Il Bias dei Conflitti Intrattabili

  • In Articoli
  • 12-11-2020
  • di Sara Pluviano e Sergio Della Sala
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Come sbucciare una cipolla, strato dopo strato, esaminando i suoi costituenti sempre più piccoli e nascosti, fino ad arrivare al suo “fondo”. Così si potrebbero esaminare tutti quei conflitti prolungati negli anni, che attraversano addirittura generazioni, e che restano ancorati a un alto livello di intensità e distruttività. Conflitti che sono così profondamente radicati al punto che possono assumere una connotazione addirittura “identitaria” per le persone. Può attivarsi così un bias che induce a percepirli come conflitti apparentemente irrisolvibili o “intrattabili”, alimentando la spirale stessa del conflitto. Questi conflitti non rappresentano affatto casi-limite puramente immaginari, ma riguardano numerose situazioni contemporanee, come i conflitti che si sono verificati in Irlanda del Nord o in Medio Oriente, ma possono riguardare anche conflitti personali, individuali, di rapporti affettivi o lavorativi. Situazioni, quindi, altamente distruttive, in cui il conflitto si auto-alimenta e il tema originario, il “fondo” della cipolla, diventa irrilevante o viene addirittura dimenticato, perché offuscato da moltissimi altri “strati”, ovvero questioni secondarie che hanno esacerbato gli antagonismi, trasformandoli in estremismi, o addirittura hanno soppiantato i motivi dello scontro iniziale, intrappolando i soggetti coinvolti in scontri del tipo “tutto-o-niente” o “aut-aut” e costringendoli a pagare costi (sia economici che emotivi) che possono raggiungere proporzioni enormi. Il paradosso insito in queste situazioni altamente distruttive risiede nel fatto che i costi dell’uscita dal conflitto sono percepiti come superiori rispetto a quelli che comporterebbe il restare nel conflitto stesso, in quanto ogni soluzione implicherebbe la rinuncia da parte di uno dei contendenti di un tassello della propria identità o di un valore ritenuto di grandissima importanza e quindi irrinunciabile. L’“intrattabilità” è infatti una percezione, non una caratteristica del conflitto valida in assoluto e, in quanto quale, è importante perché influenza l’azione delle persone.

Se i conflitti intrattabili hanno un potenziale autodistruttivo per tutte le parti in gioco, al punto che le persone possono mettere a rischio la propria sicurezza, quindi la propria vita e quella addirittura della propria famiglia, perché sono mantenuti così a lungo? La risoluzione di questi conflitti è particolarmente difficile anche a causa di alcuni meccanismi cognitivi che incentivano l’escalation. Anzitutto, ci sarebbe una tendenza delle parti a semplificare eccessivamente la situazione conflittuale e a polarizzare e stereotipizzare la contrapposizione “noi-loro”, ricorrendo a cornici interpretative o frame, ovvero quelle “lenti” che la nostra mente utilizza per mettere a fuoco gli eventi e prendere decisioni, e che rappresentano il complesso di credenze, giudizi e comportamenti cui ricorriamo per dare un senso e far fronte alle situazioni. Come sosteneva Karl Popper, «tutta la conoscenza è impregnata di teoria, incluse le nostre osservazioni», guidate quindi da un sistema teorico di aspettative, ipotesi e credenze personali. A causa di questi automatismi di giudizio possiamo faticare a cogliere le relazioni di causa ed effetto degli eventi; ad esempio, ciascuno può pensare che l’altro sia all’origine del conflitto e vedere il proprio comportamento “difensivo” come la risposta inevitabile all’“aggressività” mostrata dalla controparte. Ad esempio, uno studio condotto in una scuola pubblica americana nel South Bronx ha rivelato come i numerosi episodi di violenza e i conflitti che l’avevano colpita erano molto complicati, a causa di innumerevoli fattori (includendo, ad esempio, condizioni di vita non dignitose, il possesso illegale di armi e perfino la presenza nell’ambiente di sostanze tossiche che diminuiscono il controllo degli impulsi), ma allo stesso tempo venivano percepiti dalle persone coinvolte come estremamente semplici; per ciascuno, era la controparte la propria nemesi, l’origine di ogni problema e l’unica responsabile dell’inferno vissuto. A rendere alcuni conflitti particolarmente intrattabili sarebbe anche la tendenza ad estremizzare le opinioni e le posizioni dell’altro, tendenza che intrappola le persone in situazioni senza via d’uscita. Talvolta, poi, le parti interpreterebbero la situazione conflittuale in modo dicotomico, credendo di dover scegliere obbligatoriamente ed esclusivamente tra un atteggiamento puramente competitivo e uno cooperativo e, vedendo la seconda opzione come impossibile da adottare, ricorrerebbero necessariamente alla prima. Inoltre, potrebbe entrare in gioco un bias della disponibilità, per cui si dà un peso eccessivo alle informazioni e, in questo caso, alle soluzioni più facilmente accessibili nel nostro cervello in quanto meno dispendiose a livello di tempo e sforzo cognitivo. Di conseguenza, le parti tenderebbero a reiterare gli stessi comportamenti e le stesse strategie per abitudine o semplicemente perché le hanno già “sperimentate” per esperienza personale e rappresentano quindi un set di scelte già codificate e salienti, incatenandosi però di fatto in un conflitto senza fine. A tal proposito, si parla dello straordinario potere attrattivo del passato, che intrappola le parti in una dinamica negativa in cui non c’è spazio per una soluzione negoziale. Infine, un altro fattore controproducente è rappresentato dal bias egocentrico, per cui ognuno è fermamente convinto di essere nel giusto e tende a sovrastimare i propri sforzi a favore della risoluzione del conflitto, per mantenere integra e soddisfare la propria autostima. Quando il conflitto persiste, quindi, anche se non abbiamo fatto molto per lavorare alla sua risoluzione, addossiamo ogni responsabilità all’altro.

