La verità sull'inganno

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  • 16-07-2018
  • di Nicola Palena
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Dal telefilm LIE TO ME ©Tim Roth
Tutti vorremmo essere in grado di capire sempre quel che gli altri pensano. Allo stesso modo, tutti vorremmo essere in grado di scoprire se una persona mente. Non è quindi un caso che serie televisive come Lie to Me e The Mentalist abbiano avuto molto successo. Capire gli altri e riconoscere le menzogne sono due aspirazioni degli esseri umani. Per due ragioni: la nostra natura sociale e il nostro bisogno di controllo sugli eventi. È possibile che queste siano anche tra le cause del grande interesse verso il mentalismo.

Ma prima di tutto, che cos'è la menzogna? La domanda non è di facile risposta e gli scienziati si sono a lungo confrontati per trovare una definizione condivisa. Una delle prime è stata proposta da Mitchell[1], secondo cui mentire equivale a fornire false informazioni che tendono a procurare beneficio al bugiardo. A prima vista questa definizione può sembrare adeguata, ma riflettiamo per un momento: prestigiatori e mentalisti devono talvolta usare l'inganno. Sono quindi dei bugiardi? La stessa cosa succede quando andiamo a teatro. Gli attori recitano una parte e quindi, di fatto, non sono onesti nel momento in cui si presentano per ciò che non sono. Stanno mentendo anche loro? La risposta è ovviamente no. Difatti, chi va a teatro o assiste ad uno spettacolo di magia è ben cosciente del fatto che un attore deve recitare una parte. Questa sorta di silent agreement tra le parti in gioco (ovvero un accordo implicito tra attore e spettatore) fa sì che non possiamo ritenere maghi ed attori dei bugiardi, almeno fino a quando non cercano di trarre dei benefici secondari a sfavore della controparte, come può accadere in alcune truffe.

La definizione di menzogna di Ekman[2] è più chiara e precisa, dal momento che sottolinea come una comunicazione dovrebbe essere etichettata come menzognera solo quando la fonte del messaggio non informa il ricevente delle proprie intenzioni (e cerca di trarre qualche beneficio).

Dopo aver chiarito il concetto, ponete a voi stessi questa domanda: riesco a capire quando mi stanno mentendo? Molto probabilmente avete risposto affermativamente ma... purtroppo le cose non stanno così.

Diverse ricerche sperimentali hanno evidenziato che le persone sono poco accurate nel valutare la credibilità degli altri e che l'avere fiducia nelle proprie capacità non è in relazione con l'effettiva accuratezza.

Solitamente, in queste ricerche ai partecipanti vengono fatti vedere dei video, nei quali compaiono delle persone che rispondono alle domande di un intervistatore o raccontano una loro esperienza. Alcune di queste dicono la verità, mentre altre mentono. I partecipanti devono indicare se, secondo loro, la persona ritratta in video mente o meno. Molto spesso viene anche chiesto loro di dire quanto si sentono sicuri della loro risposta. Utilizzando questo paradigma di ricerca, un lavoro di Bond e DePaulo[3] ha evidenziato che abbiamo un'accuratezza media del 54 per cento: non molto lontano dalla performance che otterremmo decidendo con il lancio di una monetina. Allo stesso modo, una meta-analisi di DePaulo e colleghi[4] ha mostrato che la correlazione tra il livello di accuratezza e la fiducia nelle proprie capacità non era statisticamente significativa.

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Un dato ancora più interessante, e a suo modo preoccupante, è che anche figure come i poliziotti non riescono solitamente a ottenere risultati migliori in compiti di valutazione analoghi. In un esperimento che valutava l’accuratezza di appartenenti alle forze di polizia[5], cinquantadue poliziotti hanno visionato registrazioni di dichiarazioni pubbliche nelle quali delle persone chiedevano di essere aiutate a cercare un parente scomparso o a trovare il responsabile dell’omicidio di un parente. Tutte le persone ritratte in video erano in realtà proprio i responsabili dell’omicidio di quei parenti, ma i cinquantadue poliziotti non erano a conoscenza di questa informazione. I risultati hanno evidenziato che i poliziotti avevano un’accuratezza media del cinquanta per cento, non diversa quindi dal puro caso, e che la relazione tra accuratezza e fiducia nelle proprie risposte non era significativa. Questo studio ha avuto particolare impatto in quanto i video esaminati dai poliziotti erano reali, ritraevano cioè persone che avevano davvero commesso un omicidio. In questo modo è stato possibile dimostrare che la bassa accuratezza dei poliziotti non era dovuta al fatto che essi venivano sottoposti alla visione di video creati in laboratorio, come in ricerche precedenti, nelle quali si poteva dubitare dell’aderenza dei video a situazioni reali di menzogna. L’esperimento sopra riportato ha invece mostrato che il campione in esame (i poliziotti che hanno partecipato allo studio) ha avuto una bassa accuratezza, nonostante fossero stati loro presentati video reali.

