Chimere antiche, chimere moderne

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  • 02-04-2015
  • di Lisa Signorile
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Quando ero bambina mi divertivo a disegnare animali chimerici improponibili, un passatempo diffuso tra molti bambini. Immaginare animali chimerici, ovvero con parti anatomiche congiunte di due o più animali, sembra affascinare da sempre l'umanità, tanto che le chimere hanno popolato i sogni degli uomini sin dalla notte dei tempi. Ma quanto c’è di reale in una chimera? È possibile fondere insieme due o più animali?
Una delle chimere più antiche della storia dell’umanità di cui si abbia traccia è probabilmente Humbaba, il mostro contro cui combatte Gilgamesh, l’eroe sumero dell’omonimo ciclo epico. Humbaba, nella traduzione di Georg Burckhardt, ha le zampe di un leone, il corpo coperto di squame, gli artigli di un avvoltoio, le corna di un toro e la coda e il fallo che terminano in una testa di serpente.
La commistione leone-rettile-artiodattilo è da allora in poi una delle più ricorrenti: la chimera dell’Iliade, ad esempio, ha la parte anteriore di un leone, quella centrale di capra, quella posteriore di un serpente, le escono fiamme dalla bocca e, secondo Esiodo (e gli Etruschi, a cui dobbiamo la famosa Chimera di Arezzo in bronzo), ha tre teste. Secondo Plinio e altri autori, tra cui Servio, la Chimera, oltre ad avere chiaramente un valore simbolico e filosofico, potrebbe essere l’allegoria di un vulcano, il monte Chimera appunto, in quella che era la Licia, ora l’area chiamata Yanartaş in Turchia. Secondo Servio la base della montagna era infestata da serpenti, sui fianchi vi erano pascoli per le capre e in cima c’era un branco di leoni, mentre dalla bocca del vulcano svettavano fiamme. In realtà ci sono bocche e sfiatatoi vulcanici lungo tutto il fianco della montagna, un posto insolito per dei leoni, ma non così insolito se ci si rifugiano delle capre, magari in un’area sacra dove non si poteva cacciare. D’altro canto molte delle rocce dell’area vulcanica sono composte da serpentinite, il cui nome è dovuto alle venature della roccia che, con un pò di fantasia, fanno pensare a orme di serpente.
La Chimera dei greci era figlia di Echidna, la madre di tutti i mostri, metà donna e metà serpente. Non è chiaro perché l’omonima bestiola si chiami così, ma di sicuro non le mancano le qualità ibride. Secondo il dizionario di etimologia online (http://www.etymonline.com ) il nome potrebbe derivare dall’avere caratteristiche che ai primi naturalisti sembravano mescolate tra mammiferi (allatta i figli) e rettili (fa le uova e ha le zampe che fuoriescono lateralmente al corpo). Parlando di monotremi, non si può non citare la vera chimera più famosa degli ultimi tre secoli, l’ornitorinco, l’animale col becco d’anatra, la coda di castoro e il corpo da talpa (taciamo dello sperone velenoso dei maschi). Persino secondo gli aborigeni australiani l’ornitorinco era un animale chimerico nato dall’unione di una giovane anatra con un ratto acquatico (una specie endemica australiana). Il primo europeo che lo descrisse, l’inglese George Shaw nel 1799, era così convinto che fosse un falso ottenuto cucendo pezzi di vari animali che ne sforbiciò la pelle alla ricerca di cuciture. Non tutte le chimere però sono animali mitologici e l’ornitorinco, per quanto strano, è solamente un campione di convergenze evolutive.
A proposito di aborigeni, l’idea dell’animale chimerico non appartiene solo alla mitologia assira prima e greca poi. Senza citare tutte le divinità egiziane dalle caratteristiche ibride tra umani e animali, come Anubi, corpo umano e testa di sciacallo, o Sobek, il dio con la testa di coccodrillo, ma anche Ganesha con la testa di elefante o Varaha con la testa di cinghiale della religione Hindu, ci sono chimere in tutte le culture, segno della tendenza della natura umana ad immaginare la fusione di più creature per esaltarne le qualità ma soprattutto la mostruosità.
Il Gajasimha cambogiano ha la testa da elefante e il corpo da leone; il baku giapponese divora sogni e incubi e ha la proboscide da elefante, gli occhi da rinoceronte, la coda da bue e le zampe da tigre (probabilmente è un tapiro asiatico); lo Huallepen cileno ha la testa di vitello, il corpo di pecora, i piedi palmati e la parte posteriore da foca ed è anfibio (un lamantino?). Il Kelpi scozzese è mezzo cavallo e mezzo toro, e così via. In alcuni casi c’è un animale reale alla base, in altri si tratta invece di una semplice fantasia.
Un animale interessante è la Chimaera monstrosa, che ci lascia presagire intricati intrecci di leoni, capre e serpenti, ma in realtà si tratta di un pesce, chiamato dagli inglesi rabbit fish, pesce coniglio, per complicare le cose. Cosa abbia spinto Linneo a chiamare in questo modo questa pacifica creatura cartilaginea non particolarmente chimerica, nè particolarmente mostruosa, non è chiaro. Forse la coda aghiforme gli ricordava un serpente, forse l’aculeo velenoso non era di suo gradimento, ma si tratta sicuramente di un nome immeritato, ci sono animali molto più “chimerici”.
