Animali suicidi: realtà o leggenda?

Un'intervista al dottor Antonio Preti

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L'Overtoun Bridge da cui si sarebbero suicidati molti cani. ©Dave Souza su wikimedia
Sul tema del suicidio degli animali abbiamo intervistato Antonio Preti, uno psichiatra e psicoterapeuta che insegna presso l’Università degli studi di Cagliari nei corsi delle professioni sanitarie. Conduce studi sul suicidio e sui suoi principali fattori di rischio, in particolare le psicosi, i disturbi alimentari, i disturbi correlati all’uso di sostanze. È membro del consiglio direttivo della Associazione Italiana per la prevenzione e l’intervento precoce nella salute mentale.

Periodicamente, si leggono storie di animali che si sarebbero suicidati. Per esempio, cani che decidono di uccidersi per la morte dei loro padroni o cigni che smettono di vivere per la perdita della madre. Allora prima di tutto vorremmo chiederle: esistono dei casi documentati di animali che si uccidono?

Una risposta che viene data spesso, in modo provocatorio, a questa domanda è: sì, esistono animali che si uccidono, l’homo sapiens.

Il suicidio, come esito di comportamenti iniziati dal soggetto con attesa di tale esito (la morte) e desiderio di realizzazione di uno scopo implicito nella morte (cessazione del dolore psichico, volontà di ricongiungimento con un caro deceduto, volontà di vendetta, di espiazione o di fuga), è qualcosa che caratterizza la nostra specie in modo che appare unico. Per quanto riguarda i nostri cugini, denisoviani e Neanderthal, ignoriamo se abbiano messo in atto comportamenti che potevano esitare nel suicidio, e scarsissime sono le informazioni sui cosiddetti popoli primitivi (si veda la lista compilata da Sebald Rudolf Steinmetz in un articolo del 1894).

Il suicidio è, di per sé, un evento raro, che si realizza quando sono superate le capacità di resistenza dell’organismo, il che spiega, in parte, perché muoiano più spesso di suicidio gli anziani rispetto ai giovani, nonostante i giovani più spesso tentino il suicidio. Gli anziani sono spesso malati, e il danno causato su un organismo malato dagli atti che esprimono il tentativo di suicidio è maggiore quando l’organismo è già alterato.

Altri fattori che influenzano un più alto tasso di suicidio negli anziani sono il maggiore accesso ad agenti letali (armi, farmaci prescritti, sostanze tossiche usate in agricoltura), la maggiore conoscenza sulla letalità degli agenti utilizzabili per darsi la morte, e la ridotta rete sociale (per vedovanza, lontananza dei figli, morte degli amici).

In effetti, il suicidio è l’esito di azioni iniziate consapevolmente dal soggetto, e in quanto tale prevenibile (sebbene scarsamente prevedibile). Il supporto sociale protegge dal suicidio perché attenua l’impatto dei fattori che possono determinare la comparsa di depressione (il principale correlato dell’ideazione suicidaria), perché contribuisce a esercitare un’azione di sorveglianza (che impedisce la messa in atto di azioni che possono esitare nella morte per suicidio), e perché può attivare un pronto intervento (tanto più rapido l’intervento, tanto maggiore la probabilità che le azioni compiute dal soggetto non esiteranno nella sua morte).

Per rispondere in modo meno provocatorio alla domanda, devo dire che al momento la letteratura scientifica non reperta evidenze su casistiche di suicidio nel mondo animale, se non aneddotiche e per lo più indirette.

Il termine suicidio nella letteratura scientifica (quanto pubblicato su riviste riconosciute dalle comunità accademiche) è spesso usato in senso metaforico. Si parla di “suicidio” delle cellule nel caso dell’apoptosi, una forma di morte cellulare programmata, di geni “suicidi” per indicare i geni che attivano l’apoptosi o che inducono trasformazioni di agenti chimici che finiscono per uccidere le cellule (in caso di cellule tumorali, questa è una specifica strategia terapeutica). Ancora il termine suicidio è utilizzato a indicare comportamenti “altruistici” fissati in alcune specie dalla selezione naturale. In termini biologici, l’altruismo è un comportamento di cessione di risorse senza scambio, e in alcuni casi tale cessione di risorse può compromettere la sopravvivenza dell’agente “altruista”. In alcune specie di ragni, ad esempio, la femmina dopo l’inseminazione “cannibalizza” il maschio con il quale si è accoppiata, beneficiando di risorse nutrizionali utili alla maturazione delle uova. Tale esito “estremo” dell’altruismo non è però equiparabile al suicidio, perché non si tratta di un comportamento iniziato volontariamente dal maschio, che anzi cerca in tutti i modi di sottrarsi a quella fine. Esistono numerosi casi, tra gli insetti, di fenomeni altruistici assimilati al suicidio, ma in tali fenomeni mancano gli elementi essenziali del suicidio come lo sperimentiamo nella specie umana: intenzionalità, previsione dell’esito, e una fonte di dolore psichico (la “depressione”) quale motore che attiva l’intero comportamento. Taluno aggiunge la consapevolezza della natura definitiva dell’atto, ma nelle interviste fatte a chi è sopravvissuto a un grave tentativo di suicidio, compiuto con mezzi potenzialmente letali cioè atti a dare la morte, si è osservato che talora chi tenta il suicidio non ha una vera e propria percezione della natura definitiva del gesto, soprattutto tra i più giovani.

