Dare un senso alla sofferenza: l'ipotesi del mondo giusto

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Di frequente sui social network e sui mass media si sente dire che la diffusione delle pseudoscienze è dovuta unicamente ad ignoranza e ottusità. Non c’è dubbio che a volte questi fattori abbiano un peso; ma le statistiche mostrano che anche persone intelligenti e istruite coltivano spesso convinzioni irrazionali[1], per un insieme di ragioni. Per esempio certe convinzioni pseudoscientifiche, pur essendo infondate, possono essere di aiuto dal punto di vista psicologico, perché soddisfano determinate esigenze come quella di dare uno scopo alla propria vita oppure di trovare un ordine nella natura o nell’universo[2].

In questo articolo in particolare vorrei esaminare il legame tra la visione del mondo e il modo in cui si interpreta la sofferenza. Innumerevoli filosofi e teologi cristiani si sono interrogati su come conciliare l’esistenza di un Dio onnipotente e infinitamente buono con l’esistenza del male nel mondo; ma il problema del male esiste per chiunque, religioso o no, consideri il mondo come un luogo fondamentalmente giusto, che alla lunga premia chi si comporta bene e punisce chi si comporta male: è una visione molto diffusa, che nella letteratura psicologica prende il nome di “ipotesi del mondo giusto”.

In particolare è difficile accettare che persone innocenti possano ammalarsi e soffrire senza avere alcuna colpa, perché questo implica che non siamo in grado di determinare il nostro destino e che ci può capitare di affrontare grandi sofferenze senza aver fatto niente di male. È più consolante pensare che chi si ammala abbia fatto qualche cosa di sbagliato per meritarlo: in questa maniera posso dirmi che se io mi comporterò bene non mi ammalerò.

Fino a un’epoca relativamente recente la medicina non ha fatto una distinzione chiara tra il piano fisico e quello morale nello spiegare la comparsa delle malattie.

Ancora all’inizio dell’Ottocento, quando il colera apparve nel mondo occidentale, la classe medica confondeva le spiegazioni naturalistiche con quelle di tipo moralistico. Il colera è causato da batteri presenti nell’acqua o nel cibo contaminati e colpisce più spesso i poveri perché sono i più soggetti a vivere in condizioni igieniche inadeguate o a essere indeboliti da mancanza di cibo, protezione e vestiti. All’epoca, però, la spiegazione più diffusa tra i medici attribuiva la maggiore diffusione del colera nelle classi più povere non tanto alle loro condizioni di vita quanto ai loro comportamenti, che un pregiudizio di classe riteneva immaturi e deprecabili. Per esempio, il consiglio medico della città di New York concluse nel 1832 che «in città la malattia è confinata agli imprudenti, agli intemperanti e a coloro che si fanno del male assumendo medicine improprie»[3].

Nel tempo l’idea che le malattie siano la conseguenza di un comportamento immorale ha trovato sempre meno spazio in medicina, ma nell’opinione pubblica non è mai scomparsa del tutto. Alcuni studi recenti, per esempio, hanno mostrato una correlazione tra un elevato grado di credenza nel mondo giusto e un atteggiamento di disprezzo nei confronti dei malati di AIDS, che si sarebbero meritati di ammalarsi con la loro condotta discutibile[4], mentre altri studi hanno trovato un risultato simile nei confronti dei malati di tumore ai polmoni[5], indigestione, polmonite e tumore allo stomaco[6].

