Fate e bambini: uno studio di psicologia dell'esperienza religiosa

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Il Journal for the Study of Religious Experience[1] è pubblicato dall’Alister Hardy Religious Experience Research Center dell’Università del Galles “Trinity Saint David”. Sulle sue pagine, nel n. 1 del 2018 è comparso un saggio[2] dello storico Simon Young, che attualmente lavora per conto dell’Università della Virginia presso l’Università di Siena.

Simon Young ha analizzato un campione di 88 resoconti di presunti incontri con le fate da parte di bambini originari di Paesi anglofoni. Questo campione è stato desunto da una raccolta recente di testimonianze simili, il “Fairy Census”, un’iniziativa condotta fra il 2014 e il 2017 e che in buona misura ha confermato la nozione, ricorrente in letteratura, secondo la quale i bambini e gli adolescenti descriverebbero in misura maggiore delle altre classi di età questo genere di incontri[3]. Il gruppo dei nostri testimoni si presenta subito con una specificità di genere: quello femminile risulta decisamente prevalente (84,1% dei casi). Al riguardo, Young nota che, specie nell’immaginario disponibile ai bambini, da molto tempo le fate sono rappresentate come esseri fortemente femminilizzati.

Lo studio delinea due tipologie di fate. La differenziazione è di natura cronologica: come tutto il resto, anche le esperienze psichiche di questo tipo si sono evolute col tempo. Le fate descritte nel Medioevo, ad esempio, potevano essere piuttosto violente, si presentavano in gruppo, non avevano le ali – un’innovazione diventata comune nel XIX secolo – e così via. Per Young è dunque possibile distinguere tra “fate classiche” e “fate della natura”, che sono, per così dire, quelle più sovente presenti nel nostro tempo. Le “fate della natura” sono amichevoli, hanno un aspetto delizioso, sono solitarie, non attendono alle attività tipicamente umane come facevano le fate “classiche”, che cucinavano, tenevano in ordine le loro dimore e così via. Questo senza trascurare che sovente questi incontri comportano – anticamente come oggi – la descrizione di palle di luce che interagiscono con le “fate” o che a volte le sostituiscono tout court, e che per i testimoni sono parte di quell’universo mitologico...

In tutto ciò, uno dei problemi che secondo Young è particolarmente difficile da affrontare è quello del rapporto tra queste esperienze e la cultura pop. Quando un bambino dice che la sua fata somigliava a Tinker Bell (Campanellino), la fatina popolarizzata visivamente dalla versione cinematografica Disney di Peter Pan prodotta nel 1953, vuol dire che gli somigliava, oppure che quella fatina Disney ha ispirato il contenuto dell’esperienza psichica del bambino?

In linea generale, nella struttura delle nostre storie è fondamentale il ruolo della famiglia. I genitori e gli altri parenti dei bambini possono censurare o sostenere empaticamente ciò che il percipiente racconta: a seconda dei casi, le fate si adatteranno ai differenti contesti parentali, magari tollerando l’ostilità dei familiari, o al contrario accompagnandoli con benevolenza per anni.

All’interno delle 88 esperienze analizzate, Young isola poi i caratteri tipici di tre gruppi di racconti.

Il primo è quello, assai più frequente nei piccoli che nei grandi, sulle Bed Fairies (le “Fate del lettino”) in cui l’insorgere dell’esperienza è con ogni probabilità associato alle varie fasi del sonno e dunque a stati ipnagogici e ai processi di rielaborazione dei sogni come memoria[4]. I bambini sperimentano le fate nell’ambiente domestico assai più degli adulti mentre nel folclore tradizionale, sottolinea Young, le fate non appaiono quasi mai a bambini che si trovano a letto. L’impressione è che il momento del sonno, visto come tradizionale campo di battaglia fra angelico e demoniaco, con il processo di secolarizzazione abbia ceduto il campo alla presenza delle fate in camera da letto di notte, momento e luogo che nella tradizione cristiana erano visti come rischiosi per la salute dell’anima, contesa fra esseri soprannaturali contrapposti.

Il secondo tipo di racconti ha al centro le Nature Fairies (le “Fate della natura”). Il legame fate-natura, che oggi appare immediato, è anch’esso un prodotto storico. L’idea che le cose abbiano uno spirito, e in particolare che lo abbiano le specie vegetali, è sorta nel Cinquecento, con l’arrivo nell’Europa centrale e occidentale del Neoplatonismo e con l’acquisizione di alcune sue conseguenze da parte degli occultisti che operavano in quei Paesi. Queste convinzioni saranno fatte proprie dalla Teosofia, alla fine dell’Ottocento, ed è solo da lì che il rapporto fate-natura diventerà inscindibile. Così, sovente i bambini del nostro tempo incontrano le fate nel verde, ma lo fanno in ambienti confinati. Non nei boschi, ma nei giardinetti di casa, magari legandole non tanto a fiori e piante, come fanno molti adulti, ma agli alberi che crescono in quegli ambiti più o meno ristretti.