Ad ogni modo, è giusto sottolineare che alcune ricerche hanno evidenziato anche maggiori livelli di accuratezza. Mann e colleghi[6] hanno trovato che i poliziotti che hanno partecipato al loro studio avevano un’accuratezza media del sessantasei per cento nel classificare correttamente le persone oneste e del sessantatré nel classificare le persone disoneste. Sebbene questo non equivalga ad un’accuratezza molto alta, essa è comunque migliore di quella che si ottiene per puro caso.

Ma perché questo accade? Ovvero, perché anche i poliziotti non raggiungono, in media, una buona accuratezza? Prima di tutto, abbiamo convinzioni sbagliate riguardo a quali siano gli indizi di menzogna. La maggior parte delle persone ritiene che i bugiardi spostino lo sguardo e si agitino molto, ma questo non è ciò che effettivamente[7] accade, come spiega il box 1. Gli indizi di menzogna sono altri, e sono legati a processi psicologici di ordine superiore, quali ad esempio il carico cognitivo - ovvero il processare a fondo ed in modo profondo cosa dobbiamo dire e come dobbiamo dirlo - e al funzionamento della memoria.


BOX 1 Gli indizi di menzogna che non funzionano


Ecco una lista di quegli indizi cui normalmente prestiamo attenzione quando cerchiamo di valutare l'onestà di un nostro interlocutore che però, di fatto, non paiono essere legati all'inganno[8]:

1. Lo sguardo: tendiamo a dire che se una persona non ci guarda negli occhi sta mentendo
2. Esitazioni
3. Gesti adattatori: ovvero accarezzarsi o stropicciarsi le mani, accarezzarsi i capelli o altre parti del corpo
4. Maggiore frequenza dei movimenti di mani e piedi
5. Cambiare la nostra posizione su una sedia o la postura da in piedi molto frequentemente
6. Contraddizioni
7. Portare la mano alla bocca[9]
8. Stropicciarsi naso o occhi[9]
9. Grattarsi il collo o spostarsi il colletto della camicia[9]
10. Scrollare le spalle[9]

Gli esperti del Global Deception Research Team[10] hanno proposto che questi indizi stereotipici potrebbero essersi sviluppati a partire da una originaria intenzione di scoraggiare l’atto di mentire, culturalmente visto come inappropriato.

Siccome mentire è ritenuto scorretto, chi mente dovrebbe provare disagio. Per questo le persone cercano nel loro interlocutore degli indizi di disagio, che sarebbero la prova del fatto che sta mentendo.

Alcuni potranno pensare a questo punto che scoprire l'inganno sia impossibile. Effettivamente, il compito è molto difficile, ma un primo passo per migliorare è quello di fare affidamento su indizi di menzogna più accurati, che la letteratura scientifica ha mostrato essere buoni predittori della menzogna. Il box 2 ne presenta i principali.


BOX 2 Gli indizi di menzogna più rivelatori


1. Movimenti fini di mani e dita: in passato c'è stato molto disaccordo su quanto la frequenza degli illustratori potesse rivelare l'inganno. Alcuni autori sostenevano che chi mente utilizza più illustratori, altri il contrario. Il professor Vrij dell'Università di Portsmouth in particolare ha analizzato i movimenti fini di mani e dita[11] - ovvero quei movimenti che avvengono senza spostamento delle braccia - ed ha trovato un calo nella frequenza. Studi successivi hanno confermato questa ipotesi[12]

2. Il tono di chi mente appare solitamente più acuto[13]

3. Tempo di latenza delle risposte: se chi mente non ha avuto modo di preparare e ripetere la bugia, impiegherà più tempo per cominciare a rispondere alle domande[14]

