La morte di Bin Laden: torniamo a occuparci di complotti

La notizia dell’uccisione di Osama Bin Laden lo scorso maggio da parte di un commando di militari statunitensi ha provocato reazioni molto intense, dovute all’importanza del personaggio e al significato simbolico di quella morte. Tra queste, quelle che interessano qui sono relative ai dubbi che sono state sollevati sull’evento, che fanno riferimento all’idea di una cospirazione: il presunto blitz sarebbe stato in realtà un’operazione fittizia e ad essere stato ucciso non sarebbe stato Bin Laden, il quale secondo alcune teorie è morto diverso tempo fa, secondo altre è vivo e vegeto, protetto da quegli stessi che dicono pubblicamente di averlo ucciso.

Lo scenario nel quale queste ipotesi cospirative si sono formate e diffuse presenta diversi elementi di incertezza relativi al reale svolgersi degli avvenimenti, circa il quale sono state presentate sui mass-media versioni parzialmente diverse sugli obiettivi della missione, sul modo in cui si sarebbe comportato Bin Laden all’apparire dei militari Usa e sul ruolo del governo pakistano nella vicenda. Ad aggiungere confusione, nelle ore immediatamente successive l’annuncio, ecco apparire una presunta foto del morto diffusa dalla tv pakistana che si scopre in poche ore essere una montatura. In compenso, nonostante le polemiche e diversi inviti pubblici, l’amministrazione statunitense non ha ritenuto opportuno diffondere delle immagini che supportassero la versione dei fatti che veniva fornita.

Dato il taglio di questa rubrica non mi interessa argomentare qui sul perché personalmente ritengo che quelle teorie cospirative siano sbagliate, vorrei invece esaminare il modo in cui esse sono state accolte sui mass-media, riferendomi in particolare a due articoli, uno scritto da Beppe Severgnini sul Corriere della Sera e l’altro, non firmato, comparso su Il Foglio. Scelgo questi due articoli perché, pur condividendo con gli autori l’idea che quelle teorie cospirative siano sbagliate, ritengo che essi ne offrano una critica non adeguata, che ne spiega l’origine e ne inquadra il senso in modo debole e preconcetto, non riuscendo così ad affrontare l’importante tema della diffusione di certe credenze.

Un primo elemento di debolezza è a mio parere relativo al fatto di qualificare queste teorie come irrazionali e paranoiche: di “paranoia nazionale” parla Severgnini, di “postmoderna paranoia” e di una «porzione di umanità istintivamente disposta a dubitare di tutto quanto abbia i crismi della attualità e viceversa propensa a credere a tutto quanto contraddica l’evidenza» scrive Il Foglio. L’idea di qualificare le teorie complottiste come prodotto di un pensiero paranoico non è nuova. “Lo stile paranoico nella politica americana” è il titolo di un saggio che Richard Hofstadter, un importante storico della politica americana alla Columbia University, pubblica nel 1964. Quel libro, che analizza le teorie cospirative dei gruppi dell’estrema destra americana, suscita grande scalpore e influenza nei decenni successivi la riflessione e in parte la ricerca sul tema. Applicare categorie di ordine patologico a credenze molto diffuse apre però a due ordini di questioni: la prima è che questa spiegazione in realtà spiega poco, dal momento che essa implica la necessità di spiegare l’origine e le cause di questa paranoia di massa; la seconda è che, se è vero che queste teorie sono così comunemente accettate, l’uso di un etichetta psichiatrica pone qualche problema dal momento che è strano che questa paranoia collettiva non si manifesti anche in altri modi e ambiti.

Nel pezzo de Il Foglio il soggetto di questa irrazionalità è identificato in particolare ne “il volgo”: «E se esperti come l’ex capo di stato maggiore dell’aeronautica, Leonardo Tricarico, avanzano alcune legittime riserve (“mi sarei aspettato che la salma fosse stata resa visibile, in modo da dare la prova più evidente della sua morte”, ha dichiarato) per il volgo nemmeno la conferma “al cento per cento” del Dna è bastante». Anche questo modo di costruire il problema ha una radice antica, nella contrapposizione presente già nella filosofia greca tra il sapere degli esperti, l’unico riconosciuto come portatore di verità, e l’opinione mutevole e incerta del popolo. Qui la parola volgo aggiunge un’ulteriore coloritura negativa, se seguiamo il Wikizionario che ne dà questa definizione: «Folla, moltitudine di persone. Parola per lo più usata in senso dispregiativo che stava ad indicare tutte quelle persone che facevano parte del popolo poco colto, ignorante, ignobile».

