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Sperimentazione
clinica,
omeopatia e meta-analisi
di Giancarlo Lancini, garante Cicap Lombardia
Nel
settembre 1997 la rivista Lancet pubblicò un articolo che
presentava una “meta-analisi” condotta su farmaci omeopatici.
Nonostante gli stessi autori dell'articolo si dichiarassero molto
cauti sui loro risultati, abbastanza deludenti, i sostenitori
dell'omeopatia hanno naturalmente sfruttato la “risonanza” pubblicitaria
che una pubblicazione su una rivista così prestigiosa può
fornire, travisando completamente le informazioni fornite dall'articolo
e contribuendo a creare ulteriore confusione attorno all'omeopatia.
Giancarlo Lancini in questo articolo cerca anzitutto di spiegarci
il concetto di “meta-analisi” e successivamente propone le sue
argomentazioni in riferimento alla pubblicazione di Lancet.
Negli ultimi
mesi è stato frequentemente citato dai sostenitori dell'omeopatia
(e più frequentemente dai venditori di prodotti omeopatici)
uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista “Lancet” (Vol
350, 20 Settembre 1997, pp. 834-843).
In questo articolo, con una operazione detta di “meta-analisi”,
vengono valutati statisticamente i risultati di 89 studi clinici
nei quali l'effetto di trattamenti omeopatici è stato confrontato
con quello di un placebo, cioè di una sostanza priva di
qualsiasi effetto terapeutico. La conclusione degli autori dell'analisi
è che esiste una differenza statisticamente significativa
a favore del trattamento omeopatico sufficiente a giustificare
ulteriori indagini cliniche.
Un breve resoconto di questo studio è stato pubblicato
sul numero 16 di “Scienza & Paranormale” da Marta Erba, che
ha riportato alcune fondate critiche di noti studiosi sulla metodologia
adottata e sulle conclusioni raggiunte dagli autori dell'articolo.
La critica principale è che una meta-analisi, cioè
la valutazione statistica complessiva dei risultati di una serie
di esperimenti clinici, ha senso solo se gli esperimenti sono
omogenei, cioè riguardano l'efficacia di un determinato
farmaco nel trattamento di una determinata patologia. Non ha alcun
senso fare la media tra risultati ottenuti con cinquanta diversi
prodotti provati su una settantina di diverse malattie distribuite
in ventiquattro categorie cliniche. Vuol dire infatti paragonare
i risultati ottenuti con il prodotto A che sembra avere una qualche
efficacia sulla febbre da fieno con quelli del farmaco B che non
dimostra alcuna efficacia sui dolori del parto e concludere che
statisticamente i due prodotti producono un certo effetto clinico.
Altre volte, come ricorda Roberto Satolli in un articolo su “Sapere”
(Agosto 1995) la rivista “Lancet” è stata criticata per
aver pubblicato articoli sull'omeopatia non rigorosi dal punto
di vista scientifico. Anche in questo caso, sotto un'apparente
seriosità ed estremo rigore si intravede un atteggiamento
tendenzioso degli autori. Si può notare ad esempio che
il pricipale autore dello studio è il dottor Wayne B. Jonas,
un sostenitore dell'omeopatia per ragioni professionali in quanto
direttore dell'Office of Alternative Medicine del National Institute
of Health. E' interessante notare che ultimamente, utilizzando
gli stessi metodi l'OAM ha convalidato un'altra pratica controversa
che è l'agopuntura.
Tuttavia l'articolo è per certi aspetti molto interessante.
Innanzitutto per la grande massa di dati raccolti e per la ricca
bibliografia ed inoltre per alcuni commenti ed osservazioni. Mi
hanno colpito in particolare le frasi iniziali del paragrafo “Discussion”
: The results of our meta-analysis are not compatible with the
hypothesis that the clinical effects of homeopathy are completely
due to placebo. But there is insufficient evidence from these
studies that any single type of homeopathic treatment is clearly
effective in any one clinical condition. (I risultati della nostra
meta-analisi non sono compatibili con l'ipotesi che gli effetti
clinici dell'omeopatia siano completamente dovuti all'effetto
placebo. Ma vi è insufficiente evidenza da questi studi
che ognuno dei singoli tipi di trattamento omeopatico sia chiaramente
efficace in ogni singola condizione clinica).
Per quanto riguarda la prima affermazione ho già accennato
alle motivate critiche su questa applicazione dell'analisi statistica.
Non approfondisco ulteriormente l'argomento perché, in
questa sede, non mi interessa la discussione teorica sull'omeopatia
come approccio ideologico alla medicina.
