Babbo Natale veste Coca-Cola

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  • 31-03-2015
  • di Stefania de Vito e Sergio Della Sala
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Figura 1: «Refreshing surprise» (1959), illustrazione di Haddon H. Sundblom per la Coca-Cola.
La medaglia di bronzo alla popolarità dell’outfit, dopo l’abito bianco che scopriva le gambe di Marilyn Monroe e le felpe che desnudano il Salvini pensiero, spetta alla grisaglia rossa di Babbo Natale. Ma se lo stile dei divi è parte della memoria collettiva, ben più difficile è risalire ai creatori di quello stile.
Si narra che la vera storia dell’abito di Babbo Natale abbia inizio da Haddon H. Sundblom. La Coca-Cola, dal 1931 al 1966, chiese a Sundblom di illustrare il personaggio di Babbo Natale per le sue pubblicità natalizie. L’artista partorì la serie dal titolo “Sorpresa rinfrescante” (figura 1).
Le sue illustrazioni rappresentano la nostra immagine moderna di Santa Claus, come dichiara anche Phillip F. Mooney, responsabile per 35 anni dell’archivio Coca-Cola: “La nostra campagna pubblicitaria si impose subito come tradizione.
Per oltre trent’anni, l’interpretazione di Sundblom ha plasmato nella mente degli Americani la caratterizzazione definitiva di Babbo Natale” (Charles e Taylor, 1992, p. 5).
La creazione dell’icona del Babbo Natale in rosso è stata per lungo tempo attribuita alla Coca-Cola anche da molti autori della stampa popolare, al punto che nel 1996 la Pepsi, sua storica antagonista, cercò di accaparrarsi una fetta di mercato russo, propalando un Babbo Natale in blu.

Ma davvero la Coca-Cola ha vestito per la prima volta Babbo Natale di rosso?


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Figura 2: Immagine di San Nicola presente nella Basilica di San Nicola a Bari.
La leggenda di Babbo Natale risale alla figura di San Nicola, nato a Patara, un porto nel sud della Turchia, nel 270 d.C. e vissuto nella Licia, dove fu vescovo di Myra. A lui si attribuivano miracoli, come quello di aver ridato la vita a tre bambini, o azioni molto generose, come ad esempio quella di aver regalato la dote alle tre figlie di un pover’uomo perché potessero sposarsi. Quest’ultimo episodio è raccontato da Dante Alighieri nel XX canto del Purgatorio (vv. 31-33), come uno dei tre esempi di generosità in opposizione all’avarizia punita in quel girone. San Nicola era visto come il protettore dei poveri, delle donne nubili e dei bambini. Dopo la sua morte, le spoglie furono trafugate e portate a Bari, città della quale il santo divenne patrono. Anche lo scrittore Gianrico Carofiglio riporta questa storia nel romanzo Né qui né altrove

“Ma tu lo sai che è Bari il paese di Babbo Natale?” “Che dici mamma? Il paese di Babbo Natale è in Finlandia, l’ho letto su Topolino.” “Non è così. In Finlandia c’è solo il deposito dei giocattoli. Babbo Natale abita a Bari.” Dissi che non ci credevo, e che pensavo mi stesse prendendo in giro. Lei allora mi spiegò, molto seriamente, che Babbo Natale è uno dei nomi di San Nicola, che è il santo di Bari e abita nella basilica della città vecchia, vicino al mare. Siccome ero ancora scettico mi fece vedere un libro dove si spiegava la storia di Nicola-Santa Klaus-Babbo Natale... Avevo scoperto di abitare in un luogo straordinario, un luogo unico al mondo: il paese segreto di Babbo Natale” (pp. 136-137).

