Novità sullo yeti? Non proprio

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  • 20-01-2018
  • di Roberto Labanti
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“«Lo yeti? È soltanto un orso». Il test del Dna smonta la leggenda” ha titolato il 30 novembre scorso QN (il dorso nazionale de Il Giorno, il Resto del Carlino e La Nazione), in un articolo dello storico corrispondente da New York del quotidiano, Giampaolo Pioli; in taglio basso, un’intervista all’alpinista Reinhold Messner che, ancora una volta, ricordava che quella era un’ipotesi che aveva già espresso in passato. Non da meno è stato il Corriere della Sera dello stesso giorno con un articolo dello scrittore Tullio Avolado intitolato: “La scienza uccide il mitico yeti”.

La questione, come sempre, è più complicata rispetto a quello che appare nei titoli dei giornali. L’interesse mediatico è dovuto ad un articolo open access di Tianying Lan et al. (l’autore principale è Charlotte Lindqvist), che ha un titolo che sembra fatto apposta per attirare l’attenzione dei media (per un redattore lo yeti è interessante, l’evoluzione degli orsi - seppure tibetani - molto meno): “Storia evolutiva di enigmatici orsi dell’Altopiano del Tibet-regione himalayana e l’identità dello yeti”. Pubblicato sul fascicolo del 6 dicembre della rivista scientifica inglese Proceedings of the Royal Society B - Biological Sciences, è stato reso disponibile sul sito del periodico già il 29 novembre. Se lo si scorre, però, si nota subito che di “abominevoli uomini delle nevi” si parla poco[1]. E si capisce che i risultati che riguardano direttamente queste supposte creature non sono del tutto inediti.

Ma andiamo con ordine. I lettori di questa rivista forse ricorderanno che qualche tempo fa (vedi Query 10 e Query 21) avevamo descritto i risultati dell’Oxford-Lausanne Collateral Hominid Project, un progetto di ricerca che aveva come scopo quello di studiare, attraverso le metodologie della genetica forense, peli attribuiti a yeti o a figure leggendarie similari come Bigfoot e Sasquatch. In un articolo pubblicato nel 2014, sempre sulla stessa rivista dove è ora apparso quello del 2017, il genetista Brian Sykes e i suoi collaboratori avevano presentato gli esiti delle loro indagini.

Limitiamoci qui a menzionare i tre campioni dell’area himalayana che presentavano DNA analizzabile: uno, nepalese, era attribuibile a un capricorno di Sumatra, gli altri due, ed era la cosa sorprendente, ad Ursus maritimus, l’orso polare. Scrivevamo allora che «il primo campione, identificato con il codice 25025, è stato fornito da uno dei co-autori, C. Hagenmuller, che l’avrebbe ricavato all’inizio del secolo dalla pelliccia di un animale non identificato ucciso una trentina di anni prima e oggi conservato in un villaggio non meglio precisato nei dintorni di Ladakh (India). L’altro, 25191, è invece quanto resta di un pelo che, intorno al 2001 in Bhutan, un biologo evoluzionista, Robert McCall, aveva recuperato da quello che una guida del posto aveva identificato come un covo di mi-go [...]. Secondo gli autori le due sequenze combaciano con quella di un [sub]fossile di U. maritimus di circa 40.000 anni fa rinvenuto nelle Isole Svalbard, nel Mar Glaciale Artico e descritto in un articolo del 2010, ma non con quelle di esemplari moderni della specie». Aggiungevamo che si trattava di una svista: fra le sequenze elencate in quest’ultimo articolo, la più simile a quelle di Sykes era quella di un orso polare moderno. E, al di là di questo evidente errore, i risultati erano stati accolti con scetticismo: come ricorda il nuovo articolo «Il corto frammento genetico di 125 rRNA [scelto da Sykes per le sue indagini] contiene informazioni non sufficienti a determinare identità tassonomiche precise, in particolare fra specie strettamente imparentate, anche se può essere un indicatore per una valutazione preliminare delle affinità fra specie». L’ipotesi più economica che Sykes avrebbe dovuto prendere in considerazione era che le sequenze “anomale” fossero comunque attribuibili a Ursus arctos, l’orso bruno.