4. Pause: la pause di chi mente possono essere più lunghe di quelle di chi è onesto, sebbene di rado cambino in frequenza[14][15]

5. Dettagli: chi mente tende a fornire meno dettagli riguardanti l'aspetto centrale del racconto, e soprattutto meno dettagli che possono essere verificati[16]

6. In particolare, chi mente inserisce meno dettagli spaziali, temporali e percettivi nel proprio racconto rispetto a chi è onesto[17]

Una cautela è necessaria: la validità di questi indizi è stata verificata in diversi campioni sperimentali, ma è indicativa di una tendenza generale, non costituisce una regola. Non bisogna infatti dimenticare due aspetti chiave se vogliamo diventare esploratori dell'inganno:

1. Non esiste alcun indizio direttamente legato alla menzogna. Infatti ciò che può essere considerato un indicatore di un inganno è in realtà legato all'aumentato carico cognitivo (indizi uno, tre e quattro), ad una maggiore tensione emotiva (indizio due) e ai processi di memoria (indizi cinque e sei), non alla menzogna in sé

2. Persone diverse possono mostrare indizi diversi, e la stessa persona può mostrare indizi di menzogna diversi a seconda del contesto

Inoltre, al contrario di ciò che molti ritengono, gli aspetti verbali sono indizi più affidabili rispetto alla comunicazione non verbale[18]. Per questa ragione sono stati sviluppati degli strumenti di analisi del contenuto verbale che vengono utilizzati come supporto in procedimenti legali o nella ricerca scientifica. I due più significativi sono la Statement Validity Assessment (SVA) ed il Reality Monitoring[19]. Si tratta di griglie di analisi del contenuto costruite a partire dalle conoscenze che abbiamo circa il funzionamento della memoria, che si basano sul grado di presenza di specifici elementi nel racconto. Il box 3 approfondisce questo tema.

BOX 3 Gli strumenti per analizzare la veridicità di un resoconto


Sia la Statement Validity Assessment (SVA) che il Reality Monitoring partono dal presupposto che il racconto di un evento di cui si sia fatta esperienza diretta sia qualitativamente differente dal racconto di un evento inventato[20] e che queste differenze qualitative trovino una loro corrispondenza nei modi di costruzione del racconto.

Ci si può chiedere perché un evento realmente vissuto ed uno inventato dovrebbero determinare differenze nei rispettivi resoconti.

La risposta è che quando viviamo realmente un evento lo percepiamo attraverso i nostri sensi, lo collochiamo in uno specifico spazio e tempo, e per questa ragione lo raccontiamo in maniera coerente e logica e riusciamo a riportare molti dettagli.

Questi (ed altri) aspetti sono trasformati nei criteri di cui sopra.

Ad esempio, tra quelli della SVA troviamo, tra gli altri:

1. Logicità del racconto e sua coerenza
2. Livello di strutturazione del racconto
3. Quantità di dettagli
4. Inserimento di dettagli che collocano spazialmente e temporalmente l’evento
5. Descrizione di interazione con altre persone

Attenzione però: sebbene la SVA sia utilizzata in diversi Stati (tra cui l’Italia) dai consulenti dei tribunali, e sebbene in alcuni Stati Europei sia persino accettata come prova in tribunale, anche essa presenta dei limiti che diventano molto rilevanti in un contesto giuridico. Ad esempio, sappiamo che l’accuratezza della SVA nel valutare la credibilità di una persona è mediamente del settanta per cento, una percentuale ben lontana dalla perfezione. Inoltre altri fattori, come l’età e il livello di sviluppo linguistico dell’intervistato o la modalità di conduzione dell’intervista, possono alterare i risultati[21]. Questo non toglie che SVA ed RM possano dimostrarsi utili strumenti di supporto alle indagini.

Se si desidera approfondire questi strumenti, che sono molto tecnici, è consigliata la lettura del libro Detecting Lies and Deceit: Pitfalls and Opportunities del Professor Vrij[22].