Si tratta, si direbbe quasi, di fate di una natura estremamente irreggimentata e artificiale, quella del cottage e della casa di periferia.

Il terzo racconto, infine, è quello relativo alle Fairy Friends (le “Fate amiche”). In questi casi il rapporto con le fate non si esaurisce in un incontro isolato, ma si prolunga in una relazione di lunga durata. A volte il legame è talmente complesso da consentire ai bambini di sviluppare una vera e propria “mitologia privata”, fatta di ruoli e di funzioni speciali delle creature immaginarie. In questi casi, sottolinea Young, è difficile non riconoscere una somiglianza tra “Fate amiche” e le figure classiche degli amici immaginari descritti da tanti bambini. Però, al contrario che nella maggior parte dei racconti fatti dagli adulti che da piccoli avevano degli amici immaginari[5], nel caso della Fate amiche di solito chi le rievoca è tuttora convinto che esse fossero tutt’altro che frutto di fantasia. In queste occasioni, scrive Young, nei bambini che raccontavano gli incontri era spesso presente una condizione di isolamento: pochi amici, pochissime frequentazioni, un relativo distacco emotivo da parte della famiglia.

Il ruolo della memoria, comunque, è per forza di cose sempre centrale in questi racconti. Quasi tutti coloro che hanno rievocato i presunti incontri con le fate lo hanno fatto a lunga distanza di tempo. Nonostante ciò, la maggior parte di costoro sottolinea con cura di possedere un ricordo particolarmente vivido di ciò che era capitato.Pare plausibile che un arco di tempo così lungo abbia consentito ai ricordi di evolvere e di “solidificarsi”, assumendo così i colori della “certezza”. La presenza di falsi ricordi[6], il ruolo giocato dalla fantasia nella memoria delle esperienze infantili[7] devono essere tenuti in debito conto nel valutare in maniera critica la speciale “certezza” manifestata così tante volte da chi racconta di aver vissuto da piccolo esperienze di questo genere.

La rilevanza dell’esperienza raccontata trova conferma in un altro dei dati di Young: per il 22% di chi ha risposto, gli incontri vissuti da bambini con le fate costituirono un punto di svolta rispetto all’intera vita. Sovente costoro sono tornati nei luoghi dei loro incontri, a volte hanno continuato ad avere esperienze psichiche anomale o a coltivare credenze religiose personali in cui quanto accaduto continua a svolgere un ruolo degno di nota.

Un pensiero conclusivo: il “Fairy Census” analizzato da Young ha visto in larga parte risposte provenienti da Paesi anglofoni. Per motivi di disomogeneità culturale, gli altri rispondenti - non molti, a dire il vero - sono stati esclusi dal campione. L’uno per cento di quelli, ad esempio, erano italiani. Il “Fairy Census” ha avuto il merito di testimoniare che l’esperienza delle fate è viva e vegeta nella cultura anglosassone. Sarebbe interessante misurare, comparativamente, se lo stesso si possa dire per aree culturali come quella sud-europea. Può darsi che i nostri protagonisti presentino peculiarità sociali e tratti psichici non del tutto sovrapponibili a quelli del mainstream “fatesco”, quello dell’Europa nord-occidentale.

Note

2) Young, Simon, “Children Who See Fairies”, Journal for the Study of Religious Experience, 4(1), 2018, pp. 81-98, disponibile all’url: https://bit.ly/2EBzSZ4 .
3) The Fairy Census 2014-2017”, 2017, disponibile all’url: https://bit.ly/2FCkWd6 . Questo progetto non era mirato a “dimostrare” l’esistenza di esseri sovrannaturali, incentrato com’era sul testimone, sui suoi connotati socio-culturali, sull’interpretazione e sul modo in cui l’esperienza aveva influito sulla vita del percipiente.
4) Clark, Steven E., Loftus, Elizabeth F., “The Construction of Space Alien Abduction Memories”, Psychological Inquiry, (7), 1996, pp. 141-142.
5) Taylor, Marjorie, “Imaginary Companions and the Children Who Create Them”, 1999, Oxford University Press, Oxford.
6) Otgaar H. et alii, “Abducted by a UFO: Prevalence information affects young children’s false memories for an implausible event”, Applied Cognitive Psychology, 23, 2009, pp. 115-125.
7) Principe, Gabrielle G., Smith, Eric, “The Tooth, the Whole Tooth and Nothing But the Tooth: How Belief in the Tooth Fairy Can Engender False Memories”, Applied Cognitive Psychology, 22, 2007, pp. 625-642.
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