Perché le fake news ci attraggono? Un contributo dall’antropologia cognitiva ed evoluzionistica

  • In Articoli
  • 26-04-2019
  • di Giuseppe Stilo
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Alberto Acerbi è un antropologo particolarmente interessato agli aspetti cognitivi ed evoluzionistici della sua disciplina. Lavora presso la School of Innovation Science della Eindhoven University of Technology, in Olanda.

Nel febbraio scorso Acerbi ha pubblicato su Palgrave Communications, rivista accademica online open-access che copre un vasto spettro delle scienze sociali ed umane, un articolo[1] in cui, usando metodi e strumenti della sua specialità, discute le possibili cause cognitive del successo delle fake news.

Per farlo, ha analizzato il contenuto di 260 articoli usciti su 26 siti web inclusi in due elenchi prodotti da Snopes.com e Buzzfeed, che hanno identificato degli hub altamente sospetti quanto a presenza di fake news. Si tratta di un metodo che, in generale, era già stato suggerito due anni prima da altri antropologi[2] che l’avevano applicato alle leggende contemporanee. In questi 260 articoli Acerbi si è messo alla ricerca di sette specifici fattori – sette preferenze cognitive ritenute adatte ad accrescere le possibilità del successo culturale di una narrazione.

La prima preferenza cognitiva è quella per le informazioni collegate a “minacce”, anche se non rilevanti in modo diretto per chi le riceve; la seconda concerne le informazioni a contenuto sessuale. Un’altra, considerata con particolare attenzione da Acerbi - anche perché assai studiata in antropologia evoluzionistica - riguarda le notizie legate al disgusto (cibi contaminati da animali, mutilazioni, malattie, comportamento sessuale visto come “innaturale”).

Il quarto fattore è la presenza di un contenuto minimamente controintuitivo o MCI, in sigla inglese. Per contenuto MCI s’intende quello che viola poche aspettative intuitive appartenenti alle nostre categorie ontologiche. Ad esempio, gli dèi potranno essere gelosi e rabbiosi come noi ma, al contempo, sono anche immortali. In questo modo, le narrazioni che violano alcune aspettative intuitive si ricordano bene proprio a causa di queste violazioni, ma queste stesse violazioni non dovranno mai esser troppe, per non contraddire ciò che, invece, ci aspettiamo dalla storia. In questo sta il contenuto “minimamente” controintuitivo. Altro elemento considerato è la presenza di contenuti anti-essenzialisti, cioè di quelli che violano l’idea secondo la quale gli esseri viventi celerebbero una particola immutabile, un’essenza, appunto, che nel complesso ne spiegherebbe aspetto e comportamento.

Sono stati poi considerati gli elementi relativi alla presenza di informazioni relative ad interazioni sociali e gossip e, come settimo ed ultimo, quello del ricorrere di notizie su personaggi celebri, cioè noti al pubblico.

I 260 testi sono stati codificati a seconda del segno del contenuto emotivo generale (positivo, negativo o neutro) e, naturalmente, misurando la presenza dei sette fattori appena visti.

Il primo esito è che gli articoli a contenuto negativo sono risultati 5-6 volte più numerosi di quelli a contenuto positivo (sia pure con la presenza di un 42% di “neutri”). Con il 28%, le informazioni collegate a minacce spiccano tra le più diffuse in quel corpus di dati, seguite da quelle a contenuto sessuale (17%), da quelle legate al disgusto (15%) e da quelle con contenuto MCI (13%). In quest’ultimo gruppo, si noti il punto, la maggior parte riguardava proprio la presenza degli elementi informativi anti-essenzialisti di cui si è già detto.

In tutto ciò, com’era prevedibile, la presenza di informazioni sociali o di gossip figurava rispettivamente per il 50% e per il 48% dei casi.