Fino al 1300 gli artisti ritraevano San Nicola generalmente con la barba marrone e tuniche di vari colori (Figura 2).
Quando il cristianesimo cominciò a diffondersi, la figura di San Nicola fu associata a quella di Odino, divinità della mitologia germanica raffigurata con barba bianca in sella a cavalli (o asini o capre) bianchi. Tra il 1500 e il 1800 la figura di San Nicola in questa nuova veste fu adottata da molte culture dell’Europa occidentale. Ma è solo nel diciannovesimo secolo che Santa Claus inizia la sua ascesa a simbolo natalizio nella tradizione del popolo americano, prima in forma letteraria e poi visiva.
Tra gli autori che scrivevano di San Nicola, ricordiamo Clement Moore, che il 23 dicembre del 1823, aveva pubblicato sul giornale newyorkese Troy Sentinel il “Racconto di una visita di San Nicola”. Il poema descriveva San Nicola come “un piccolo, vecchio, allegro elfo”, “vestito di pelliccia dalla testa ai piedi”, con “occhi luccicanti”, “fossette allegre”, “guance rosee” e un naso come una “ciliegia”.
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Figura 3: Babbo Natale di Robert Weir (1837).
Nel poema Moore descriveva anche la barba “bianca come la neve” del santo. Il poema ispirò Robert Wier nella creazione del primo vero ritratto popolare in cui il vecchietto vivace comincia ad assumere le sembianze del Babbo Natale che conosciamo. Weir ritrae un Santa Claus che somiglia molto a un elfo smilzo e bassino, con copricapo e stivali. Sebbene porti con sé un sacco pieno di giocattoli, incute un po’ di timore a causa del ghigno che riflette una bontà condizionata: “Devi essere buono se vuoi che ti regali un giocattolo” (Figura 3).
Fu finalmente intorno al 1862 che Thomas Nast, vignettista politico, ritrasse per la prima volta per la rivista Harper’s Weekly lo stereotipo di Babbo Natale a noi noto, ancora una volta prendendo in prestito a modo suo le caratteristiche più salienti che emergevano in poemi e romanzi. Da quel momento, l’immagine del Santa Claus di Nast, con annessi e connessi (giocattoli, pancione, pipa, barba bianca e abito rosso), venne usata in molte pubblicità e centri commerciali. Tuttavia, dopo la morte di Nast nel 1902, l’immagine di Santa Claus cominciò a frastagliarsi. La taglia, i colori, il viso e la barba che lo contorna, gli accessori cambiarono a seconda dell’artista che lo ritrae. Basso o alto, magro o grasso, adornato con giacche o vestiti, con o senza barba. Santa perse la sua “identità” e, nonostante il rosso fosse ancora il colore prescelto per il suo costume, non era insolito imbattersi in Santa Claus cangianti con abiti blu, bianchi, gialli, porpora, verdi o neri dai tratti fisonomici più disparati e talvolta con espressioni sogghignanti. Si pensi all'opera "Heads of state" (1963) di Niki de Saint Phalle. L'artista aveva utilizzato, in basso a destra, una maschera americana di Halloween dell'epoca, che ritraeva il volto di un Babbo Natale contratto in una smorfia di scherno quasi astioso (Figura 4).
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Figura 4: Heads of State" (1963) di Niki de Saint Phalle.
Nel frattempo, cominciarono a fiorire richieste per Babbi Natali da strada, che potessero raccogliere denaro per beneficenza, o attirare clienti nei centri commerciali. Nel 1937 nacque le prima scuola di formazione per Babbi Natali ad Albion (New York), che impartiva lezioni sul comportamento e sulle tecniche di vendita. La scuola curava anche l’apparenza dei Babbi Natali, che dovevano portare abiti rossi, stivali neri e baffi. Nel 1927 The New York Times delineava l’aspetto del Babbo Natale canonico con abito rosso, cappuccio, guance rubiconde e baffi bianchi. Senza dimenticare il sacco traboccante di giocattoli.
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Figura 5 A: Illustrazione di Thomas Nast che rappresenta Santa Claus sul giornale Harper’s Weekly (1866).
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Figura 5 B: Illustrazione di Thomas Nast che rappresenta Santa Claus sul giornale Harper’s Weekly (1866).
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Figura 5 C: Illustrazione di Thomas Nast che rappresenta Santa Claus sul giornale Harper’s Weekly (1881).
In questi anni, la Coca-Cola decide di adottare il personaggio di Babbo Natale nelle sue pubblicità. E Sundblom comincia a rappresentare un Babbo Natale circondato da bambini, giocattoli e regali[1], elfi, alberi di Natale, renne, che si cala nei camini. Nelle illustrazioni, Babbo Natale legge lettere di bambini, costruisce giocattoli, controlla le sue liste. Un Babbo Natale florido e sfarzoso e, al tempo stesso, umano, amorevole e gioioso, e molto ingrassato rispetto ai tempi di Nast. Il pancione è tracotante, simbolo dell’opulenza e della ricchezza americana, in rosso e bianco come i colori della Coca-Cola.
Da allora questo è Babbo Natale. L’identità del Babbo Natale di Sundblom si è cristallizzata nel nostro immaginario collettivo, passando in giudicato. Sebbene la Coca-Cola non possa essere considerata come creatore unico dello stile del Babbo Natale che oggi tutti conosciamo, è certamente vero che dalle illustrazioni di Sundblom in poi, Babbo Natale non è stato più raffigurato in altri modi. Non più alto o basso, grasso o magro, con ghigno o sorridente, in verde, blu, bianco, porpora o nero. Il Babbo Natale dopo Sundblom è esattamente come lo aveva pensato l’artista. Versioni diverse non sarebbero realistiche. Oggi non solo un Babbo Natale magro, con un ghigno e vestito di nero non sarebbe più credibile, ma non sarebbe neanche riconoscibile.