Questo atteggiamento nei confronti dei malati può apparire crudele e incomprensibile. Durante il suo tirocinio come psicologo, nei primi anni Sessanta, l’americano Melvin Lerner notò con stupore che gli infermieri del centro in cui lavorava, pur essendo generalmente educati e gentili, potevano diventare rudi e sgarbati con i malati mentali che assistevano, fino a incolparli della loro malattia. Da qui Lerner iniziò a interessarsi del tema e in un famoso esperimento messo a punto con Carolyn Simmons avviò la ricerca sul “mondo giusto”[7]. In questo studio 72 soggetti osservavano in una televisione a circuito chiuso una donna sconosciuta che veniva sottoposta a un test di memoria e ogni volta che dava una risposta sbagliata subiva una dolorosa scossa elettrica (in realtà, all’insaputa dei partecipanti, non c’erano scosse elettriche e la donna era un’attrice che fingeva di provare dolore). A un sottogruppo di soggetti venne chiesto se intendevano sostituire il meccanismo delle punizioni per le risposte sbagliate con un rinforzo positivo, basato su premi per le risposte esatte, e quasi tutti accettarono. Quando vennero intervistati dopo l’esperimento, questi soggetti descrissero la donna come una vittima innocente che non meritava di essere punita. A un altro gruppo di soggetti non venne data questa possibilità: venivano semplicemente informati che la donna avrebbe continuato a subire scosse elettriche nella seconda parte dell’esperimento. Molti soggetti del secondo gruppo, quando furono intervistati, dissero che la donna meritava le scosse elettriche perché non si concentrava abbastanza o era incapace di imparare. In altre parole coloro che non avevano potuto impedire la sofferenza, non riuscendo ad accettare che fosse avvenuta ingiustamente, tendevano a immaginare delle motivazioni che la rendessero in qualche modo meritata: ciò che in psicologia viene chiamato “razionalizzazione post hoc”.

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Dall’epoca di Lerner e Simmons a oggi si sono svolti moltissimi esperimenti sulla credenza nel mondo giusto (una rassegna del 2005 ne elencava 66 nel solo periodo 1980-2005[8]), con una serie di modelli teorici e di interpretazioni diverse. Non è il caso di entrare qui nella discussione sui limiti e sulle prospettive di questo filone di ricerca. Vale la pena però di ricordare, oltre agli studi già citati sulla tendenza a incolpare gli ammalati, un altro filone di studi che ha preso in esame le vittime di violenza domestica, di stupro, di incidenti stradali, i poveri e i rifugiati. In tutti questi casi gli studi hanno mostrato una correlazione tra un alto livello di adesione all’ipotesi del mondo giusto e una minore empatia nei confronti delle vittime[9].

L’idea che una vittima di eventi causati da altri sia da punire anziché da aiutare è non solo fattualmente sbagliata, ma particolarmente odiosa. Per tentare di combattere questo pregiudizio, però, è necessario prima di tutto comprendere quali dinamiche lo generano, come un numero sempre più elevato di studi sociali cerca di fare. E sono proprio gli studi sul mondo giusto a indicare che la tendenza a colpevolizzare le vittime non nasce necessariamente da cattive motivazioni, ma in alcuni casi si origina dal bisogno di trovare un senso alla sofferenza umana. Paradossalmente, proprio la convinzione che ci sia una giustizia immanente nel mondo può portare a comportamenti che perpetuano l’ingiustizia invece di contrastarla.

Ritornando alla domanda iniziale sulle cause della diffusione di convinzioni irrazionali, gli studi come quelli sul mondo giusto ci permettono di capire che disinformazione e stupidità non sono le uniche ragioni, ma che ci sono altre motivazioni che rispondono a esigenze psicologiche profonde. Questa consapevolezza di per sé non è sufficiente per capire come contrastare l’irrazionalità, ma ci aiuta quantomeno a togliere di mezzo i presupposti sbagliati che potrebbero portarci fuori strada.