Acerbi ha comunque rilevato una curiosa asimmetria che riguarda le co-occorrenze dei fattori considerati. Mentre minaccia, sesso e disgusto si trovano sovente insieme, minaccia da una parte e disgusto dall’altra non vanno di pari passo. Ben il 57% degli articoli contenenti il fattore minaccia non parla di sesso o di disgusto. Invece, solo il 27% di quelli che parlano di sesso e il 13% di quelli che contengono elementi legati al disgusto non contengono almeno uno degli altri due elementi.

In altri termini, il mix minaccia-sesso-disgusto è quello più ricorrente nelle fake news. Un esempio menzionato da Acerbi: la fake news di maggior successo su Facebook nel 2017: Babysitter ricoverata in ospedale dopo essersi inserita un bambino nella vagina.

Una cosa notevole è che, fra gli elementi controintuitivi, quelli con racconti di tipo “sovrannaturale” sono appena il 5% (e la cosa era già risultata in altri studi per ciò che riguarda le leggende contemporanee).

Fra le considerazioni generali tratte da Acerbi, alcune paiono particolarmente degne di nota. Le fake news a contenuto politico sono numerose (il 40% del campione), ma il punto che Acerbi sottolinea è che non necessariamente i fake appartengono al gruppo delle storie “politiche”. Anzi, è possibile che i rischi della disinformazione politica siano stati sopravvalutati[3].

Ma, soprattutto: quali specificità possiede la diffusione della disinformazione effettuata in rete? Acerbi ne ricorda diverse, che gli appaiono tutte fondate (dalla facilità ed economicità della diffusione, all’anonimato che la rete favorisce, al fatto che gli algoritmi dei social sono pensati per un impegno cognitivo superficiale...), ma per lui colpisce il fatto che le fake news online godono delle stesse caratteristiche che rendono attraenti le leggende contemporanee o la fiction.

Di più: il meccanismo della condivisione permette di replicare il contenuto senza alcun ruolo attivo da parte di chi lo rilancia. Non c’è gran bisogno di ricordare, ritradurre, ricostruire, memorizzare, comprendere. Basta scegliere di condividere. E, condividendo, parecchi potrebbero consapevolmente farlo a fini satirici. In altri termini, la ritrasmissione del fake in forme sempre uguali non per forza comporta un’adesione al suo contenuto. Ci sono comunque pochi studi[4] su questo tipo di catena di trasmissione, osserva Acerbi, e in futuro bisognerebbe concentrarsi sul punto.

L’informazione fornita dalle fake news, conclude Acerbi, meno “costretta” alla coerenza con la realtà rispetto a quella veritiera, può essere sempre riplasmata per rispondere alle più varie esigenze cognitive. Dunque, in buona parte dei casi la misinformazione è di alta qualità. Non perché sia maggiormente affidabile, ma perché ha una più alta capacità di adeguarsi a ciò cui siamo predisposti dal punto di vista cognitivo.

Note

1) Acerbi, Alberto, “Cognitive attraction and online misinformation”, Palgrave Commuinications, 5, (15), 2019, disponibile all’url: https://go.nature.com/2Tm96ql .
2) Stubbersfield, Joseph M., Flynn, Emma G., Tehrani, Jamshid J., “Cognitive evolution and the transmission of popular narratives: a literary review and application to urban legends”, Evolutionary Studies in Imaginative Culture, 1 (1), 2017, pp. 121-136.
3) Allcott, Hunt, Gentzkow, Matthew, “Social media and fake news in the 2016 election”, Journal of Economic Perspectives, 31 (2), 2017, pp. 211-236.
4) Eriksson, Kimmo, Coultas, Julie C., “Corpses, maggots, pondles and rats: emotional selection operating in three phases of cultutal transmission of urban legends”, Journal of Cognition and Culture, 14 (1-2), 2014, pp. 1-26; Stubbersfield, Joseph M., Flynn, Emma G., Tehrani, Jamshid J., “Faking the news: Intentional guided variation reflects cognitive biases in transmission chain without recall”, Cultural Science Journal, 10 (1), 2018, pp. 54-65.
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