Le descrizioni più suggestive di atti con significato suicidario tra gli animali riguardano azioni autolesive poste in essere da animali tenuti in cattività, che talora iniziano azioni violente che esitano nella loro morte. Secondo l’interpretazione più condivisa, tali azioni autolesive sono tentativi “ciechi” di liberarsi, con l’animale che si lancia ripetutamente contro i muri o le palizzate che lo tengono prigioniero o che si avvolge tra le catene che lo imprigionano, morendo per asfissia.

I casi di suicidio più convincenti riguardano gli animali di affezione o da compagnia, i pets della letteratura anglosassone. Sin dall’antichità sono narrate storie di animali che si lasciano morire alla morte del padrone, spesso sulla sua tomba in mezzo a gemiti e lamenti. Nella realtà, si tratta di animali perlopiù feroci, addomesticati da un padrone carismatico con il quale l’animale ha instaurato una relazione di fedeltà improntata alla difesa in cambio di sottomissione. Alla morte del padrone l’animale diventa scarsamente gestibile, e rifiuta il cibo da parte di altri umani che non riconosce degni della sua sottomissione, finendo per morire di fame. Tra il secondo e il terzo secolo dell’era moderna il poligrafo Claudio Eliano descrisse, in un trattato dedicato alla vita animale, svariati casi di presunto suicidio di animali alla morte del padrone (Preti, 2005). Già Aristotele, tuttavia, aveva segnalato casi di animali “suicidi”, bevendosi spesso le invenzioni di allevatori o pastori (ad esempio, il caso di un cavallo che si sarebbe suicidato come Edipo per avere scoperto di essersi accoppiato, dopo essere stato ingannato, con la propria madre; Aristotele, Historia Animalium, IX, 47).

Casi di cani o gatti che si lasciano morire alla morte del padrone ricorrono anche nelle cronache delle gazzette moderne, a partire dal Settecento (Ramsden e Wilson, 2010). Non mancano i casi degli stambecchi che si precipitano dalle alture e altre simili fantastiche occorrenze (Ramsden e Wilson, 2014). Si tratta di descrizioni nelle quali gli uomini proiettano le proprie fantasie, credenze e timori.

Non sono suicidi neppure gli spiaggiamenti di balene o delfini, attribuibili a infezioni o altra causa di danno ai loro apparati di orientamento, danni nei quali potrebbero avere un ruolo anche le microplastiche, uno dei fattori di inquinamento più temibili.

Una rassegna di quanto riportato nella letteratura scientifica negli ultimi decenni non ha prodotto evidenze credibili di condotte suicidarie nel mondo animale (Preti, 2007).

Tuttavia, come è noto, l’assenza di documentazione non costituisce prova dell’assenza di un dato fenomeno. Nella specie umana il suicidio è un evento raro, e potrebbe essere altrettanto raro tra le specie animali, almeno quelle sociali (es. mammiferi). La carcassa dell’animale che muore per suicidio potrebbe facilmente diventare preda di specie che si nutrono di cadaveri, con relativa “sparizione” delle prove. Inoltre, in natura una morte violenta intenzionale può essere distinta con difficoltà da altre cause di morte violenta (incidente, predazione). Ad esempio, il topo che sia infettato da toxoplasma gondii non si suicida facendosi mangiare dal gatto; semplicemente, a causa della malattia, perde le inibizioni che lo proteggono dai predatori. Non c’è nulla di intenzionale e previsto nel suo comportamento (Webster, 2007). A dire il vero, gli umani non passano il loro tempo a verificare sul campo se un animale è morto per suicidio o meno. Tuttavia, in casi di osservazioni prolungate (studi di gorilla, scimpanzé, o dei simpaticissimi suricati) non risultano evidenze di condotte suicidarie.