E difatti in una ricostruzione della storia del cambiamento della fisionomia di Santa Claus attraverso le sue rappresentazioni visive, il quotidiano The Guardian (18/12/2014)[2] parte da un affresco del XII secolo di San Nicola di Bari presente nella Cattedrale di Taranto e ripercorre secoli di Babbi Natali ritratti in bianco e nero, in verde, in rosso, con pistole o mentre scambiano effusioni con le donne, fino ad arrivare alla classica pubblicità della Coca-Cola (“Classic Coca-Cola advert of Father Christmas from 1959”), dove si ferma. Non esiste un’ulteriore evoluzione della figura di Babbo Natale.
Perché il Babbo Natale della Coca-Cola è diventato iconico, imponendosi su tutti gli altri? Perché il Babbo Natale di Sundblom è un’epitome delle caratteristiche dei Babbi Natali già esistenti nella letteratura e nelle illustrazioni del passato. Il ritratto di Sundblom è icastico ed enfatizza immagini che abitavano già la cultura popolare, come la barba bianca, il sorriso garrulo, gli occhi luccicanti e il rapporto con i bambini.
Questo Babbo Natale dimorava già in nuce nell’immaginario collettivo, grazie ai vari Moore, Nast, Wier, etc. Sundblom ha semplicemente alterato, cambiato o trasposto alcune caratteristiche, rendendole virali, come diremmo oggi. La bottiglia di Coca-Cola al posto della pipa, il pancione tracotante, la grisaglia sempre rossa e più sfarzosa. L’artista ha condito di nuovi elementi un’idea che era parte del sapere collettivo, adattandola alle richieste della Società per cui lavorava. E, come i ricordi collettivi, come quelli individuali, non sono statici, ricostruiscono il passato, persino re-inventando e re-interpretando simboli e tradizioni[3].
Le tradizioni che sembrano o si pretendono antiche, hanno spesso solo una base di verità (quando non sono inventate di sana pianta)[4] su cui sono stati innestati dettagli, oggetti, significati di origine molto recente (Hobsbawm & Ranger, 1983).
Nel 2012, in un’intervista a Che Tempo che fa, Dario Argento spiegava, ad esempio, che i canini di Dracula sono lunghi solo dal 1958. Il regista raccontava che il primo romanzo su Dracula risale al 1897 e fu subito messo in scena al teatro, mentre il primo film fu realizzato nel 1922 (col titolo di Nosferatu). In nessuno dei due c’era traccia dei lunghi canini che comparivano, invece, in un film messicano del 1958 dal titolo “Le spose di Dracula” e che, per qualche ragione, si imposero nell’immaginario collettivo[5]. Queste tradizioni o simboli devono avere necessariamente una rilevanza fattuale. In altre parole, devono essere elementi reali, successivamente modificati.
I media hanno certamente un ruolo cruciale nell’infiltrazione di icone. Trasmissioni televisive, radiofoniche, giornali, film, libri, pubblicità sono strumenti (media appunto) decisivi nella sedimentazione di un simbolo. Affinché i consumatori decodifichino un messaggio, è importante che quel messaggio sia per loro familiare. Non può essere indipendente dalla loro conoscenza e dalle loro esperienze passate. Un simbolo prolifera meglio se si aggancia ai ricordi collettivi e li altera, adattandoli alle esigenze contingenti. Un simbolo culturale non nasce dal nulla, nasce dall’alterazione di un’idea preesistente.
A livello più o meno consapevole, consumatori (intesi in senso lato) e pubblicitari (idem) interagiscono in una danza per la costruzione di un significato. La partecipazione dei consumatori è attiva. Partecipano con i loro ricordi, le loro aspettative, i desideri, le paure. Più i pubblicitari sono abili ad interagire con queste istituzioni culturali, più potenti e durevoli saranno i messaggi che veicolano o le icone che creano. I pubblicitari cercano un simbolo preesistente, già noto ai consumatori, e lo incastonano nella loro cornice di riferimento che i consumatori poi decriptano. I ritratti di Santa Claus sono rivisatizioni del passato intrise dell’idea odierna del Natale (opulento, consumistico, gioioso).
Nel ventesimo secolo il nostro immaginario collettivo ha affiancato in misura sempre crescente al significato religioso dell’istituzione natalizia quello commerciale. Babbo Natale è solo il simbolo di questo cambiamento.

Riferimenti bibliografici


- Charles, B.F. e Taylor, J.R. (1992). Dream of Santa: Haddon Sundblom’s advertising painting for Christmas, 1931-1964. New York: Random House.
- Hobsbawm, E.J. e Ranger, T. (1983). The invention of tradition, Cambridge, Cambridge University Press.
- Oklesgen, C., Baker, S.M. e Mittelstaedt, R. (2000). “Santa Claus does more than deliver toys: Advertising’s commercialization of the collective memory of Americans”. Consumption Markets Culture, 4(3), 207-240.

Note


2) Per un’analisi su come nasca la tradizione di scambiarsi regali a Natale si veda : Martyne Perrot – Il regalo di Natale. Storia di un’Invenzione. Dehoniane, Bologna, 2014.
3) Si veda “Non si può che dire falsa testimonianza” su Query n.4 (2010).
4) Si veda “Qual è il segreto della forza di Braccio di Ferro?”, su Query n.8 (2011).
5) Sulla storia di Dracula potete ascoltare il podcast di Massimo Polidoro: http://tinyurl.com/nx833po .

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