Probabilmente qualcuno avrà notato, tra gli indizi di cui abbiamo parlato fin qui, l'assenza delle microespressioni, che sono espressioni facciali di sorpresa, paura, tristezza, disgusto, rabbia, disprezzo e felicità della durata minore di 1/5 di secondo. Da quando la serie Lie to Me è andata in onda in televisione, anche in Italia c'è stato un boom di corsi, seminari e training per affinare la propria capacità di interpretare le microespressioni, che vengono presentate come un buon indice per discriminare tra verità e bugia. Purtroppo però le cose non stanno così: il professor Porter e la sua collega ten Brinke[23] hanno indagato quanto le microespressioni possano essere utili nello smascherare i bugiardi, ma hanno trovato che queste apparivano molto meno frequentemente di quanto si pensi e che, invece, sono le espressioni parziali a poter essere d'aiuto[24]. Per farlo hanno chiesto ai partecipanti al loro studio di guardare alcune foto che avrebbero causato una reazione emotiva, dando loro il compito di mascherare, simulare o neutralizzare le proprie espressioni facciali e ne hanno videoregistrato le reazioni. Ottenuti questi video, li hanno analizzati per rilevare la presenza e la durata delle microespressioni facciali. Gli autori hanno trovato che nessun partecipante ha mostrato una microespressione completa, ovvero una espressione facciale della durata minore di 1/5 di secondo che venisse espressa su tutto il viso. Delle 697 espressioni analizzate, quattordici erano invece microespressioni parziali, ovvero espressioni di durata minore di 1/5 di secondo, espresse solo nella parte superiore o inferiore del viso. Solo il venticinque per cento dei partecipanti ha mostrato almeno una di queste microespressioni parziali: non è molto, ma il dato va rapportato con il fatto che nessuno ha invece mostrato una microespressione completa.

Resta comunque necessaria molta cautela nel trarre conclusioni. Infatti, la presenza di un’espressione emotiva sul volto ci dice solo che il nostro interlocutore sta provando un’emozione, ma non ci dà alcuna indicazione del perché essa è presente né tanto meno ci indica con certezza la presenza di un inganno, anche quando essa è incongruente con il messaggio verbale. Non possiamo quindi mai concludere “mi stai mentendo perché hai avuto una microespressione di disprezzo”!

E per quanto riguarda i corsi che promettono di aumentare la nostra capacità di capire se abbiamo di fronte un bugiardo? Ce ne sono davvero molti e spesso chi li offre si presenta come un esperto lie detector, ma raramente dice come lo è diventato. Se si vuole partecipare ad un corso o a un seminario ci sono alcune accortezze da seguire prima di iscriversi, anche perché spesso viene richiesto di pagare cifre molto alte ai partecipanti:

1. Chi tiene il corso e quali sono le sue qualifiche. Sono accademici o businessmen? Spesso infatti vengono offerti dei corsi tenuti da persone che, dopo aver letto qualche libro, ritengono di avere le capacità per insegnare a scoprire la menzogna. Da questo punto di vista, è meglio se i docenti sono ricercatori accademici, che conoscono bene la letteratura scientifica specifica.

2. La letteratura scientifica ha mostrato che, anche dopo essere stati formati, la propria performance non migliora di molto[25]. Ad esempio, nell’esperimento di Porter e colleghi[26] i partecipanti sono stati valutati, nella loro accuratezza, prima e dopo aver partecipato ad un corso che insegnava loro a scartare quegli indizi che non sono legati alla menzogna e a cercare quelli che la letteratura scientifica mostra esservi associati. Inoltre è stato anche fornito loro un feedback durante il corso. Il risultato fu che l’accuratezza dei partecipanti nel valutare correttamente la menzogna prima di essere sottoposti al training era di circa il cinquantuno per cento; dopo il corso erano arrivati ad un’accuratezza media di circa il sessanta per cento: appena la sufficienza. Lo studio indica quindi che i training sugli indizi di menzogna permettono solo un modesto miglioramento della propria capacità di scoprire le bugie. Va anche osservato che in alcuni studi i partecipanti sono stati formati con informazioni fuorvianti ed hanno comunque mostrato un miglioramento. In quello di Levine e colleghi[27] ad esempio, chi era stato sottoposto ad un training in cui veniva insegnato ai corsisti di cercare indizi di menzogna che però non sono in realtà in relazione con essa, aveva avuto un’accuratezza più alta di chi non era stato sottoposto ad alcun tipo di formazione.