In conclusione, non esistono casi documentati di animali che si uccidono, casi che superino obiezioni di antropomorfismo o che presentino evidenze convincenti di quanto affermato (delfini che smettono intenzionalmente di respirare per uccidersi? Nessuna prova).

Il suicidio sembra essere una caratteristica propria della nostra specie, forse perché la nostra specie più di altre ha sviluppato il senso del futuro, ha un sistema di estrinsecazione complesso delle intenzioni, che non si manifestano semplicemente in risposta a stimoli correnti, e possiede una rappresentazione della morte e della propria finitudine (che perlopiù cerca di evitare). Secondo alcuni, l’ideazione suicidaria sarebbe un sistema di autospegnimento dell’istinto di sopravvivenza quando le prospettive di riproduzione si riducano grandemente, il soggetto disperi di poter accedere a risorse, e si sviluppi un senso di peso e intralcio al proprio gruppo immediato (coloro con i quali il soggetto è strettamente imparentato). Per “evitare” di consumare risorse che il soggetto non saprebbe come ricostituire, usurando quelle dei propri parenti stretti e in assenza di prospettiva di riprodurre altri portatori dei suoi geni (questo significa non avere una prospettiva di riproduzione), il soggetto vedrebbe attivarsi il “programma suicidio”: morire significherebbe risparmiare risorse dei consimili con prospettive di riproduzione (ampia discussione di questa ipotesi in de Catanzaro, 1980; 1984). È un programma che avrebbe dalla sua la selezione naturale, nonostante agisca contro il principale motore della selezione naturale: la spinta a sopravvivere. Insomma, se non sei vivo non puoi giocare, come dice il replicante Roy Batty al blade runner Rick Deckard. D’altra parte, se consumi le risorse che servono alla tua linea collaterale e discendente per riprodursi, rischi di estinguere il tuo pacchetto di geni, inclusi quelli favorevoli selezionatisi nelle generazioni precedenti.

Un altro motivo per cui il suicidio si osserva nella nostra specie è la sua estensione per numerosità, la presenza di documentazione scritta (abbiamo testimonianze credibili di suicidi nell’antica Grecia, nell’antica Roma, e nell’antica Cina), e il superamento di molte cause di morte grazie ai progressi delle condizioni di vita (igiene e disponibilità di acqua in primis), delle scienze, e della medicina. In ultima analisi, chi muore per infezione o per cancro non può morire di suicidio. Si muore una volta sola. Al ridursi delle altre cause di morte, aumenta la probabilità che si attivi il “programma suicidio” appena descritto.
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Molte storie riguardano il suicidio di balene. ©National Oceanic & Atmospheric Adminstration (NOAA)


Forse uno dei casi più noti alla cronaca è quello del ponte di Overtoun in Scozia, dal quale si sarebbero gettate negli anni ’60 decine di cani. Secondo David Sands, uno specialista di comportamento animale, i cani si sarebbero gettati dal ponte perché attratti dall’odore che proveniva da una tana di visoni che si trovava in fondo al ponte. Trova valida questa spiegazione? Quali altre spiegazioni sono possibili per questa storia?

Intorno a questi luoghi si formano delle leggende, che tendono a moltiplicare la dimensione del fenomeno. In base ad alcuni resoconti, i cani che si gettano solitamente si immobilizzerebbero al centro del ponte, come se stessero puntando una preda. L’ipotesi di una tana di visone o altro animale predato dai cani è una spiegazione plausibile: i cani seguirebbero l’odore senza considerare il rischio del salto. Non sono in grado di fornire altra spiegazione. Ciò che rende improbabile la natura “suicida” di questo fenomeno è proprio la natura leggendaria del luogo.

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Un'altra prospettiva dell'Overtoun Bridge. ©Dave Souza su wikimedia

A dire il vero, esistono luoghi che acquistano una fama sinistra in relazione al suicidio. Il Golden Gate Bridge, ad esempio, è noto anche come Ponte dei suicidi per la frequenza con la quale è scelto per il gesto estremo. La precipitazione da un luogo alto è in effetti un metodo efficace per darsi la morte. Alcuni eventi suicidari verificatisi sul Golden Gate Bridge e ripresi da telecamere sono stati raccolti in un documentario, The Bridge - Il ponte dei suicidi, cosa che ha scatenato un comprensibile vespaio di polemiche.