Note

1) Si possono citare in proposito gli studi di Daniel Kahneman, riassunti nel libro Pensieri lenti e veloci (Milano: Mondadori, 2012).
2) A tale proposito segnalo questo articolo, purtroppo non ancora tradotto in italiano, che analizza il legame tra le pseudoscienze e i concetti di finalismo (l’idea che l’universo abbia uno scopo) e vitalismo (l’idea che l’universo sia pervaso da un principio vitale): Blancke, Stefaan & De Smedt, Johan, “Evolved to be Irrational? Evolutionary and Cognitive Foundations of Pseudoscience”, in Pigliucci, Massimo & Boudry, Maarten (Eds.), Philosophy of Pseudoscience.
3) Charles E. Rosenberg, The Cholera Years: The United States in 1832, 1849 and 1866, Chicago: University of Chicago Press, 1962.
4) Furnham, A. & Procter, E., “Sphere-specific just world beliefs and attitudes to AIDS”, in Human Relations, Vol. 45, No. 3, pp. 265-280, 1992.
5) Braman, A.C., & Lambert, A.J., “Punishing individuals for their infirmities: Effects of personal responsibility, just-world beliefs, and in-group/out-group status”; Journal of Applied Social Psychology, Vol. 31, No. 5, pp. 1096–1109, 2001.
6) Gruman, J.C., & Sloan, R.P., “Disease as Justice: Perceptions of the Victims of Physical Illness”, in Basic and Applied Social Psychology, Vol. 4, No. 1, pp. 39-46, 1983.
7) Lerner, M. & Simmons, C. H., “Observer’s Reaction to the ‘Innocent Victim’: Compassion or Rejection?”, in Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 4, No. 2, pp. 203-210, 1966.
8) Hafer, C. L., & Bègue, L., “Experimental Research on Just-World Theory: Problems, Developments, and Future Challenges”, in Psychological Bulletin, Vol. 131, No. 1, pp. 128–167, 2005.
9) Molti di questi studi sono citati in Hafer, C. L., & Bègue, L. (2005).


1. Fondamentalmente, il mondo è un posto giusto. (G)
2. Il candidato politico che si attiene ai propri principi raramente viene eletto. (I)
3. Ho trovato che le persone raramente meritano la loro reputazione. (I)
4. Coloro che trovano del denaro per strada spesso avevano fatto una buona azione il giorno stesso. (G)
5. È un caso frequente che persone colpevoli vengano assolte nei tribunali americani. (I)
6. I film nei quali il bene trionfa sul male sono irrealistici. (I)
7. Gli studenti meritano quasi sempre i voti che prendono a scuola. (G)
8. Sebbene ci possano essere alcune eccezioni, in
genere le persone buone conducono vite di privazioni. (I)
9. È spesso impossibile per una persona avere un processo equo negli USA. (I)
10. In quasi tutti gli affari e le professioni, coloro che fanno bene il proprio lavoro arrivano al vertice. (G)
11. Sebbene uomini malvagi possano conquistare potere politico per un po’, nel corso generale della storia il bene prevale. (I)
12. Nel complesso, le persone meritano ciò che accade loro. (G)
13. I genitori americani tendono a trascurare le cose che dovrebbero ammirare di più nei loro figli. (I)
14. È raro che un uomo innocente venga incarcerato ingiustamente. (G)

La “scala del mondo giusto” usata da Rubin e PeplauRubin, Z., & Peplau, A., “Belief in a Just World and Reactions to Another's Lot: A Study of Participants in the National Draft Lottery”, in Journal of Social Issues, Vol. 29, No. 4, pp.73-93, 1973. per valutare l’accordo dei partecipanticon affermazioni che vedono il mondo come giusto (G) e ingiusto (I). Il lettore può usarla per giocare a misurare il proprio livello di adesione all’ipotesi del mondo giusto.

Per saperne di più


La letteratura sulla “credenza nel mondo giusto” è molto ampia e non si limita alla psicologia e alla sociologia ma spazia dal campo giuridico a quello economico. Per chi volesse approfondire il tema provo a suggerire qualche testo in cui mi sono imbattuto durante la stesura di questo articolo.
  • William Ryan, Blaming the victim, New York: Vintage, 1971.
  • Melvin Lerner, The Belief in a Just World: A Fundamental Delusion, New York: Plenum Press, 1980.
  • Roland Bénabou & Jean Tirole, Belief In A Just World And Redistributive Politics, in "The Quarterly Journal of Economics", May 2006. vol. 121, n. 2, pp. 699-746, 2006.
  • Helen Dale, N Guilty Men: Rejecting the ‘Just World’ Hypothesis, "The Skeptic" N. 25, Vol. 2, p. 10, 2014.
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