Questo risultato si può spiegare se si considera che non è tanto il contenuto del corso che rende possibile un miglioramento, quanto il fatto che le persone vengono spronate ad osservare in modo più analitico i video che devono giudicare. Questo consente di ridurre l'impatto dei bias che possono ostacolare una accurata formulazione di un giudizio. Tra questi possiamo elencare il bias di conferma (che ci porta a considerare solo quegli indizi che sono a favore della nostra ipotesi e a scartare quelli che sono a sfavore), il bias di ancoraggio (che ci spinge ad affidarci saldamente ad un unico indizio piuttosto che a valutare gli indizi nel loro complesso), il bias attentivo (la tendenza ad essere distratti dai nostri stessi pensieri e ragionamenti e a non prestare attenzione a ciò che dice il nostro interlocutore e a come lo dice), ed il bias di congruenza, a causa del quale tendiamo a validare le ipotesi e non a disconfermarle.

3. Nonostante molti di questi corsi siano ampiamente pubblicizzati, nessuno ha mai dimostrato scientificamente l’efficacia del metodo che vi viene insegnato.

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©muhammedrael flickr
Il limitato miglioramento a seguito della partecipazione a training specifici è probabilmente dovuto al fatto che molti di essi si concentrano sugli indizi di menzogna e non approfondiscono le tecniche di intervista. Nel mondo accademico, invece, questo tema è ritenuto estremamente importante e per questa ragione molti ricercatori stanno lavorando alla costruzione e validazione di protocolli di intervista che rendano possibile aumentare le differenze tra i racconti veri e quelli menzogneri. Si sottolinea quindi l’importanza di formare persone che non si limitino all’osservazione passiva, ma che siano in grado di utilizzare tecniche attive che aumentino e rendano più evidenti le differenze che possono esistere tra chi mente e chi è onesto. Questo tipo di ricerca si sta rivelando molto promettente. Ad esempio, in uno studio di Vrij e colleghi[28] è stato dimostrato che il personale formato poneva le domande che la letteratura mostra essere efficaci durante un'intervista investigativa in misura maggiore rispetto a chi non era stato formato.

Per quanto quindi per diventare professionisti siano necessari molto studio, formazione tecnica specifica ed esperienza, cominciare a migliorare è possibile già seguendo i suggerimenti del Prof. Vrij qui sotto elencati[29]:

1. Non basare le proprie conclusioni su quegli indizi che la letteratura scientifica ha mostrato non essere legati all'inganno

2. Usare regole di decisione flessibili: quando si cerca di valutare l'onestà di un interlocutore bisogna tenere in considerazione anche altri fattori come il contesto nel quale sta avvenendo la comunicazione e le caratteristiche della persona che si ha di fronte. Ad esempio, se interroghiamo una persona che dice che un suo parente è scomparso e osserviamo che non è coinvolto emotivamente, potremmo concludere che mente perché non mostra le emozioni tipiche di chi ha perso una persona cara, quali tristezza, rabbia e paura. Se però questa persona è stata sottoposta ad una lunga intervista, e le sono stati prima somministrati dei tranquillanti per controllare il suo stato d’animo, l’assenza di emozioni potrebbe dipendere da questi fattori e non dal fatto che sta mentendo. Oppure, la persona intervistata potrebbe essere in uno stato dissociativo che ne ha temporaneamente alterato la normale percezione della realtà.

3. Usare più indizi: non basare le proprie ipotesi su un singolo indizio, ma verificare se si presentano contemporaneamente più indizi di menzogna. Questo aumenta la probabilità che chi abbiamo di fronte ci stia mentendo.

4. Considerare ipotesi alternative: un tempo di latenza maggiore, ad esempio, può presentarsi anche in chi è onesto se ciò che sta raccontando è avvenuto diverso tempo addietro e perciò richiede molto impegno per essere rievocato.

5. Decidere solo alla fine della conversazione se chi abbiamo di fronte sta mentendo, e ricordarsi che si tratta solo di un'ipotesi e mai di una certezza. Decidere subito metterebbe in moto dei bias di conferma, che portano a notare solo gli indizi che confermano la propria ipotesi e non quelli che la mettono in dubbio.

6. Porre domande inaspettate: se chi abbiamo di fronte ha avuto modo di prepararsi a raccontare la propria bugia, gli indizi di menzogna saranno sottili o del tutto assenti. Ponendo delle domande inaspettate si riduce questo problema.