La foresta di Aokigahara, in Giappone, è un altro luogo tragicamente famoso per i suicidi che vi hanno luogo. Chi vuole compiere suicidio talora si nasconde, con lo scopo specifico di evitare di essere salvato. La foresta è così estesa e così intricata che è molto difficile trovare qualcuno che vi si sia nascosto con lo scopo di uccidersi. La leggenda sinistra che circonda il luogo, peraltro molto frequentato e amato dagli escursionisti, ha dato origine a romanzi e film incentrati sul tema.

Le leggende sui luoghi del suicidio sono diffuse un po’ ovunque nel pianeta, luoghi simili esistono anche in Italia, e queste leggende ricircolano di bocca in bocca. Ora è proprio questo a rendere improbabile che i cani che si gettano dal ponte di Overtoun in Scozia abbiano intenzioni suicide. Per quanto ne sappiamo, i cani si scambiano informazioni di natura indicale: avvisi di pericolo, avvisi di possesso (di un oggetto o luogo), segnali di disponibilità all’accoppiamento, segnali di disponibilità di prede. Non esiste evidenza alcuna che i cani o altri animali si scambino informazioni complesse come leggende su un luogo. È veramente improbabile, per non dire impossibile, che i cani che si gettano dal ponte di Overtoun sappiano che quello è il posto scelto dai cani per morire.

Più recentemente si è parlato del suicidio di centinaia di topi da un ponte a Hommerts e sui media è stata avanzata l’ipotesi che questo suicidio di massa potrebbe essere correlato all’uso massiccio di fertilizzanti in agricoltura. Cosa ne pensa?

Nel caso delle morti da dispersione, come quella dei lemmings, la causa più probabile è l’effetto della spinta di massa, per cui un gruppo esteso di animali in movimento segue un gruppo di testa che può, avventatamente o per errore, incunearsi in uno spazio da cui non c’è ritorno. Per conseguenza il gruppo di testa finisce per precipitare da un’altura o da un ponte, e chi viene dietro, sospinto da chi viene dopo, fa la stessa fine. A seconda delle dinamiche, l’intera massa può non rendersi conto di quello che sta accadendo se non quando è troppo tardi per fermarsi. Certo, l’azione tossica di pesticidi potrebbe avere alterato i sistemi di orientamento degli animali, ma questo dovrebbe essere provato mediante autopsia e non mi risulta sia stato fatto.

Una questione rilevante è quella della consapevolezza: gli animali possono essere consapevoli del fatto che le loro azioni ne determineranno la morte? Se sì, quali possono essere le ragioni che inducono un animale a suicidarsi?

Credo sia ragionevole pensare che almeno i predatori abbiano consapevolezza di cosa è la morte e di come constatarne il verificarsi nelle specie predate. Se questa consapevolezza possa essere trasferita al sé, ammesso che l’animale abbia una consapevolezza di sé, lo ignoriamo. Alcuni studi sembrano suggerire che alcune specie abbiano consapevolezza di sé, almeno l’elefante e il delfino; i possessori di gatti e cani credo siano disposti a giurare che il loro caro abbia un certo senso di sé.

Esistono evidenze, perlopiù indirette, che sembrano suggerire che diverse specie sociali manifestino comportamenti assimilabili al lutto, il dolore per la perdita di una persona cara, quello che la letteratura anglosassone indica come “grief”. Il lutto è un indicatore di consapevolezza della natura irreversibile dello stato di morte, ma di nuovo non siamo in grado di sostenere o escludere che la consapevolezza sulla natura irreversibile della morte dell’altro si traduca nella consapevolezza della propria, personale finitudine. Per gli umani è così, e di solito la prima esperienza di una morte in famiglia rende perspicua (mi si passi il biscardismo) la propria mortalità.

Tuttavia, anche se esiste una consapevolezza della propria mortalità, non ne discende che l’animale abbia consapevolezza che una data sequenza delle proprie azioni terminerà con la propria morte.

Alla seconda parte della domanda (quali possono essere le ragioni che inducono un animale a suicidarsi?) non sono in grado di rispondere, ma ho argomentato, in un articolo sulla rivista Crisis (Preti, 2011a), che gli animali sociali possiedono l’intero “apparato” emotivo e cognitivo che può esitare nella comparsa di ideazione suicidaria. In particolare, sono sensibili allo stress, anche di natura sociale, sviluppano forti legami con membri preferiti del proprio gruppo, possono manifestare forti stati emotivi, incluse rabbia, paura e tristezza, possono avere una qualche consapevolezza della morte e probabilmente manifestano stati mentali assimilabili alla depressione.