Mi interessa invece, e ritengo dovrebbe interessare sia i medici
che le Autorità Sanitarie e soprattutto i pazienti, il
significato della seconda frase: al di là del linguaggio
alquanto fumoso si afferma che non è stata dimostrata l'efficacia
clinica di qualsiasi singolo trattamento omeopatico su qualsiasi
singola condizione clinica. Se si tiene conto del fatto che questa
affermazione è basata sull'esame di tutti gli studi clinici
pubblicati, in gran parte organizzati da medici omeopati e dichiaratamente
eseguiti per convalidare la teoria omeopatica, e che si tratta
in parecchi casi di studi condotti con discreto rigore su un rilevante
numero di pazienti, non si può sfuggire alla conclusione
che nessun rimedio omeopatico finora studiato è utilizzabile
come farmaco.
Per spiegare l'apparente contraddizione tra i risultati che indicano
in diversi casi una differenza statistica tra placebo e trattamento
omeopatico e negli stessi casi l'assenza di efficacia clinica
è necessario analizzare i singoli lavori originali utilizzati
nella meta-analisi. Facilitato dalla ampia bibliografia citata
nell'articolo ho potuto rintracciare diversi articoli originali
(purtroppo non tutti, in quanto molti sono pubblicati in oscuri
giornali difficilmente accessibili come Ber J. Res. Hom, Allg.
Homopath. Ztg., o sono semplicemente tesi di laurea). Come ci
si poteva aspettare, la ragione dell'apparente contraddizione
sta nel fatto che anche nei casi in cui l'analisi statistica dava
delle differenze ritenute significative, queste differenze erano
poco importanti dal punto di vista terapeutico, perché
relative ad aspetti marginali della malattia oppure perché
riscontrate su una piccola percentuale dei pazienti. D'altra parte
è noto che talvolta si riscontrano differenze anche quando
si confrontano tra di loro due forme placebo. E' stato visto ad
esempio che un placebo in una capsula verde viene percepito più
efficace come sedativo dello stesso in una capsula gialla. Faccio
qualche esempio.
In uno studio, valutato nella meta-analisi come uno dei più
rigorosi e favorevoli all'omeopatia, il dottor Reilly di Glasgow
(Lancet, 341, pp. 1601-06, 1994) ha paragonato l'effetto di un
allergene diluito 1:99 per trenta volte (diluizione finale circa
1:1060) con quello del placebo su 28 soggetti sofferenti di asma
allergico. Tra i vari parametri presi in considerazione, la valutazione
soggettiva semiquantitativa del proprio benessere dei pazienti
risultava in media favorevole al trattamento omeopatico, e la
differenza era statisticamente significativa. Solo in uno di tre
parametri misurati quantitativamente riguardanti la capacità
respiratoria, la differenza tra pazienti trattati e controlli
era statisticamente significativa. Nessuna differenza rilevante
in altri parametri misurati. La trionfalistica conclusione del
dr. Reilly (abbiamo dimostrato che l'omeopatia differisce dal
placebo in un modo inspiegabile ma riproducibile) è stata
duramente contestata dal dr. Rothwell di Edimburgo (Lancet 345,
28 Gennaio 1995) che ha messo in rilievo diverse debolezze dell'esperimento,
come il piccolo numero di pazienti, diversi dei quali non hanno
completato i test, e il fatto che solo due parametri su undici
misurati avessero dato differenze significative. Ma più
importante dal mio punto di vista è l'osservazione che
se si esaminano, invece che le medie, i dati dei singoli pazienti,
la maggior differenza riscontrata, cioè l'auto valutazione
del benessere, era essenzialmente dovuta ad un peggioramento delle
condizioni di quattro pazienti con placebo ed a un sensibile miglioramento
di un singolo soggetto trattato. In pratica questo trattamento
omeopatico aveva dimostrato di migliorare chiaramente questo parametro
in un solo paziente su dodici trattati. E' evidente che non può
essere giudicato clinicamente efficace. A questa obiezione ha
risposto il dr. Enrico Felisi (Sapere, Agosto 1995, p 35) sostenendo
che l'intento dichiarato del dr. Reilly non era quello di provare
l'efficacia clinica del trattamento, ma solo di provare che l'omeopatia
ha effetti diversi dal placebo. Benissimo, purché un medico
omeopata poi non prescriva questo trattamento ai pazienti di asma
allergica invece di un noto ed efficace broncodilatatore.
