Dialoghi impossibili

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©Phauly
Ecco la cronaca, il più possibile fedele, di una telefonata che considero illuminante e allo stesso tempo emblematica per comprendere i processi di costruzione delle notizie e dei commenti a livello televisivo, ma anche il ruolo ambiguo che giocano gli esperti che lavorano in ambito scientifico.

È un venerdì pomeriggio e sono nel mio studio in università quando ricevo la chiamata di un giornalista televisivo (GT).

GT: Buongiorno dottor Montali, non so se si ricorda di me, sono Tal dei Tali, ci siamo conosciuti quando ha partecipato alla trasmissione televisiva di cui sono uno degli autori, in una puntata dedicata alla superstizione.

IO: Certo, mi ricordo benissimo, mi dica.

GT: Ottimo, io la chiamo perché vorremmo invitarla nuovamente in trasmissione la prossima settimana, questa volta non in quanto esponente del CICAP, ma per la sua competenza da ricercatore di psicologia.

IO: (contento, se mi richiamano vuol dire che pensano che l’altra volta io sia stato efficace, la cosa fa sempre piacere) Bene, di cosa si tratta?

GT: Guardi abbiamo deciso di dedicare una puntata al tema dell’anoressia sessuale, non so se ha visto la ricerca di cui parlava anche il Corriere della Sera stamattina...

IO: (anoressia sessuale: ma di che parla?) No, non ho visto il Corriere, ma in ogni caso la blocco subito perché io non ho una competenza da psicologo clinico, lavoro in una Facoltà di psicologia ma come psicologo sociale, quindi non mi occupo di fenomeni di tipo patologico.

GT: (pausa, un po’ interdetto, pensa a come replicare) Sì, ma guardi questo non è un problema, lei lo sa noi siamo una trasmissione del pomeriggio, quindi non dobbiamo approfondire troppo, né fare discorsi troppo tecnici che il pubblico non può seguire

IO: (no, è lui che non ha capito cosa stavo cercando di dirgli, sono stato troppo tecnico con la mia distinzione tra psicologo clinico e psicologo sociale, devo trovare altre parole, intanto prendo tempo). Senta, può darsi che io non abbia capito bene, mi spiega bene di cosa si tratta?

GT: Sì, come le dicevo prima, vorremmo discutere di questa ricerca che mostra il legame tra anoressia sessuale e pornografia, dovuta in particolare al fatto che i giovani usano molto internet per guardare i siti porno e così si diffonde il fatto che poi non vogliono avere rapporti sessuali, come per l’anoressia non vogliono mangiare, così si rivolgono a degli esperti per riuscire a curare questo loro disturbo...

IO: (anoressia sessuale? Allora avevo sentito bene! Ma cosa sarebbe? Non ho mai sentito parlare di una cosa del genere, e va bene che non sono un clinico, ma neanche vivo fuori dal mondo. E poi che c’entra internet? Non ci posso credere: come se fosse stata internet ad aver inventato la pornografia!) Sì, senta, mentre lei parla io sto un po’ guardando nelle banche dati scientifiche per vedere se trovo dei riferimenti, una letteratura che parli dell’argomento.

GT: Come le dicevo, ieri è uscito un pezzo sul Corriere.

IO: Sì sto vedendo anche questo. Dunque, qui si parla di una ricerca che è stata presentata, nel corso di una conferenza stampa, dal presidente di un’associazione medica, che nell’occasione presentava anche il convegno scientifico nazionale dell’associazione che si sarebbe aperto di lì a pochi giorni. Allora già questo a me pare un po’ strano, nel senso che, normalmente, se devo presentare i risultati di una ricerca io li mando a una rivista scientifica, non convoco i giornalisti nel corso di un evento che fa pubblicità al convegno di un’associazione scientifica. Non so se mi spiego, poi ripeto io non mi occupo di questi temi, certo che è un po’ strano, qualche dubbio lo fa venire.

GT: Ho capito, però sa, io sto a quel che mi dicono loro.

