Profeti in patria

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Mikulàs Drabik ©de.academic.ru
Da quando la scienza moderna è nata, all’inizio del Seicento, ha sempre dovuto confrontarsi con le rivelazioni dei profeti e dei visionari.

Proprio in quegli anni la Boemia aveva perso la sua indipendenza nei confronti degli Asburgo dopo la famosa battaglia della Montagna bianca (8 novembre 1620), esito finale di uno scontro originato dalla defenestrazione di Praga (23 maggio 1618, atto ufficiale d’inizio della Guerra dei Trent’anni). Tuttavia, dopo questi avvenimenti, Krystof Kotter, Christina Poniatowska e Mikuláš Drabík, compagno di scuola e amico del celebre Jan Amos Komenský (meglio noto come Comenio, il grande educatore citato in tutte le storie della pedagogia), preconizzarono l’imminente caduta del Papato e degli Asburgo. In particolare fu Drabík a predire la fine della casa d’Austria per mano di armate provenienti da Nord e da Oriente alla guida dei Rákóczy, una famiglia magnatizia ungherese di origini boeme, i cui appartenenti avevano assunto dal 1630 il titolo di principi di Transilvania, principato autonomo al centro della travagliata storia che caratterizzò i Balcani a partire dalla sconfitta dell’Ungheria per mano del sultano Solimano il Magnifico a Mohács (1526). Dopo la pace di Westfalia del 1648 (e la delusione dei Boemi di ritrovare l’indipendenza), i Rákóczy furono coinvolti nel tentativo di realizzare un’alleanza antiasburgica con Svezia e Inghilterra. Scoppiato nel 1655 un conflitto fra svedesi e polacchi, Drabík ne previde una rapida fine, con un esito che sarebbe stato naturalmente favorevole anche alla causa boema. Comenio, che era molto legato ai Rákóczy, dette un grande credito alle profezie dell’amico Drabík (oltre a quelle di Kotter e della Poniatowska), rendendole pubbliche nell’opera Lux in tenebris, edita ad Amsterdam nel 1657.

Il grande Leibniz avrebbe commentato amaramente nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, composti fra l’estate del 1703 e l’aprile del 1704: «Le profezie della Poniatowska e di Drabík che il buon Comenio pubblicò nel suo Lux in tenebris, e che contribuirono a provocare sommosse nelle terre ereditarie dell’imperatore, si dimostrarono false, e coloro che vi prestarono fede furono sventurati. Rákóczy, principe di Transilvania, fu spinto da Drabík all’impresa di Polonia nella quale prese la propria armata, cosa questa che gli fece perdere, insieme ai propri Stati, anche la vita. E il povero Drabík, molto tempo dopo, all’età di più di 80 anni, ebbe infine la testa tagliata per ordine dell’imperatore».

Nonostante ciò, come Leibniz ben sapeva, l’insuccesso di una vaga previsione effettuata da un visionario non era tale da smentirne la validità, perché tale previsione poteva essere tranquillamente riproposta in tempi successivi (si pensi al caso di profezia “per eccellenza”, quello relativo al continuo spostamento della data della fine del mondo, una volta rivelatasi non corretta la determinazione cronologica): «Non ho dubbi che vi siano persone anche adesso che richiamano inopportunamente in vita queste predizioni nella situazione attuale provocata dai disordini ungheresi, senza considerare in alcun modo che quei pretesi profeti parlavano degli avvenimenti del loro tempo». L’esercizio di rilettura di una profezia, tuttavia, non si limitava alla sua dimensione temporale, ma riguardava anche i personaggi coinvolti nella previsione. Verso la fine del secolo, infatti, il salvatore indicato da Drabík nelle sue profezie non veniva più individuato in un componente della famiglia Rákóczy, ma nientemeno che in Luigi XIV.