Sarebbe inverosimile che il sapiens sapiens sia stato il primo mammifero a manifestare disturbi psicologici. L’umore è uno stato complesso influenzato dal ritmo circadiano, dalle stagioni, dalle infezioni, dallo stress, e probabilmente si “guasta”, cioè va incontro ad alterazioni patologiche, negli animali come accade negli umani.

Quindi, una possibile risposta alla domanda sarebbe: le stesse motivazioni che scatenano l’ideazione suicidaria negli umani, e cioè la rottura di un forte legame sociale, il sentimento di essere esclusi da una comunità, il senso di disperazione che origina dal non riuscire a immaginare alternative ad una situazione di miseria, malattie somatiche causa di dolore persistente, disturbi psicologici causa di incoercibile dolore psichico.

Il comportamento suicidario degli animali viene talvolta ricondotto al loro stato d’animo, per esempio al fatto che l’animale fosse depresso: si tratta di una spiegazione ragionevole? Più in generale, ha senso parlare di depressione o di stress post-traumatico negli animali? Se sì, come vengono accertati questi stati e come ne viene determinata la gravità?

Come detto prima, è plausibile che gli animali, almeno quelli sociali, manifestino disturbi psicologici analoghi a quelli osservati negli umani. In effetti, i modelli animali di malattie umane sono utilissimi per indagarne le cause e studiare i fattori che influenzano, positivamente o negativamente, l’evoluzione di una patologia, oltre che, ovviamente, per sperimentare cure potenziali.

Sfortunatamente, per quanto attiene ai modelli animali delle psicopatologie umane, quello di cui disponiamo è del tutto inadeguato (Preti, 2011b). In particolare, per quanto riguarda gli stati d’animo che possono esitare nell’ideazione suicidaria, cioè la volontà di porre termine alla propria vita, la maggior parte dei modelli si basa su stimoli estremi che causano una notevole sofferenza nell’animale coinvolto. Tuttavia, la maggior parte di coloro che sviluppano una depressione con ideazione suicidaria non ha subito questo genere di stimoli estremi, e spesso non è stata neanche esposta a una qualche forma di stress.

Nel complesso abbiamo difficoltà a simulare modelli accettabili di una psicopatologia umana, e altrettanto difficile è la definizione degli analoghi comportamenti nell’animale. Comportamenti di ritiro, la perdita dell’appetito, la scarsa disponibilità al gioco, alterazioni nei ritmi fisiologici (sonno, escrezioni) sono indicatori probabili di sofferenza psicologica negli animali da compagnia (cani, gatti, etc.), ma possono anche essere segni di una infestazione da parassiti o virus (come accade nell’uomo, peraltro).

Non avendo modelli accettabili di questi fenomeni nell’animale, non possediamo adeguate misure della loro gravità. Conosco veterinari che dissentono da questo mio punto di vista, e che sostengono di essere in grado di identificare uno stato di depressione in un animale. Forse è vero, e questa loro capacità discende da conoscenza professionale della vita animale e relativa esperienza. Non sono in grado di pronunciarmi su questo.

Ancora a proposito dei sentimenti provati dagli animali, è sensato parlare di empatia da parte degli animali? Questa empatia sarebbe rivolta solo a membri della propria specie o potrebbe essere rivolta anche ad altre specie, per esempio un umano con cui l’animale domestico vive? L’empatia potrebbe essere provata anche verso animali di altre specie, che per esempio si trovino in una situazione di sofferenza o di difficoltà?

Qui la risposta è: dipende. Dipende da cosa si intende per empatia. Ne esistono svariate definizioni, e quelle proposte dagli psicologi spesso non collimano con le definizioni avanzate dai neuroscienziati.

Se si intende l’empatia come la capacità di riconoscere lo stato emotivo di un conspecifico e di adattare il proprio comportamento di conseguenza, la risposta è sì, certo, ci mancherebbe. Tutta l’etologia si basa sull’ipotesi che gli animali “leggano” le emozioni nei loro simili e vi si conformino, anche in modo rituale (cioè, secondo regole condivise da una specie).