IO: Per carità, lo capisco, però poi guardi, in realtà, se intendo bene, la ricerca ha monitorato un gruppo ampio di giovani per un periodo di tempo piuttosto lungo rilevando che usano molto internet e che lo fanno anche per visitare dei siti porno. E fin qui, si potrebbe dire, non c’è poi molto di sorprendente. Poi, basandosi sul fatto che gli stessi ricercatori rilevano una crescita di questo fenomeno dell’anoressia sessuale allora concludono parlando di un nesso tra consumo di pornografia e astinenza sessuale. Però, vede, non è proprio che lo abbiano dimostrato questo legame, diciamo che è più un loro ragionamento a quel che leggo.

GT: Sì, ma guardi che per noi non è un problema se lei vuole intervenire anche per esprimere delle critiche, a noi la discussione va benissimo, lei sa che noi chiamiamo sempre più esperti a parlare di un tema...

IO: Certo però, come le dicevo all’inizio, io non sono un esperto sul tema, perché se uno mi parla di anoressia, in un modo o nell’altro serve qualcuno che lavori specificamente sui disturbi psichici e io non lo faccio. Diciamo però che, pur non essendo un esperto, io qualche dubbio me lo farei venire sul fatto se abbia senso fare una trasmissione su questa notizia e su questo tema proprio per le ragioni che le dicevo. (Nel frattempo continuo a cercare in rete in maniera un po’ frenetica. L’espressione “anoressia sessuale” è presente in pochissimi articoli che si trovano nelle banche dati scientifiche, e di alcuni di questi la qualità mi pare anche molto dubbia, a un primo sguardo. L’altra cosa che noto è che in nessun articolo si parla della pornografia come possibile causa di questo disturbo. Decisamente meglio evitare di infilarsi a discutere di questa roba, penso).

GT: Ho capito, quindi lei non è disponibile a venire.

IO: Esatto, penso sia meglio di no, grazie ancora dell’invito, alla prossima.

GT: Arrivederci a lei.

E così la telefonata si chiude, di fatto con reciproca insoddisfazione. Il giornalista non ha trovato l’ospite, io ho perso un po’ di tempo e mi sono dovuto faticosamente impegnare per sottrarmi a un invito di una persona peraltro cortese.

L’amaro in bocca non mi resta però per questo, ma perché la telefonata mi dà l’occasione di riflettere sul processo di costruzione degli esperti a livello mediatico. Si tratta di un punto importante: ciascuno di noi fruitori dei media ha una competenza limitata a pochi campi, per tutto il resto delle notizie che leggiamo o ascoltiamo non siamo in grado di esprimere una valutazione tecnica accurata, ma spesso ci limitiamo a decidere se una certa fonte ci pare più o meno affidabile. Nel fare questo dobbiamo poter contare sul fatto che la selezione degli esperti, che è un compito fondamentale del giornalista, sia condotta in maniera accurata e criticamente consapevole.

La telefonata dimostra che non è così: il mio tentativo di distinguere tra le diverse competenze dei ricercatori universitari di psicologia non è stato compreso e i rilievi critici che ho mosso circa l’affidabilità di una ricerca mai pubblicata sono stati ignorati. L’urgenza di portare avanti una trasmissione ha quindi prevalso sulla qualità dell’informazione.

Si potrebbe pensare che questo sia stato un caso isolato, ma ricordo una ricerca condotta da un gruppo di studio della Sissa di Trieste che, analizzando la carta stampata, evidenziava proprio come, in moltissimi casi, coloro che venivano citati in qualità di esperti negli articoli di giornale non avevano pubblicato nulla sul tema specifico di cui parlavano, anche se magari avevano un’etichetta professionale che era compatibile con il tema. Esattamente come nel mio caso, l’essere io un ricercatore in una Facoltà di psicologia faceva sì che io ‘suonassi’ come un esperto, anche se in realtà non lo ero affatto.

L’altro elemento di rilievo è che questa modalità di funzionamento dei media evidenzia parallelamente anche le responsabilità che ricadono su chi fa ricerca scientifica. È chiaro infatti che se da questa parte prevale un uso strumentale dei media, finalizzato unicamente a guadagnare pubblicità per me o per il mio gruppo di ricerca, indipendentemente dalla mia competenza in un certo ambito o dalla qualità delle informazioni che offro ai giornalisti, gli unici a rimetterci saranno i lettori o gli spettatori.
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