Corde vibranti di passione scientifica

Pizzicare una corda per emettere un suono o, per essere più artistici nel linguaggio, una nota musicale, è cosa tanto comune quanto conosciuta. Tutti sanno, infatti, che la corda tesa della chitarra (o del violino, del pianoforte, dell'arpa, etc.) è diversamente "intonata", ovvero emette suoni di altezza o acutezza diverse in funzione di varie condizioni. La più nota, probabilmente, è proprio quella che ha a che fare con la tensione della corda, ovvero di quanto più o meno fortemente sia messa in trazione. Questo lo si ottiene, nel caso degli strumenti appena citati, regolando le "chiavi di accordatura". Grande trazione eguale nota acuta, e viceversa. Tipica operazione compiuta dagli accordatori, manco a dirlo. Altro modo di variare l'altezza del suono consiste nel pizzicare corde egualmente tese ma di differente lunghezza. Corde corte, suono acuto, e viceversa. Aprite e sbirciate in un pianoforte e si capisce benissimo che questo è vero. Oppure osservate il violinista che posizionando le dita sulla tastiera (incollata sul manico) è in grado di variare la lunghezza di corda "libera" di vibrare producendo note differenti. A dirla tutta, c'è anche un terzo modo di modificare l'intonazione della corda, a parità di lunghezza e di tensione: basta cambiarne la massa (ovvero se la corda, a parità di materiale, è per esempio più o meno sottile). Corda sottile suono acuto, e viceversa. Anche in questo caso, è sufficiente uno sguardo all'interno del pianoforte per osservare questo fatto. Le corde che generano note gravi sono avvolte da una spirale di rame che le appesantisce, sono più inerti alle oscillazioni e vibrano più lentamente di quelle, di acciaio sottile, che producono note acute.
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©B tal Flickr CC
Torniamo però all'intonazione della nota e alla lunghezza della corda utilizzata. Sappiamo benissimo, anche se non abbiamo studiato al conservatorio, che ci sono regole che stabiliscono la corretta accordatura di uno strumento musicale, ovvero che anche se cantiamo una semplice canzoncina dobbiamo essere "intonati", cioè eseguire certe note in un certo modo e non in altri. Oppure se lo facciamo stiamo pronti a sentirci dire che siamo stonati o che abbiamo "steccato". Siamo più o meno tutti abituati a questa cosa che non ci si fa più di un tanto caso. Ma la domanda dovrebbe sorgere spontanea: chi si è inventato queste regole? Ovvero, chi mai ha detto che certe note sono "permesse" e altre sono "proibite"? Chi mai ha detto che ci sono suoni che stanno bene assieme (accordi "consonanti") e altri che, in certi casi almeno, fanno abbastanza schifo (accordi "dissonanti")? Chi mai ha detto che ci sono accordi "tristi" (minori, li chiamano i musicisti) e altri più "allegri" (maggiori, ovviamente)? Infine: ci sono motivi fisici, scientifici, oggettivi per i quali certe regole come quelle di cui si sta parlando siano davvero valide, oppure si tratta solo di un'autoritaria idea artistica di chissà chi?
C'era una volta Pitagora, e si potrebbe iniziare così un pezzo di risposta a tutte queste domande anche se, è bene dirlo fin da subito, non esiste una risposta davvero completa fino in fondo. Se a qualcuno sta già venendo in mente di denunciare un'invasione di campo da parte della fisica che qui invece prova a interessarsi di arte (musica), ha ragione ma non deve preoccuparsi. Si tratta di un'invasione a fin di studio e curiosità. Stia tranquillo il musicista che non si vedrà rubare la cattedra o, meglio, il palcoscenico dal solito scientista di turno. Anche perché la storia che inizia da Pitagora o giù di lì è una storia all'inizio di tipo più filosofico che non scientifico, almeno nell'accezione moderna della parola. E, si sa, a quei tempi (più di due millenni sono trascorsi) filosofia, matematica, geometria, musica, astronomia e religione erano spesso intrecciate in modo complicato. Nella fattispecie, pare che la scuola di Pitagora si sia interessata alla questione dei collegamenti fra numeri e suoni a partire da un'osservazione sperimentale relativa alle diverse note emesse da oggetti lavorati da un fabbro ferraio utilizzando strumenti di differenti dimensioni. Martellini suoni acuti, martelloni suoni gravi. Acutezza di suoni, misura delle cose. Numeri. Da divertirsi un mondo, perché i numeri sono maneggiati dai matematici e servono per contare e misurare. E i suoni sono sì dei musicisti ma si possono "ordinare" in base alla loro intonazione. Anche la musica è soggetta alle regole magiche (letteralmente, per quei tempi) dell'aritmetica.