Secondo il gruppo di neuroscienziati che ha avanzato l’ipotesi dei neuroni-specchio, l’empatia sarebbe la capacità di reagire a stimoli che attivano gli stessi neuroni che si attivano quando compiamo una data azione rilevante per la sopravvivenza. Se si attiva un certo cluster di neuroni quando allungo un braccio per prendere una banana e lo stesso cluster di neuroni si attiva quando vedo un altro allungare un braccio per prendere una banana, quella attivazione produce una comprensione empatica, e pre-riflessiva (cioè, non devo ragionarci sopra), di cosa significa quel gesto: chi ha preso la banana la mangerà, perché è quello che accade quando io allungo la mano per prendere una banana.

Questa componente dell’empatia, la “lettura” degli stati mentali altrui per prevederne il comportamento, coincidente con il sistema dei neuroni-specchio, è stata descritta in specie diverse dalla nostra, e certamente precede lo sviluppo della nostra specie.

Noi proviamo empatia anche verso specie diverse dalla nostra, per la precisione tendiamo ad antropomorfizzare gli stati d’animo degli animali. Il cane, il gatto, provano le stesse esperienze empatiche nei nostri confronti? Possibile, perché li abbiamo selezionati per stare con noi, in particolare per fare per noi certe cose. I cani per andare a caccia con noi, i gatti principalmente per farci compagnia. Questo è avvenuto tra 40.000 e 20.000 anni fa, forse più tardi per il gatto.

Troppo poco perché la selezione naturale sviluppasse forme di empatia cane-uomo? In realtà la selezione naturale può agire anche in pochi anni, come successo in una variante dei fringuelli di Darwin delle Galápagos (Le Scienze, 2017). Nel caso di cani e gatti deve avere agito una fortissima selezione per conservare varianti che sembrassero ai proprietari maggiormente capaci di “sintonia emotiva”. Quindi sì, l’empatia come è definibile nell’uomo è presente anche in altre specie ed è possibile si sia sviluppata anche da specie a specie nel caso di animali domesticati.

Nel caso delle formiche, si è parlato di suicidio con motivazioni altruistiche, in particolare questi animali si farebbero esplodere rilasciando una sostanza velenosa allo scopo di difendere il formicaio. Si tratta di una spiegazione plausibile?

Mi sento di affermare che questo è un uso metaforico del termine “suicidio”. Non credo che la formica “voglia” darsi la morte. Si tratta di un comportamento a “innesco” fortemente selezionato da processi naturali. Si può parlare di sacrificio altruistico ma certamente non è un “suicidio” come definito nella specie umana.
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Ape giapponese Credits Hornetboy1970. ©Wikipedia


Le api giapponesi, quando si difendono dal calabrone asiatico gigante, lo circondano, disaccoppiano le ali e battono vigorosamente i muscoli. In questo modo producono calore e alti livelli di anidride carbonica che uccidono il calabrone imprigionato, ma anche alcune delle api che gli si trovano più vicine. È possibile parlare di suicidio consapevole in questo caso?

Mi riesce difficile immaginare un pensiero consapevole tra le api, che funzionano come un alveare, cioè un sistema integrato di unità che non sembrano pensare isolatamente ma come gruppo, un po’ come i Borg di Star Trek. A parte questa mia difficoltà, che potrebbe riflettere un mio pregiudizio, in molti insetti si manifestano comportamenti di aggressività difensiva, comportamenti che possono arrivare a danneggiare il membro che li mette in atto oppure i membri del gruppo che dovrebbe essere protetto. Sono comportamenti diffusi in tutto il regno animale, e descritti come “self-endangering behaviors”, condotte di auto-esposizione al pericolo, proprio perché ciò che caratterizza questo sottogruppo di condotte aggressive volte alla difesa è la esposizione a situazioni di pericolo, nelle quali chi manifesta il comportamento può giungere a morte.

Poiché siamo scarsamente (molto, molto poco) imparentati geneticamente con gli insetti, i comportamenti che possono essere rilevanti per la nostra specie sono quelli diffusi tra i mammiferi. Tra i mammiferi sono frequenti condotte di auto-sacrificio in difesa della prole, ma anche condotte aggressive “di vendetta”, che hanno cioè lo scopo di punire qualcuno che abbia minacciato risorse biologicamente rilevanti (non solo la prole).

Da questo tipo di condotte aggressive (di difesa e di vendetta) deriva, probabilmente, una intera classe di comportamenti suicidari descritti nella nostra specie: il suicidio per vendetta, caso particolare del suicidio con intento ostile. Nel suicidio con intento ostile il soggetto usa il proprio corpo come arma per aggredire uno oppure più opponenti, talora con previsione immediata della propria morte oppure con insistenza nel comportamento fino a essere abbattuto (Preti, 2006a; 2006b).