Pare che Charlotte Lindqvist, una biologa evoluzionista della University of Buffalo (una delle sedi della State University of New York), oggi in visita presso la Nanyang Technological University di Singapore, si fosse tenuta, tre anni fa, al di fuori della disputa, nonostante sia considerata una delle maggiori esperte di genetica degli orsi e stia proprio studiando l’evoluzione degli orsi polari. Anzi, di quell’articolo del 2010 è la prima autrice: come ricorda oggi, in un’intervista ad un sito di comunicazione scientifica danese, quello della svista di Sykes «[e]ra un orso polare con cui avevo lavorato. Era il mio lavoro[2]».

È davvero possibile che in Tibet ci fosse una forma sconosciuta di orso, un ibrido con un orso polare? La casa produttrice che aveva contribuito a finanziare le ricerche di Sykes, la Icon Film, decise che a questa domanda si poteva tentare di dare una risposta con un nuovo documentario: Yeti or not (andato in onda il 29 maggio 2016 su Animal Planet e in Italia trasmesso su Discovery Channel il 18 settembre 2017 col titolo Il mostro della montagna).

Questa volta però venne deciso di rivolgersi proprio a Lindqvist: «[h]o messo in discussione le conclusioni e ho detto [loro] che se volevano proseguire, avrebbero dovuto avere analisi del DNA più approfondite e altri campioni» racconta sempre nell’intervista danese. Ed è stato quello che la Icon ha cercato di fare.

Alcuni dei resti che sono stati studiati in questa occasione sono conservati proprio qui in Italia. Quattro campioni, infatti, provengono dal Messner Mountain Museum, il circuito museale creato dall’alpinista sud-tirolese - che compare nel documentario - in Alto Adige e nel Bellunese: il tessuto essiccato della pelle di una «zampa d’orso» (dichiarata tale già nella tabella che elenca i vari campioni) trovata nel 1996 nell’Altopiano del Tibet; feci raccolte in una zona della parte orientale dello stesso altopiano in cui sarebbero osservati dei chemo (uno dei nomi locali dello yeti), nonché un dente e un pelo provenienti da una delle due preparazioni tassidermiche di chemo risalenti alla spedizione tedesca in Tibet del 1938-39. Quest’ultimo era stato esaminato da Sykes e gli era parso «composto con parti di diversi animali», un patchwork. Non era però riuscito a recuperare DNA utile e quindi ne aveva parlato solo nel suo libro del 2015, The Nature of the Beast: un testo che non risulta dalla bibliografia del nuovo articolo (e in un’intervista alla radio canadese CBC Lindqvist sembra abbia maturato indipendentemente la stessa conclusione[3]).

Altri cinque campioni, invece, erano di diversa origine: un pelo, prelevato nel 2014, di un animale mummificato conservato in un monastero della zona fra Zanskar e Ladakh, in India (fornito da un produttore della stessa Icon, Harry Marshall); un altro pelo che un gesuita aveva reperito nel 1959 nella valle del Barun, in Nepal (fornito da Charles Allen); un frammento di femore che il guaritore Pemba Tashi avrebbe tratto da un corpo in decomposizione - ritenuto di un mheti - in una grotta dell’Altopiano Tibetano nel 2008-9; infine due reperti nepalesi: un pelo raccolto da un mandriano, Sonam Norbu, nel 2014 a Chumjung e il tessuto essiccato della pelle di una zampa di un supposto mheti, una reliquia di un monastero di Tsarang.

I campioni sono stati trasferiti nei laboratori di Lindqvist e collaboratori, dove è stata effettuata una serie di analisi più approfondite rispetto alle precedenti, amplificando il DNA ed assemblando i genomi mitocondriali, quelli trasmessi per via materna.

C’era uno yeti? Purtroppo no. Esaminiamo i risultati, lasciando un attimo da parte il chemo del 1938-39. Degli altri sette campioni, sei erano di U. arctos. In particolare, quello di Ladakh, che come dicono gli stessi autori potrebbe corrispondere a quello identificato da Sykes come 25025, era attribuibile alla sottospecie isabellinus (orso bruno himalayano): nessun orso polare. Gli altri cinque appartenevano a un’altra sottospecie di U. arctos, pruinosus (orso bruno tibetano o azzurro), compreso il femore di Tashi. Infine, la reliquia di Tsarang, località solo ad una ventina di km da Chumjung, era di un’altra specie di orso, U. thibetanus, noto anche come orso della luna.

