Il potere della conoscenza

L’investimento destinato dall’Italia alla ricerca finirà per orientarci verso le lavatrici invece che verso i satelliti. Occorre un atteggiamento nuovo verso la ricerca e i ricercatori.

La ricerca è come una fonte da cui sgorga continuamente acqua, che s'infiltra ovunque, favorendo ogni crescita: ciò avviene specialmente nelle società moderne, fondate su scienza e tecnologia. Il ruolo della politica, naturalmente, dovrebbe essere quello di favorire questo flusso, incanalandolo nei settori giusti.
Attualmente, la produzione di conoscenza è un nuovo, formidabile potere per qualunque paese, perché consente di mettere più intelligenza in tutto: non solo negli oggetti (per vincere le competizioni internazionali), ma nella società, nell'educazione, nella politica.
Se si considera la storia dell'umanità, ci si rende conto che, nel suo insieme, essa è la storia dell'aumento del "software": cioè della capacità di espandere la conoscenza nei sistemi. A cominciare dalla preistoria. Basta osservare le pietre scheggiate per accorgersi di quanto sia aumentata dal Paleolitico al Neolitico la capacità di trarre superfici taglienti da uno stesso sasso: da poco più di 10 cm a svariate decine di metri. Il software (conoscenza, competenza, creatività, intelligenza) dunque, partendo da una stessa situazione, consente di ottenere risultati migliori semplicemente impiegando in modo più efficace il cervello. Da alcune tavole di legno, per esempio, si possono ricavare tanto un asse per lavare i panni quanto un violino Stradivari. Il materiale è identico: quello che cambia è il contenuto di informazione. Analogamente, in pratica occorrono le stesse materie prime per costruire una lavatrice oppure un satellite artificiale. Anche qui quello che conta non è il materiale, ma è il modo in cui esso è stato assemblato, cioè l'informazione.

Investimenti inadeguati


A tale proposito, va ricordato che l'esiguo investimento destinato dall'Italia alla ricerca finirà per orientarci verso le lavatrici, piuttosto che verso i satelliti artificiali. È uno dei problemi che denunciano gli esperti in sviluppo industriale. L'Italia, nei confronti degli altri paesi avanzati, è atrofizzata nello sviluppo delle tecnologie ad alto contenuto di conoscenza; certo, i tessili, il pellame, gli elettrodomestici sono importanti, ma per giocare ai vertici non basta. È come se, all'inizio del '900, un paese industrializzato avesse trascurato i settori della meccanica, della chimica o della produzione di energia: difficilmente avrebbe potuto tenere il passo dello sviluppo internazionale. D'altronde, la ricerca avanzata coinvolge ormai anche i settori di minore profilo tecnologico: in altre parole, nuove scoperte e nuovi brevetti possono modificare determinati processi produttivi nei settori del tessile, del pellame o degli elettrodomestici rendendoli più economici e/o di migliore qualità e mettendo così fuori mercato le lavorazioni tradizionali. L'unico rimedio, per chi, come noi, non investe a sufficienza nella ricerca, sarebbe quello di diminuire i costi di produzione, vale a dire i salari; ma in questo caso la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, dove gli stipendi sono da 10 a 30 volte inferiori che in Italia, sarebbe difficilmente contrastabile.

La fuga di cervelli: un pessimo affare


Per entrare nei settori ad alta tecnologia, però, occorre un retroterra culturale che in Italia non c'è. Occorre perciò un atteggiamento del tutto diverso nei confronti della ricerca e dei ricercatori. Una delle cose che mi hanno sempre provocato stupore e rabbia è incontrare tanti bravissimi ricercatori italiani nei laboratori stranieri, emigrati per riuscire a lavorare degnamente. È vergognoso che il nostro paese obblighi all'espatrio queste élites intellettuali, non offrendo loro l'opportunità di lavorare bene qui. Per contribuire, tra l'altro, allo sviluppo del nostro paese: infatti, al di là di ogni altra considerazione, la fuga dei cervelli è un pessimo affare economico, perché si spendono fior di quattrini per preparare nelle università studiosi che poi, nel momento in cui essi potrebbero restituire, sotto forma di "software", l'investimento fatto, non vengono impiegati. Anzi, sono addirittura in forze presso paesi stranieri, che possono avvalersi, senza aver speso un soldo in termini di formazione, di un considerevole patrimonio di intelligenza. Ricordo che una volta mi trovavo nel laboratorio dell'Università di Stanford, in California, per intervistare il professor Arthur Kornberg, genetista e premio Nobel: egli si mostrò scandalizzato del fatto che nel suo dipartimento fossero impiegati tanti bravissimi ricercatori italiani, che non erano riusciti a trovare lavoro nel proprio paese. È un vero e proprio scandalo che l'Italia spenda appena poco più dell'1 per cento del prodotto interno lordo per la ricerca: la metà, a volte meno, di quello che investono i paesi nostri concorrenti. La situazione degli investimenti italiani sulla ricerca è ulteriormente aggravata da due aspetti, entrambi deprecabili: non solo quello della quantità della loro distribuzione, i cosiddetti finanziamenti "a pioggia", ma anche la totale mancanza di controllo dei risultati ottenuti. Proviamo a immaginare se la NASA, per la missione sulla Luna, anziché scegliere i migliori scienziati, laboratori, industrie in base a una severa selezione, controllando ogni fase produttiva, avesse distribuito a pioggia, indiscriminatamente, i suoi finanziamenti, per di più senza verificare la qualità dei risultati. Nessuno si sarebbe arrischiato a salire sul razzo.

Un ritardo preoccupante


In Italia, un tentativo di correggere questa situazione si è avuto con l'inserimento, peraltro tardivo, del sistema dei referees'': esperti internazionali che in forma del tutto anonima giudicano i progetti da finanziare senza tener conto di altri elementi che non siano quelli della validità scientifica. Ma le pessime abitudini sono talmente radicate, l'influenza di chi rimarrebbe danneggiato da tali selezioni è talmente potente, che una tale riforma rischia di avere vita difficile. Soprattutto perché manca un contesto culturale che la sostenga. L'Italia si sa, ha una cultura di estrazione soprattutto letterario-filosofico-giuridica. C'è poca sensibilità e anche poca competenza nei confronti della scienza e della tecnologia. Anche perché scienziati e ricercatori scrivono e parlano poco e quindi non favoriscono la consapevolezza da parte dell'opinione pubblica dei problemi connessi con la ricerca. Basta sfogliare i quotidiani e i settimanali: scienza e tecnologia sono confinati in pagine specialistiche, inserite in scaffali ben precisi. Interessano le scoperte e le invenzioni, soprattutto se servono a migliorare la nostra vita, oppure le mostruosità, con annesso dibattito bioetico. Ma il ruolo della scienza nella società, nell'economia, nell'educazione, il metodo scientifico come forma di pensiero, la straordinaria messe di conoscenze che permettono di avere un quadro più approfondito dell'universo, della vita e dell'uomo, la filosofia naturale frutto di questa visione razionale del mondo, tutto ciò non passa nell'informazione e tanto meno nella cultura.

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