Nel suicidio per vendetta, descritto dagli antropologi, il suicida compie un gesto eclatante che ha lo scopo di attirare l’attenzione della comunità sul suicida e sull’offesa che avrebbe ricevuto, solitamente descritta in un messaggio o un discorso compiuto prima del suicidio (ad esempio, quando il suicidio avviene per precipitazione). Sembra che esistano delle vere e proprie “sceneggiature” che regolano il suicidio per vendetta, presenti nelle varie culture in forma di leggende esemplari. Solitamente la vittima è qualcuno senza potere (una donna, un giovane) e l’offensore un uomo potente, contro il quale sarebbe difficile agire secondo le procedure legali accettate dalla cultura cui appartiene il suicida. Il suicidio viene compiuto solitamente in luoghi pubblici, e il suicida incita la famiglia e la rete amicale a trarre vendetta della propria morte indicando un “colpevole” che spesso subisce pressioni o vere e proprie aggressioni da parte dei parenti del morto. La leggenda di Lucrezia e di Tarquinio, nella letteratura latina, assolveva forse a un simile ruolo di racconto esemplare. Casistiche estese sono repertate negli studi di Dorothy Counts (1987; 1991). Già Malinowski aveva descritto il fenomeno (1916).

Le caratteristiche del suicidio con intento ostile si osservano anche nelle morti per suicidio con abbattimento forzato (suicide by cop) che concludono un episodio di spree killing, omicidio multiplo in sequenza, come quelli che culminano nello “school shooting” (massacro scolastico), fenomeno tragicamente noto negli Stati Uniti (Preti, 2008).

In questi casi l’aggressore colpisce uno o più bersagli predefiniti, scelti perché collegati in qualche modo a offese che l’aggressore ritiene di avere patito o perché simbolici di una qualche costellazione di idee avversata dall’aggressore. Nel corso dell’episodio l’aggressore anche abbatte chiunque si frammezzi all’azione primaria. La sequenza, iniziata talora dall’omicidio di uno o più parenti stretti, termina con il suicidio dell’aggressore oppure con il suo esporsi all’abbattimento forzato da parte delle forze dell’ordine, che lo colpiscono per porre termine all’azione omicida. Questo esito differenzia l’azione del suicidio con intento ostile da altre forme di omicidio multiplo in sequenza, come le stragi perpetrate da razzisti (i cosiddetti suprematisti bianchi) negli Stati Uniti (esempio il recente episodio di El Paso) o altrove (strage dell’isola di Utoya, Norvegia), nei quali sempre l’aggressore fa in modo di essere arrestato (solitamente ritiene di avere compiuto un atto giustificato).

Il suicidio con intento ostile e in particolare la variante del suicidio per vendetta sono sempre espressi in modo consapevole e intenzionale. Per quanto riguarda il mondo animale, non sappiamo se le condotte di auto-esposizione al pericolo nell’aggressività difensiva e in quella per vendetta siano consapevoli o no, cioè se l’animale prefiguri la propria possibile morte quale esito dei comportamenti che mette in atto e vi insista comunque perché il fine difensivo o vendicativo acquista priorità rispetto alla personale sopravvivenza. Lo ignoriamo, io almeno non conosco studi “scientifici” che abbiamo affrontato il tema con risposte basate sull’evidenza documentaria.
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Il suicidio di Seneca, celebra quadro di Manuel Dominguez Sanchez.


Come si concilia l’idea del suicidio animale con una prospettiva evoluzionista e in particolare con l’esistenza di un istinto di sopravvivenza?

In realtà già la regola di Hamilton (1963; 1964a; 1964b), caso particolare dell’equazione di Price (1970), ammette una soluzione al dilemma. Secondo la regola di Hamilton, un comportamento altruistico può diffondersi, cioè essere fissato dalla selezione naturale in una data popolazione, secondo una relazione generale tale per cui r x B > C, dove r è il grado di vicinanza genetica tra due individui (quello che esprime il comportamento altruistico e quello che lo riceve), B è la dimensione del beneficio ricevuto (cioè, la cessione di risorsa compiuta dall’altruista in favore del beneficiato), e C è il costo dell’atto altruista, con la morte che rappresenta il costo in assoluto più alto, poiché impedisce all’altruista di riprodursi ulteriormente. Essenzialmente, se l’interazione tra la prossimità genetica di altruista e beneficiati e l’entità del beneficio (in termini di sopravvivenza della frazione di geni dell’altruista condivisi dai benefattori) è maggiore del costo dell’atto altruista, anche in caso di morte dell’altruista, il comportamento, se sostenuto da un gene condiviso con i beneficiati, si manterrà nella popolazione e non sarà filtrato via dalla selezione naturale.

