ritenendo ancora teoricamente possibile che sia autentico, sembra affermare che l’evidenza orienti verso l’ipotesi del falso[8]. Cosa di cui va dato credito alla studiosa di Harvard, prova della sua buona fede in tutta la vicenda. Ne è stata vittima, scelta per il tipo di studi che stava conducendo sullo gnosticismo.

Non si tratta, come abbiamo visto, di un problema nuovo. Però è una questione che giustamente inquieta sempre di più gli studiosi. Arstein Justnes, dell’università di Agder, citato dalla giornalista Nina Burleigh in un articolo apparso sul sito di Newsweek mentre stavamo scrivendo, è preoccupato: «C’è il pericolo reale che un numero crescente di contraffazioni siano accettate nei set di dati su cui basiamo la nostra conoscenza del mondo antico. [...] C’è bisogno di sviluppare al più presto strategie e metodi per contrastare questa minaccia»[9]. Lo (pseudo)Vangelo della moglie di Gesù è, per questo, un interessante caso di studio.

Note

2) Lied, L. I. 2016. Media Dynamics and Academic Knowledge Production: Tracing the Role of the Media in the Gospel of Jesus's Wife Saga. Draft preliminare disponibile all’url http://tinyurl.com/jjd73n7 ; ci si riferirà a questo testo con Lied.
3) Sabar, A. July/August 2016. The Unbelievable Tale of Jesus’s Wife. “The Atlantic”, vol. 318, n. 1, pp. 64-78, versione elettronica disponibile all’url http://tinyurl.com/z47gzw4 ; ci si riferirà a questa come Sabar.
7) http://tinyurl.com/h36bz5v , nota del 20 giugno 2016.
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