Lo studio dei numeri di tanti secoli fa privilegiava l'insieme di quelli razionali, esprimibili cioè come rapporto di numeri naturali (interi positivi). Un mezzo, due terzi, etc ... anche sette ottavi, forse? Perché no poi cento trentatré centocinquantasettesimi? E poi, cosa c'entrano le frazioni con le note? Si parte da una corda (come quella di un'arpa o una chitarra, tesa, fissata a dei perni che non si possono muovere) e la si pizzica, ottenendo un suono, una nota di riferimento. I pitagorici, non per primi, si accorgono che la corda emette suoni diversi se viene "accorciata" per esempio tenendola ferma da qualche parte con un dito, esattamente come fa il chitarrista moderno. Quello di cui si accorgono forse per primi è che ci sono suoni (note) emessi in corrispondenza di determinate lunghezze della corda (cioè di determinati punti in cui essa viene tenuta ferma) che sono "consonanti" fra di loro, ovvero che suonano bene se messi assieme o in sequenza (quello che i musicisti chiamano "intervallo" fra le note). Ciò avviene in corrispondenza di una misura della lunghezza legata a numeri razionali i cui numeratore e denominatore (quello che sta sopra e quello che sta sotto la linea di frazione) sono relativamente piccoli. Un mezzo. Due terzi. Tre quarti. Ma centotrentatré centocinquantasettesimi mica va così bene. Sono tanto convinti di questo fatto che lo formalizzano inventando dei nomi per gli intervalli più "musicali" che riescono a ottenere con queste scelte di frazioni con numeratore e denominatore abbastanza piccoli. Prendiamo una corda di una data lunghezza, tensione data e massa assegnata (questo strumento musicale si chiama "monocordo" - e che altro?). Suoniamola. Bella nota. Adesso tagliamola a metà (o mettiamo un dito a metà) e pizzichiamola accorciata. Bella nota. Diversa da quella di prima. Ma bella. Non da sola, bella anche assieme a quella di prima. Stanno così bene che suonate contemporaneamente sembrano una sola nota. Come quando canta una canzone una voce maschile (un tenore, per esempio, ma anch'io) e la stessa canzone una voce femminile (un mezzo-soprano, per esempio, ma anche la mia fidanzata). Cantiamo - si dice - a un'ottava di intervallo o di distanza. I Greci non sapevano niente di ottave (poi vediamo cosa c'entri il numero otto) ma avevano battezzato questo intervallo con il nome "diapason" (che qui non è quello che si percuote per dare il "La"). Due note sono in un intervallo di un diapason quando sono emesse da corde di lunghezze che differiscono di un fattore due, insomma, una lunga il doppio dell'altra. Se si andasse a contare il numero di vibrazioni che caratterizzano le oscillazioni di queste due corde (le loro frequenze), si scoprirebbe una regolarità magnifica: anch'esse stanno in rapporto esattamente eguale a due. O, se si preferisce, vale essenzialmente che lungo queste due corde c'è un numero di "su e giù" delle "pance e valli" della vibrazione doppio passando da una corda all'altra.
I pitagorici sono convinti di avere trovato la via matematica per la bellezza musicale: prendete la corda di partenza e dividetela in una parte che è pari a due terzi del totale (l'altra, che rimane, è ovviamente un terzo del totale ma buttatela via). Quella che tenete la pizzicate e ottenete un nuovo suono. Un altro intervallo, dunque, che noi chiamiamo "di quinta" ma che i Greci avevano battezzato "diapente". Suono di partenza, suono "diapente", assieme sono gradevolissimi. Grazie a due frazioni, 1/2 e 2/3. Perché ottava? Perché quinta? Questo si spiega studiando trattati di musica relativamente moderni, che definiscono sequenze di note (intervalli) in salita o discesa (le scale, ovviamente!) e che suddividono l'estensione del diapason (raddoppio di frequenza del suono) in sette note, la cosiddetta scala diatonica, ovvero servono otto passi per collegare la nota più bassa a quella più alta, all'ottava. Se pensate che per fare un diapente servono cinque passi, avete indovinato. Il diapente è un intervallo di quinta, se usiamo la scala con le sette note (introdotte molto ma molto dopo Pitagora, da Guido d'Arezzo attorno all'anno 1000). Tutto bene, ma le altre note? I Greci come le hanno introdotte, a partire da due soli intervalli? Pare in modo molto filosofico, ovvero aritmetico. Prendete per esempio la corda del diapente. Usatela come fosse una corda di partenza, ovvero prendetene i due terzi e fate il diapente del diapente. Otterrete cioè una corda lunga due terzi di due terzi, che fa quattro noni. Nuova lunghezza, nuova nota. Nuovo intervallo. E così via. Con qualche trucchetto un po' noioso, è possibile ricostruire, a forza di taglia, incolla, aggiusta e sperimenta, tutte le note che vogliamo, sempre a partire da numeri interi e dai loro rapporti frazionari. Numeri dappertutto anche nella musica. E la fisica? C'entra, per fortuna: che, per esempio, un'ottava - un diapason - sia un intervallo piacevole è dovuto al fatto non che 1 e 2 siano numeri "più belli" di altri ma che frequenze che stanno in questo rapporto non creano quei fenomeni detti di "battimento" stridente per il nostro sistema orecchio-cervello. Li creano invece suoni che stanno in rapporti di frequenza "poco razionali" numericamente. Infine: fra fisica e matematica chi la racconta giusta parlando di musica? Un po' tutte due, senza dimenticare che si tratta di arte e che dunque anche le emozioni, la cultura e la tradizione del popolo che compone musica hanno un ruolo importantissimo.

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