Le considerazioni di Leibniz sul tema dei visionari e dei profeti erano state formulate in relazione alla definizione del concetto di “entusiasmo”, formulata da John Locke nella quarta edizione (1699) del celebre Saggio sull’intelletto umano, edizione nella quale fu appositamente aggiunto un intero capitolo dedicato all’argomento. “Entusiasta” è colui che «mettendo da parte la ragione, vorrebbe stabilire la rivelazione senza di essa», aveva affermato con la consueta chiarezza il filosofo inglese. Leibniz concordava sostanzialmente con Locke. Gli entusiasti erano coloro che credevano di ricevere «da Dio dogmi che li illuminano». Tale prerogativa derivava «in buona parte da una forte immaginazione animata dalla passione, e da una memoria felice che ha ben ritenuto i modi di parlare dei libri profetici che la lettura o i discorsi degli altri hanno reso loro familiari». Leibniz portava numerosi altri esempi oltre a quelli relativi al caso di Comenio: «Non molto tempo fa si è vista una damigella assai saggia in ogni altra cosa la quale credeva fin dalla propria giovinezza di parlare a Gesù Cristo e di essere la sua sposa in una maniera del tutto particolare. Sua madre, a quanto si raccontava, era stata un po’ vittima dell’entusiasmo, ma la figlia, avendo cominciato di buon’ora, si era spinta assai più avanti. La sua soddisfazione e la sua gioia erano indicibili, la sua saggezza si manifestava nella sua condotta e il suo spirito nei suoi discorsi. La cosa tuttavia si spinse così lontano che essa ricevette lettere indirizzate a Nostro Signore, ed essa le rinviava sigillate come le aveva ricevute, unitamente alla risposta che pareva qualche volta fatta a proposito e sempre ragionevole. Ma alla fine cessò di riceverne, per paura di fare troppo rumore. In Spagna sarebbe stata un’altra Santa Teresa».

L’entusiasmo andava quindi a configurarsi come un fenomeno di quell’universo all’interno del quale la conoscenza intuitiva veniva considerata superiore a quella razionale. Con il rischio di trasformarsi in un potente strumento d’inganno, di dominazione e di violenza, fondandosi sulla credulità e sulla incapacità di valutazione critica. A quel punto il passo dall’entusiasmo al fanatismo, come avrebbe affermato Voltaire, sarebbe stato assai breve: «Chi ha delle estasi, delle visioni, e scambia i sogni e le proprie immaginazioni per profezie, è un entusiasta; chi la propria follia con il delitto è un fanatico». L’origine dell’atteggiamento entusiastico era facilmente spiegabile per Locke: «La rivelazione immediata è per gli uomini una via per stabilire le loro opinioni e regolare la loro condotta, molto più facile del tedioso e non sempre riuscito lavorio del ragionare rigoroso: non fa meraviglia perciò che alcuni sono molto più inclini a pretendere di essere in possesso di una rivelazione e a persuadersi di essere sotto la guida particolare del cielo nelle loro azioni e opinioni; specie se si tratta di gente che non sa dar conto di esse coi metodi ordinari della conoscenza e dei principi della ragione».

L’idea di poter fare affidamento, nel viaggio verso la verità, su di una illuminazione (comoda e istantanea) si presentava maggiormente accattivante rispetto alla prospettiva di essere costretti a seguire un ragionamento lungo e difficile, che non sempre poteva dare luogo a un esito felice (là dove la rivelazione risultava invece infallibile). Il metodo scientifico, infatti, sebbene fosse alla portata di tutti, doveva essere appreso per gradi, a prezzo di studi e sacrifici che richiedevano una buona dose di pazienza e di equilibrio, sacrifici non a tutti graditi.

Forse per questo, ancora oggi, molti preferiscono le illusioni delle illuminazioni alla certezza dei ragionamenti?

Bibliografia

  • M. Ciardi. 2001. Illuminazioni e ragionamenti. L’entusiasmo e la nascita della scienza moderna, in Studi sull’entusiasmo, a cura di A. Bettini e S. Parigi. Milano: Franco Angeli, pp. 117-135
  • E. De Mas. 1982. L’attesa del secolo aureo (1603-1625). Saggio di storia delle idee del secolo XVII. Firenze: Olschki
  • G. W. Leibniz. 1982. Nuovi saggi sull’intelletto umano, a cura di M. Mugnai. Roma: Editori Riuniti
  • J. Locke. 1982. Dell’entusiasmo, in Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano. Torino: UTET
  • Voltaire, 1995. Dizionario filosofico, a cura di M. Bonfantini. Torino: Einaudi, p. 204

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