Peter Coleman, psicologo sociale alla Columbia University e ricercatore nel campo della risoluzione dei conflitti e della pace sostenibile, ritiene che i conflitti intrattabili rappresentino il 5% di tutti i conflitti esistenti. L’idea del 5% è mutuata da una ricerca condotta dagli esperti di politica sociale Paul Diehl e Gary Goertz sui processi fondamentali sottostanti i conflitti geopolitici intercorsi nell’arco di quasi 200 anni, dal 1861 al 2001. Dei 1166 conflitti esaminati, 63 (il 5% per l’appunto) rientrerebbero nella categoria dei conflitti cronici e insanabili, includendo, fra gli altri, i due conflitti mondiali e la maggior parte delle guerre civili. Non esiste una spiegazione semplice ed univoca di come questi conflitti siano diventati intrattabili. Verosimilmente, più si protraggono nel tempo e più diventano intensi e altamente distruttivi, connotandosi di una dinamica auto-perpetuante che non può essere ignorata senza incorrere in gravi conseguenze. Anzi, spesso sono proprio i tentativi di mediazione e negoziazione, seppur mossi dalle migliori intenzioni, a contribuire involontariamente all’“intrattabilità” di questi conflitti, incancrenendo le posizioni delle parti.

Una simile dinamica è ravvisabile anche nel caso di alcuni contenziosi familiari, come quelli fra ex-coniugi, o nel caso di controversie sul lavoro o, ancora, contrapposizioni nette e insidiose tra fazioni ideologiche, come quelle a favore o contro l’aborto o la pena di morte. Nelle condizioni di “tempesta perfetta”, perfino una banale lite fra vicini può trascinarsi, acutizzarsi e trasformarsi in un conflitto insanabile. Seppure questi siano casi lontani dai grandi conflitti militari che hanno dominato le scene internazionali, esistono dei pattern simili nel modo in cui le persone percepiscono gli eventi e reagiscono ad essi. Alcuni conflitti familiari, ad esempio, coinvolgono all’inizio solo due persone; nel corso del tempo, poi, altri membri si schierano a favore dell’una o dell’altra parte, rafforzando le iniziali divergenze, fino al punto in cui l’altra parte è vista come una minaccia alla propria esistenza e a tutto ciò che si ha di più caro, così che l’obiettivo della distruzione dell’avversario è considerato superiore al prezzo pagato per raggiungerlo.