7. Non interrompere il proprio interlocutore. Lasciarlo parlare permetterà che mostri più indizi di menzogna se sta raccontando una bugia. Allo stesso modo è meglio preferire domande aperte, che lasciano spazio all'elaborazione cognitiva, rispetto a domande chiuse.

8. Essere sospettosi, ma non mostrare sospetto. Essere sospettosi permette infatti di prestare più attenzione al comportamento ed al contenuto verbale espresso dall’interlocutore. Il sospetto però non dovrebbe essere esibito, perché può far agitare una persona onesta che sembrerebbe perciò disonesta o, al contrario, può indurre chi è disonesto ad adattare il suo messaggio per risultare più credibile.

Se queste sono le principali indicazioni relative al corretto approccio che un intervistatore dovrebbe tenere, il box 4 presenta alcune tecniche di intervista più specifiche.

BOX 4 Le migliori tecniche di intervista


Abbiamo visto che mentire, spesso, comporta un aumento del carico cognitivo. Per questo motivo alcune ricerche recenti esplorano come questa differenza tra chi è onesto è chi mente può essere utilizzata per aumentare l’accuratezza nella valutazione della credibilità.

Un modo per rendere un’intervista mentalmente più impegnativa è quello di far lavorare l’intervistato su un compito secondario, mentre è impegnato a rispondere alle domande dell’intervistatore. Ad esempio si può chiedere a chi viene intervistato di essere sottoposto ad un test che valuta le capacità di guida mentre risponde alle domande dell’investigatore. In questo caso la performance in uno dei due compiti (guidare o raccontare la storia, a seconda del compito sul quale viene posta maggiore enfasi) è peggiore in chi mente. Le ricerche che valutano l’efficacia di questo protocollo sono ancora poche, ma l’approccio appare promettente[30].

Un altro modo per incrementare il carico cognitivo dell’intervistato è quello di porre delle domande inaspettate. Questo approccio è efficace in quanto chi mente si prepara a rispondere a specifici tipi di domande, ma non ad altre. Poniamo ad esempio che un colpevole si sia creato l’alibi di essere stato in un determinato posto mentre veniva commesso un delitto. È molto probabile che si sia preparato la risposta alle domande più comuni, ad esempio con chi era in quel momento. Più improbabile, invece, è che abbia preparato le risposte a domande su questioni spaziali e temporali specifiche o a domande quali “Sei stato nel posto A, puoi descrivermi come ci sei arrivato e quale percorso hai utilizzato?”. Una tale domanda spiazza chi sta mentendo, costringendolo a elaborare in poco tempo una risposta plausibile su un aspetto inaspettato del racconto, la pianificazione.

Anche la modalità di risposta può essere costruita in modo da creare sorpresa nell’intervistato. Per mentire, così come per dire la verità, facciamo prevalentemente uso del linguaggio, motivo per cui chiedere ad un sospettato colpevole di descrivere un luogo non sempre conduce a risposte indicative di un’eventuale menzogna. Utilizzare una modalità diversa come il disegno porta alcuni benefici da questo punto di vista. Una persona onesta non dovrebbe avere problemi a disegnare un luogo, dal momento che ha realmente percepito ed elaborato le informazioni che riguardano tale luogo. Al contrario, solitamente, chi mente non possiede un’immagine mentale del posto e quindi troverà più difficile disegnarlo[31].

Infine, un’altra tecnica è il cosiddetto approccio “avvocato del diavolo”. L’idea di base è che siamo in grado di supportare meglio la nostra opinione quando crediamo realmente in essa. Possiamo cioè fornire facilmente delle ragioni che supportano la nostra opinione, mentre troviamo più difficile fornire ragioni contro di essa.

Quando viene utilizzata questa tecnica, quindi, prima di tutto si chiede all’intervistato di supportare la propria opinione e poi gli si chiede di fornire ragioni contro di essa. Ciò che ci si aspetta, quindi, è che le persone oneste forniscano più informazioni, siano più credibili e mostrino maggiore coinvolgimento emotivo quando rispondono alla prima domanda.

Al contrario, per chi mente, questo accadrà quando essi rispondono alla seconda domanda. Leal e colleghi[32] hanno testato questa ipotesi e sono stati in grado di classificare correttamente l’ottantasei per cento degli onesti ed il settantanove per cento dei disonesti.