Se si considera il suicidio come caso particolare di altruismo, morire cedendo risorse in favore dei sopravvissuti è un comportamento che può essere mantenuto nella popolazione se il grado di parentela dei sopravvissuti è elevato (esempio, figli) e complessivamente il numero di copie dei geni del suicida che rimane nella popolazione (tra cui i geni che sostengono il comportamento di autosacrificio suicidario) è sufficientemente alto da consentirne la trasmissione alle generazioni successive. Questo concetto è riassunto da un famoso detto di uno dei padri della genetica evoluzionistica moderna, John Burdon Sanderson Haldane: «I would lay down my life for two brothers or eight cousins» (Darei la vita per due fratelli o otto cugini). Un esempio ancora più elementare è stato proposto da Daniel Wilson, uno psichiatra americano: «In the jungle, a hominid might well have enhanced his own genetic survival by sacrificing himself to a leopard, if that thereby saved six of his brothers and sisters» (Nella giungla, un ominide avrebbe potuto migliorare la propria sopravvivenza genetica sacrificando se stesso contro un leopardo, se ciò avesse salvato sei dei suoi fratelli e sorelle) (Angier, 1994).

Sappiamo che la genetica del suicidio è complessa, e sembra separata da quella che specifica lo sviluppo (perlopiù in termini di fattori di rischio, non di causazione diretta) delle principali psicopatologie che si accompagnano al suicidio, come depressione, schizofrenia, disturbi alimentari, etc. (si veda Erlangsen et al., in corso di stampa). Avere i geni per la depressione non è sufficiente per morire di suicidio, serve una spinta ulteriore e separata, e infatti la maggior parte di coloro che sviluppano una depressione, anche grave, non muore di suicidio né tenta il suicidio.

Ammettiamo che un soggetto possieda i “geni per il suicidio”. Questi geni saranno condivisi dai familiari, in proporzioni note alla genetica. Se il soggetto muore per suicidio e lascia risorse che consentono ai sopravvissuti di sopravvivere meglio e di riprodursi, i geni per il suicidio si diffonderanno nella popolazione tanto più quanto maggiore è il beneficio ricevuto dai sopravvissuti in termini di risorse risparmiate, purché i sopravvissuti siano imparentati strettamente con il suicida. Questo meccanismo potrebbe essere stato attivo all’epoca dei cacciatori-raccoglitori ed essersi conservato nelle prime fasi della transizione verso la domesticazione delle piante (agricoltura) e degli animali (allevamento) per via delle frequenti carestie delle fasi iniziali (e poi delle carestie causate da guerre e disastri ambientali). In questi termini, la fissazione evoluzionistica del suicidio potrebbe avere contribuito alla stessa speciazione del sapiens sapiens dai suoi predecessori (homo sapiens semplice, come i denisoviani e i Neanderthal). Insomma, morire per suicidio lasciando risorse agli altri avrebbe costituito un vantaggio evolutivo per il sapiens sapiens.

Se questo è vero, i “geni per il suicidio” sarebbero costitutivi nella nostra specie, e isolarli potrebbe essere un grosso problema.

Tuttavia, questa “just so story”, come direbbe Kipling, non ha al momento solide fondamenta. Se una spiegazione del “paradosso del suicidio” è possibile, in base alla regola di Hamilton, non significa che la plausibile spiegazione evoluzionistica abbia in suo favore evidenze. In particolare, chi muore per suicidio si lascia dietro una sequela di difficoltà e sofferenza che rende difficile credere che la morte per suicidio di qualcuno possa costituire un vantaggio per chicchessia (Scocco et al., 2017). Ciò accade solo in situazioni estreme (ad esempio, il caso del prigioniero che si suicida per non rivelare sotto tortura informazioni sui compagni di lotta, informazioni che li metterebbero a rischio di cattura e uccisione).

Per quanto riguarda l’istinto di sopravvivenza, esistono teorie complesse che spiegano come il potenziale suicida spenga progressivamente in sé la spinta alla sopravvivenza e l’avversione alla morte. Mi consenta però di lasciare agli specialisti la discussione su queste teorie, per evitare di dare pubblicità a processi che potrebbero suscitare imitazione. In materia di suicidio la cautela non è mai troppa.
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Il suicidio di Cleopatra, di Guercino.


Referenze, in ordine di citazione

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