Altro esempio: J. Ferley e collaboratori (British Journal Clinical
Pharmacology 27 pp.329-335, 1989) hanno studiato l'effetto di
un farmaco omeopatico in commercio sui sintomi dell'influenza,
in confronto con placebo. L'esperimento clinico era ampio, in
quanto coinvolgeva quasi cinquecento pazienti ed una ventina di
medici. Il parametro determinato era la durata della malattia,
misurata in giorni di febbre. Gli autori concludono che il trattamento
omeopatico appariva superiore al placebo in quanto dopo 48 ore
39 pazienti erano senza febbre nel gruppo dei trattati, contro
24 nel gruppo del placebo. La differenza è al limite della
significatività statistica, ma se si considera che in pratica
su 237 pazienti a cui era stato somministrato il trattamento solo
15 (39 - 24) in più dei controlli erano guariti, non si
può giudicare il dato entusiasmante. La scarsa o nulla
efficacia del trattamento è ancora più evidente
se si considera la frequenza di guarigione nei giorni successivi.
Al quarto giorno circa il 50% sia dei pazienti che avevano ricevuto
il trattamento omeopatico sia di quelli che avevano ricevuto il
placebo era ancora febbrile, e quasi esattamente lo stesso numero
di trattati e di controlli (il 25%) lo era ancora al sesto giorno.
Un altro aspetto rilevante è quello della riproducibilità
dei risultati. Un farmaco può essere considerato valido
terapeuticamente solo se dimostra una certa costanza nei risultati
di esperimenti clinici ripetuti. Dall'esame dei lavori pubblicati
appare esattamente il contrario. Per esempio quattro studi (tre
dei quali valutati di qualità mediocre dagli autori della
meta-analisi) avevano dato risultati variabili, ma tendenzialmente
favorevoli al trattamento omeopatico, nel decorso post-operatorio
degli interventi all'ileo. Il parametro misurato era il tempo
intercorso tra l'intervento e la ripresa delle funzioni intestinali
ed il trattamento era essenzialmente a base di oppio a diverse
diluizioni omeopatiche. Per dirimere la questione il Ministro
degli Affari Sociali francese istituì una commissione mista
di medici omeopati e convenzionali per organizzare un esperimento
molto rigoroso, condotto su trecento pazienti. Il risultato (Lancet,
5 Marzo 1988, pp.528-529) dimostrò molto chiaramente che
non vi era alcuna differenza tra placebo e trattamento con oppio
o oppio più rafano naturalmente diluiti secondo i canoni
omeopatici.
Continuare negli esempi diventerebbe noioso. Cito solo un altro
lavoro perché mi permette di introdurre un argomento diverso.
Il dott. M.Shipley di Londra, in collaborazione con medici di
due ospedali omeopatici inglesi ha condotto un rigoroso esperimento
clinico sui dolori dell'osteoartrite confrontando l'effetto del
Rhus tox. 6X (un rimedio frequentemente prescritto costituito
dalla tossina del Rhus toxicodendron diluita un milione di volte)
con quelli del placebo e di un noto farmaco, il fenoprofen (Lancet,
1 Gennaio 1983 pp. 97-98). Nessuna differenza è stata riscontrata
tra placebo e trattamento omeopatico, mentre il farmaco è
risultato chiaramente efficace nella riduzione del dolore. Questo
caso è l'unico tra quelli citati nella meta-analisi, in
cui il trattamento omeopatico è confrontato, oltre che
con il placebo, anche con un farmaco della medicina convenzionale.
Sottolineo questo punto perché oggi nei paesi civili affinché
un nuovo farmaco venga accettato per la pratica clinica, deve
dimostrare non solo di essere diverso dal placebo ma di essere
almeno equivalente, in termini di efficacia e tollerabilità,
ai farmaci già in uso (nei Paesi più severi in realtà
non basta l'equivalenza ma deve essere dimostrato un qualche vantaggio).
La dimostrazione di equivalenza non è stata nemmeno tentata,
con l'eccezione suddetta, con nessuno dei trattamenti omeopatici
esaminati, perché avrebbe evidentemente dato risultati
disastrosi.
Come abbiamo visto all'inizio, gli autori della meta-analisi si
rendono conto entro certi limiti di questa debolezza. Una delle
frasi conclusive dell'articolo è particolarmente interessante:
“Our study has no major implications for clinical practice because
we found little evidence of effectiveness of any single homeopathic
approach on any single clinical condition” (Il nostro studio non
ha grandi implicazioni per la pratica clinica perché abbiamo
trovato scarsa evidenza di efficacia di ogni singolo approccio
omeopatico su ogni singola condizione clinica).
Non sono d'accordo! Questo studio, invece, ha notevoli implicazioni
per la pratica clinica. Riconoscendo la mancanza di efficacia
di tutti i trattamenti omeopatici esaminati, viene fornita una
chiarissima indicazione ai medici sia omeopati che tradizionali:
questi trattamenti non devono essere prescritti se non si vuole
ingannare, invece che curare, il paziente.
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