E il chemo che a Sykes era apparso un patchwork? Questa volta è stato possibile estrarre il DNA: la pelliccia era ancora una volta di un U. arctos pruinosus, mentre la dentatura era di... cane (Canis lupus familiaris), forse esempio fra i tanti delle libertà che potevano prendersi i tassidermisti nelle ricostruzioni.

Questi risultati, però, erano già stati presentati nel corso del documentario. Sono altre le novità dell’articolo. Come ha raccontato Lindqvist nella bella intervista ad Eleonora Degano per Oggiscienza «il motivo principale per cui ho intrapreso la ricerca è il mio interesse per l’evoluzione degli orsi. I dati genetici sono limitati, sappiamo poco riguardo agli orsi che vivono nella regione himalayana e alle loro parentele con gli altri orsi bruni del pianeta»[4]. Perché allora non cogliere l’occasione delle analisi sui supposti yeti per provare a capirci qualcosa di più?

Agli otto campioni di natura ursina di cui abbiamo parlato sopra ne ha aggiunti altri quindici, anch’essi attribuiti con certezza ad orsi: feci raccolte durante lavoro sul campo nel nord del Pakistan fra 2010 e 2011, peli da orsi di zoo pakistani e, infine, un osso conservato in un museo di New York, proveniente anche in questo caso da un animale tenuto in cattività.

Cos’è risultato? U. arctos pruinosus, diffuso attualmente nell’Altopiano tibetano sud-orientale, appare avere un antenato comune con gli altri orsi bruni euroasiatici e nordamericani oggi esistenti, confermando così un’ipotesi precedente che proponeva che il distacco e la conseguente migrazione verso il Tibet fossero avvenuti in un periodo interglaciale, intorno a 343mila anni fa.

Diverso è invece il caso dell’altra sottospecie, isabellinus, che si trova ora nella regione himalayana nord-occidentale: le nuove indagini, che hanno permesso per la prima volta di sequenziare un genoma mitocondriale completo, mostrano infatti che essa ha avuto origine da una popolazione antica rimasta isolata fra queste montagne almeno da 658mila anni, durante il periodo glaciale conosciuto come Nyanyaxungla. Per quanto le due sottospecie si trovino in aree vicine, le catene montuose hanno probabilmente impedito il rimescolamento.

Come per isabellinus, anche per U. thibetanus laniger, che oggi è presente fra Pakistan, Kashmir e il piccolo regno del Bhutan (da dove veniva, come abbiamo scritto sopra, l’altro presunto U. maritimus di Sykes, a questo punto probabilmente un U. arctos, anche se dispiace che non sia stato possibile ri-analizzarlo), non esisteva un genoma mitocondriale completo. Pur tenendo conto dello scarso numero di campioni reperiti (due: quello della reliquia che abbiamo visto sopra e quello di un animale che vive in uno zoo pakistano) i risultati dei nuovi studi sembrano indicare che questa sottospecie, in modo analogo ad isabellinus, abbia avuto origine dall’isolamento di un’antica popolazione avvenuta durante lo stesso lungo periodo interglaciale della migrazione di pruinosus, stavolta verso 475mila anni fa. Ancora una volta le montagne l’avranno mantenuta separata dalle altre sottospecie presenti più verso oriente.

Al di là della curiosità delle storie di yeti, sono queste le vere novità di quello studio. Oggi sappiamo, è vero, qualcosa di più su una serie di reperti “strani”. Soprattutto, però, sappiamo di più sugli orsi del Tibet. Ed è una buona cosa. Anche per poterli preservare.

Note

1) Lan, T. & al. 2017. Evolutionary history of enigmatic bears in the Tibetan Plateau–Himalaya region and the identity of the yeti. "Proceedings of the Royal Society B - Biological Sciences" vol. 284, n. 1868, 20171804, disponibile all'url http://bit.ly/2Aefkms

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