Alcuni studi hanno tentato di riprodurre le dinamiche emotive dei conflitti intrattabili, ponendo le persone di fronte ad argomenti di dibattito fortemente polarizzanti, come la legalizzazione dell’aborto o le condanne “più giuste” nei casi di pedofilia. Tendenzialmente, coloro che nel corso dei dibattiti si arrabbiavano furiosamente giungevano spesso ad una situazione di stallo ed erano incapaci di andare oltre e considerare nuove e positive informazioni sulla controparte, mentre coloro che riuscivano ad instaurare una comunicazione più positiva e a cogliere le ragioni profonde del conflitto, erano capaci di sperimentare sia delle emozioni negative connesse al conflitto che un senso di “tolleranza” nei confronti delle diverse opinioni degli altri.

Sebbene i conflitti intrattabili sembrino eludere ogni possibilità di soluzione, Coleman ritiene che sia quantomeno possibile trasformare un conflitto apparentemente intrattabile in un conflitto meno distruttivo, per mezzo di tecniche diverse, differenziate e prolungate nel tempo. Anzitutto, è possibile lavorare sulla comunicazione fra le parti, cercando di superare l’ipersemplificazione della contrapposizione “noi-loro” e promuovendo una comprensione maggiore delle reali cause del conflitto distruttivo e l’instaurazione di meccanismi non violenti. Talvolta, nel tentativo di mitigare la tensione e contenere il conflitto, può rivelarsi efficace intensificare le cosiddette “isole di accordo”, ovvero le tematiche intorno alle quali le parti hanno sempre mostrato, nonostante l’elevata conflittualità che caratterizza i loro rapporti, un certo accordo (ad esempio, nel caso di conflitti su scala internazionale, una possibile “isola d’accordo” potrebbe essere rappresentata dalla salvaguardia dei diritti umani). Ancora, spesso la situazione conflittuale peggiora con l’intervento di istituzioni o figure autoritarie che fanno uso della forza (legislativa, militare, etc.), mentre riesce a trasformarsi positivamente con l’aiuto proveniente da terze parti che esercitano un potere meno coercitivo e vengono percepite come affidabili, non minacciose e prive di secondi fini. Fondamentale è inoltre sfruttare al meglio la potenzialità trasformativa dei momenti di instabilità e crisi; quando le controversie si trascinano per lunghi periodi, infatti, tendono a stabilizzare lo status quo della loro dinamica conflittuale. Scandali, crisi economiche, emergenze sanitarie ed altri eventi eccezionali e perturbanti possono “sbloccare” la situazione di stallo e fungere da catalizzatore per il cambiamento. Inevitabilmente, risolvere conflitti apparentemente intrattabili richiede tempo. L’attivista per la pace John Paul Lederach raccontò di essere stato quasi cacciato da una riunione sul conflitto nell’Irlanda del Nord per aver suggerito che, dal momento che c’era voluto molto tempo per arrivare ad una situazione conflittuale così intensa, ne sarebbe servito altrettanto per uscirne, forse addirittura secoli. Come ha ricordato Coleman, non è sempre così, ma è una considerazione cauta.

Riferimenti bibliografici

  • Coleman, P. T. (2018, 13 Feb). The science of sustaining peace. What the UN should learn about peaceful societies. Psychology Today. Disponibile al link: https://bit.ly/3omndN8
  • Coleman, P. T. (2011). The Five Percent: Finding Solutions to (Seemingly) Impossible Conflicts. New York: Public Affairs, Perseus Books.
  • Coleman, P. T., Deutsch, M., & Marcus, E. (Eds.) (2014). The Handbook of Conflict Resolution: Theory and Practice. 3rd Edition, San Francisco: Jossey-Bass.
  • Fry, Douglas P. (Ed). (2013). War, Peace, and Human Nature: The Convergence of Evolutionary and Cultural Views. New York: Oxford University Press.
  • Gross, J. J., Halperin, E., & Porat, R. (2013). Emotion regulation in intractable conflicts. Current Directions in Psychological Science, 22(6), 423–429.
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