Il problema però è che alcune di queste tecniche (fortunatamente non tutte) diventano inefficaci quando chi viene intervistato ne conosce i princìpi.

Ad esempio, sappiamo che, a causa dei processi di codifica in memoria, chi è onesto inserisce più dettagli spaziali e temporali nella propria storia di chi è disonesto. Questo indicatore è talmente importante che è presente sia nella Statement Validity Assessment che nel Reality Monitoring. Il problema è che se chi viene intervistato sa che ci aspettiamo molti dettagli spaziali e temporali li inserirà nel suo racconto alterando così la valutazione corretta.

In uno studio, Vrij[33] e colleghi hanno spiegato ai partecipanti alla ricerca quali sono i dettagli che vengono ricercati nel valutare se una persona è credibile. La conseguenza è stata che l’analisi del contenuto verbale si è rivelata inefficace nel distinguere chi era onesto da chi non lo era.

Un risultato simile è stato trovato in uno studio italiano, condotto dalla professoressa Caso[34] dell’Università di Bergamo.

E quindi, siamo sempre fermi all’impossibilità di arrivare a risultati accettabili? In realtà no, perché cercare di non farsi scoprire e cercare di scoprire una menzogna sono due facce della stessa medaglia, due aspetti che si evolvono contemporaneamente. Infatti, è possibile ridurre l’impatto delle contromisure messe in atto dai sospettati utilizzando alcune contro-contromisure. Ad esempio, se temiamo che una persona sia stata informata sul come risultare credibile inserendo dettagli spaziali e temporali, possiamo chiederle di specificare dei dettagli che noi possiamo verificare. In questo modo creiamo un conflitto nelle persone disoneste, che si troveranno a dover scegliere se prendersi il rischio di inserire tanti dettagli che però non potranno poi essere verificati. Questo tipo di tecnica è particolarmente efficace perché molto più resistente alle contromisure[35].

Anche utilizzare più indici di menzogna permette di fronteggiare l’utilizzo delle contromisure. L’esperimento della professoressa Caso ha difatti dimostrato che, quando le persone venivano addestrate, diventava difficile classificarle correttamente a partire da indici presenti nel contenuto verbale del racconto, ma che era ancora possibile discriminare gli onesti dai disonesti a partire dalla loro comunicazione non verbale, analizzando in particolare la frequenza dei movimenti fini di mani e dita. Gli autori dello studio hanno concluso che le contromisure non verbali erano meno efficaci di quelle verbali.

Il tema dell’inganno riguarda tutti e la ricerca scientifica è molto impegnata in questo ambito di indagine. Ecco allora che tutti noi possiamo migliorare le nostra capacità di scoprire le menzogne.

Seguite questi consigli e diventerete esperti di inganno.

Applicate questi consigli, ma tenete a mente che non migliorerete di una virgola.

Seguite questi consigli, fate esperienza, studiate ed approfondite il tema. Non arriverete mai ad essere accurati al 100 per cento, ma comincerete a migliorare pian piano.

Di queste tre frasi, una è vera, le altre due sono bugie. Sapreste dirmi quali?