Ad esempio il cervo cinese di Padre David (Elaphurus davidianus) ha la stria dorsale scura e il corpo tozzo da asino anche se non è un asino, la coda lunga da cavallo anche se non è un cavallo, le zampe larghe da mucca anche se non è una mucca e le corna ramificate da cervo rosso anche se non è un cervo europeo. In cinese uno dei nomi di questo animale è sibuxiang, che significa più o meno “come nessuno dei quattro”. A Padre David del resto dobbiamo anche la “scoperta” del panda, che per i cinesi è un orso con le zampe di gatto, da cui il nome scientifico Ailuropoda.
Roba da fare invidia al dottor Moreau, la cui isola nel romanzo di H.G. Wells ricalca il mito delle chimere rendendolo però tetro per vie delle antropomorfizzazioni (o zoomorfizzazioni) forzate degli animali, un grande classico della letteratura horror di tutti i tempi, dai greci in poi. Questo ci porta quindi alla grande domanda: è possibile fabbricare una chimera, unire cioè due o più animali insieme? E per quale motivo si potrebbe desiderare una cosa del genere? La risposta è “dipende”, e “a volte ci sono motivi validi”.
Nel 1908 il fisiologo americano Charles Guthrie creò il primo “cane di Frankenstein”, cucendo la testa di un cane sul collo di un altro cane integro, e riuscendo a far sopravvivere la testa cucita anche se non a ripristinarne integralmente le funzioni. I suoi esperimenti erano di così dubbio gusto, persino un secolo fa, da escluderlo dalla candidatura al premio Nobel per la medicina, che fu invece assegnato a un collega di Guthrie. Non abbastanza orrendi però da prevenire il russo Vladimir Demikhof dal cucire la parte anteriore di cuccioli di cane su cani adulti, di cui uno ebbe la dubbia fortuna di sopravvivere per 29 giorni. Da allora queste operazioni controverse sono state effettuate anche su scimmie e ratti.
Questo lavoro pionieristico e folle fu l’ispirazione per i trapianti d’organo eterologhi, permise di capire il concetto di rigetto e come conservare e ripristinare la circolazione sanguigna in organi trapiantati. Al momento gli organi trapiantati vengono da donatori umani, ma è dal 1984 che, vista la carenza di donatori, si sperimentano trapianti eterologhi da animali a uomo, il primo caso quello di una bambina che ricevette il cuore di un babbuino. Una donna col cuore di scimmia avrebbe fatto entusiasmare qualunque compilatore di bestiario medioevale, ma oramai siamo nel campo della scienza e non della mitologia. A proposito di scienza, la fusione di cellule cancerose tra uomo e topo per isolare alcuni cromosomi (grazie a un virus) o l’impianto di cellule tumorali umane in ratti immunodepressi da laboratorio per esaminare le possibili terapie sono oramai pratiche abituali. Sherlock Holmes e il suo “ratto gigante di Sumatra”, una storia “per cui il mondo non è ancora preparato” ci rimarrebbe molto male.
Sono circa 3000 anni che le chimere popolano i nostri sogni e, sopratuttto i nostri incubi. Oggi la scienza ha reso possibile costruire chimere non come allegorie di qualcosa di temibile, non come mostri fatti di pezzi di animali, à la Dr. Moreau, e neanche come creature spaventose di bestiari medioevali, ma come farmaci, vaccini e cibo. Gli organismi geneticamente modificati (OGM) altro non sono che chimere genetiche, organismi nel cui DNA sono impiantati uno o più frammenti di DNA di altre specie. La scienza ci permette tanto di imbrigliare l’elettricità dei fulmini, facendoci smettere di credere che si tratta dell’ira di Zeus, quanto di controllare queste chimere genetiche, permettendoci di usarle, ad esempio, per produrre un vaccino per ebola, o una pianta di cotone con dei geni di batterio, grazie ai quali non si ammala. Ma Bellerofonte è ancora nelle nostre coscienze di ex cacciatori-raccoglitori, pronto tanto a uccidere la chimera quanto a impedire l’uso degli OGM su scala nazionale, per motivi che poco hanno a che fare con la scienza e molto con l’ancestrale paura di Echidna, non l’animaletto australiano ma la madre di tutti i mostri.
Sfortunatamente per il Bellerofonte che è in noi tutte le creature viventi sono un pò delle chimere. Nel nostro DNA ci sono enormi porzioni di DNA che sono state “catturate” prendendole da altre specie, soprattutto virus, e grazie ai virus sono stati trasferiti “orizzontalmente” geni anche tra mammiferi e altre specie, ad esempio il plasmodio della malaria ci ha “rubato” dei geni, nel corso della sua evoluzione, che gli permettono di rimanere dentro di noi più a lungo, diventando così un ibrido naturale batterio-uomo. E noi a nostra volta abbiamo rubato geni e addirittura interi organismi, come i mitocondri delle cellule, che un tempo erano batteri a vita libera mentre ora fanno parte di noi.
Faremmo bene a rassegnarci una buona volta a relegare il mito alla sfera metafisica della nostra coscienza e a cercare di capire come stanno davvero le cose, ora che ne abbiamo i mezzi, perché alle chimere non si sfugge.
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