Complessivamente quindi si tende ad accreditare l’idea che la contrapposizione tra chi crede e chi non crede ai complotti sia facilmente risolvibile: i paranoici da una parte, i sani dall’altra; gli esperti competenti e razionali da una parte, il popolo ignorante dall’altra. La mia opinione è che questa sia una lettura che cerca di rispondere a una domanda vera (perché molti ci credono?) con delle soluzioni che sovra semplificano, e che in questo senso consolano, dal momento che evitano di porsi nuove domande, ma che in effetti spiegano poco.

Un ulteriore elemento in questo senso mi pare rappresentato dal ricorso al concetto ottocentesco di ‘carattere nazionale’ per spiegare il successo di queste teorie. Così per esempio Severgnini che come si è visto sopra aveva qualificato la paranoia come “nazionale” e che più avanti aggiunge: «L’Italia è un terreno fertile per coltivare questi umori: gli antiamericani in servizio permanente effettivo sono numerosi (a destra, a sinistra, al centro); i complottisti a tempo pieno ancora di più». In maniera analoga si esprime Il Foglio, secondo il quale «Il contadino dell’Umbria, equivalente agrario e terragno della casalinga di Voghera, è tutt’ora convinto che l’uomo non sia mai andato sulla luna semplicemente perché è impossibile». In realtà non esiste alcun dato che dimostri che queste teorie siano particolarmente diffuse nel nostro Paese, anzi tutte le ricerche indicano come il consenso per questo genere di idee sia egualmente distribuito nei Paesi occidentali. L’idea che gli italiani siano più creduloni di altri popoli è invece parte di uno stereotipo diffuso, nel quale alcuni tratti negativi come questo convivono con altri tratti più positivi, per esempio quello della genialità (“il genio italico”). Anche l’idea che la credenza nelle teorie cospirative sia un fenomeno marcatamente italiano rappresenta quindi una spiegazione che non regge a una verifica critica.

Veniamo dunque ad un terzo argomento che viene utilizzato nei due pezzi, quello secondo cui i credenti nelle teorie cospirative cadrebbero in errore a causa di un orientamento ideologico che li condiziona: di «antiamericani in servizio permanente effettivo» parla Severgnini, di «odio ideologico» scrive Il Foglio e curiosamente entrambi si riferiscono alla politica sudamericana per esprimere questo concetto, Severgnini cita Fidel Castro, Il Foglio parla di Che Guevara morto in Bolivia. In effetti l’orientamento ideologico costituisce un indicatore della tendenza a credere in certe teorie, ma esso aiuta a capire in egual modo perché le persone credono o non credono a qualcosa. Può funzionare cioè da filtro che porta ad accettare, a seconda di quale sia l’orientamento di una persona, la versione di una certa fonte (governo, esperto) oppure quella opposta. In tal senso questo fattore non aiuta a distinguere tra chi crede alle teorie cospirative e chi crede alle fonti ufficiali, ma accomuna piuttosto entrambi, se è assente lo sforzo di un’adeguata verifica fattuale nei limiti in cui questa è consentita. Come abbiamo visto all’inizio, proprio la confusione seguita all’evento non favoriva certo la possibilità di tale adeguata verifica e in questo senso l’orientamento ideologico ha probabilmente avuto un peso rilevante nel modulare l’accettazione o meno della versione ufficiale. Lo si vede molto bene del resto proprio nei due pezzi che stiamo considerando: Severgnini parla di «una balorda teoria cospiratoria... (secondo cui) i nostri nemici chissà perché sono sempre più affidabili», Il Foglio conclude il pezzo ricordando che «Benedetto XVI beatificando Karol Wojtyla ha citato una frase del Vangelo “beati quelli che non avendo visto hanno creduto”, tra le cause della santità. Ovviamente è pretendere troppo. Ma un po’ di fiducia nei fatti non guasterebbe». È chiaro quindi che anche la fiducia dei due autori nella versione ufficiale si è legittimamente costruita dentro un quadro ideologico che attribuisce a certe fonti una patente di credibilità (addirittura di fede parla Il Foglio) e ne scredita completamente altre (i nemici cui si riferisce Severgnini).

In quest’ottica, la differenza tra chi crede e chi non crede nelle teorie cospirative non va interpretata come una contrapposizione tra malati e sani, o tra fatti e immaginazione, ma come una differenza tra diverse versioni e fonti, il cui scontro nello spazio pubblico è finalizzato a costruire la realtà sociale, rispetto alle quali individui e gruppi si posizionano. Ciò non implica che tutte le versioni siano ugualmente valide, si tratterebbe di un soggettivismo insensato che nega alla radice la possibilità di un confronto con la realtà. Esse possono essere analizzate razionalmente e confrontate, ma perché ciò avvenga sono necessarie motivazioni e competenze cognitive, risorse che impieghiamo nell’affrontare i problemi più importanti della nostra esistenza ma che, per ovvie ragioni di economia, non possiamo applicare in tanti altri ambiti pur di rilievo.
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