Note


1) Mitchell, R. W. 1986. A framework for discussing deception. In R. W. Mitchell & N. S. Mogdil (Eds.), Deception: Perspectives on human and non-human deceit, Albany: State University of New York Press.
2) Ekman, P. 1985. Telling Lies: Clues to deceit in the marketplalce, politics and marriage, New York: W. W. Norton.
3) Bond, C. F. J. & DePaulo, B. 2006. “Accuracy of deception judgments”. Personality and Social Psychology Review (3) 10: pp. 214-234.
4) DePaulo, B., Charlton, K., Cooper, H., Lindsay, J. J., & Muhlenbruck, L. 1997. “The Accuracy-Confidence Correlation in the Detection of Deception”. Personality and Social Psychology Review (1) 4: pp. 346-357.
5) Vrij, A. & Mann S. 2001. “Who killed my relative? Police officers’ ability to detect real life high-stake lies”. Psychology, Crime and Law (7): pp. 119-132.
6) Mann, S., Vrij, A., & Bull, R. 2004. “Detecting true lies: Police officers’ ability to detect suspects’ lies”. Journal of applied psychology (39): pp. 137-149
7) The Global Deception Research Team. 2006. “A world of lies”. Journal of cross-cultural psychology (37): pp. 60-74
8) The Global Deception Research Team. 2006. Ibid.; Vrij, A. 2008. Ibid.
9) Questi indizi non sono riportati nel libro della nota al punto 1. Sono piuttosto indizi frequentemente riportati in saggi divulgativi ma non sottoposti ad analisi scientifica
10) The Global Deception Research Team, Ibid.
11) Vrij, A. 1995. “Behavioral Correlated of Deception in a Simulated Police Interview”. Journal of Psychology: Interdisciplinary and Applied (129): pp. 15-29.
12) Gozna, L., & Babooram, N. 2004. “Non-traditional interviews: Deception in a simulated custom baggage search”. In A. Czerederecka, T., Jaskiewicz-Obydzinska, R. Roesch, &. J. Wojcikiewicz (Eds.). Forensic Psychology and law, pp. 153-161. Krakow, Poland: Institute of Forensic Research Publishers.
13) Anolli, L., & Ciceri, R. 1997. “The voice of deception: vocal strategies of naive and able liars”. Journal of Nonverbal Behaviour (21): pp. 259-284.
14) Cody, M. J., Martson, P. J., &, Foster, M. 1984. “Deception: Paralinguistic and verbal leakage”. In R. N. Bostrom, & B. H. Westley (Eds.), Communication Yearbook 8 (pp. 464-490). Beverly Hills, CA: Sage.
15) Vrij, A. 2008. Ibid.
16) Nahari, G., Vrij, A., & Fisher, R. P. 2014. “Exploiting liars’ verbal strategies by examining the verifiability of details”. Legal and Criminological Psychology (19): pp- 227-239.
17) Vrij, A. 2008. Ibid.
18) Vrij, A. 2008. Detecting lies and deceit: Pitfalls and opportunities, Chichester: John Wiley & Sons.
19) Vrij, A. 2008. Ibid.
20) Undeutsch, U. 1967. “Beurteilung der Glaubhaftigkeit von Aussa-gen”. In Undeutch, U (Ed.) Handbuch der Psychologie Vol. 11: Forensische Psychologie: pp 26-181. Gottingen, Germany: Hogrefe.
21) Vrij, A., Akehurst, L., Soukara, S., 6 Bull, R. 2002. “Will the truth come out? The effect of deception, age, status, coaching and social skills on CBCA scores. Law and Human Behaviour (26): pp. 261-283
22) Vrij, A. 2008. Ibid.
23) Porter, S. & ten Brinke, L. 2008. “Reading between the lines: identifying concealed and falsified emotions in universal facial expressions”. Psychol Sci (5) 20: pp.508-514.
24) Una espressione è parziale quando l’emozione viene espressa in una sola area del viso.
25) Vrij, A. 2008. Ibid.
26) Porter, S., Juodis, M., ten Brinke, L., Klein, R., & Wilson, K. 2009. “Evaluation on the effectiveness of a brief deception detection training program. The Journal of Forensic Psychiatry and Psychology (21): pp. 66-76.
27) Levine, T. R., Feeley, T. H., McCornack, S.A., Hughes, M., & Harms, C. M. 2005. “Testing the effect of nonverbal behaviour training on accuracy in deception detection with the inclusion of a bogus training control group”. Western Journal of Communication (69): pp. 203-217.
28) Vrij, A., Mann, S., Leal, S., Vernham, Z., & Vaughan, M. 2015. “Train the Trainers: A first step towards a science-based cognitive lie detection training workshop delivered by a practitioner”. Journal of Investigative Psychology and Offender Profiling
29) Vrij, A. 2008. Ibid.
30) Lancaster, G., Vrij, A., Hope, L., & Wallet, B. “Sorting the liars from truth tellers: the benefits of asking unanticipated questions on lie detection”. Appl. Cogn. Psych. (27): pp107-114.
31) Lenis, D.A., Fisher, R. P., & Vrij, A. 2009. “Drawing on Liar’s lack of Cognitive Flexibility: Detecting Deception through Varying Report Modes”. Psychol Sci (5) 20: pp.508-514.Appl. Cogn. Psych. (26): pp. 601-607.
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