Fake news: le leggono in tanti, ma le condividono in pochi. Perché?

  • In Articoli
  • 06-05-2021
  • di Giuseppe Stilo
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La copertina del Rapporto sui grandi diffusori di disinformazione.
Le fake news vengono lette da tantissime persone, trattano argomenti “attraenti”, eppure molti di quelli che vi entrano in contatto poi non le condividono in rete. Un’apparente contraddizione, segnalata più volte dalla ricerca recente[1].

Perché questo fenomeno? La domanda ha spinto Sacha Altay, Anne-Sophie Hacquin e Hugo Mercier, tre psicologi dei processi cognitivi dell’Institut Jean Nicod di Parigi, a mettere in atto alcuni esperimenti, i cui risultati sono stati presentati in un articolo uscito a novembre 2020 su New Media and Society[2].

La definizione di fake news alla quale gli studiosi si sono attenuti è piuttosto specifica, ed è quella enunciata dallo scienziato politico David Lazer nel 2018[3]: si tratta di “informazioni inventate che mimano nella forma esterna e nei contenuti le notizie dei media, ma non nei loro processi organizzativi o nei loro intenti”. Le fake news, insomma, sono costruite in modo volontario per sembrare veri articoli di cronaca: non sono, quindi, dicerie, voci incontrollate o leggende contemporanee, sono “invenzioni” ideate a fini maliziosi, almeno in questa definizione.

Ebbene, sulle fake news gli psicologi francesi hanno formulato un’ipotesi generale: moltissime persone sono attratte dai fake ma non li condividono, dopo esservi entrati in contatto, perché temono che, facendolo, la loro reputazione individuale ne uscirebbe danneggiata. Detto in altri termini: gli utenti dei social network si renderebbero conto abbastanza facilmente di trovarsi di fronte a una bufala. A quel punto, potrebbero decidere di condividerla ugualmente, magari perché in linea con le proprie idee, ma preferiscono non farlo; e la ragione sta per lo più nel timore del giudizio altrui.

Non è sufficiente che il “falso” riporti storie congruenti con le opinioni di chi lo apprende: l’attendibilità della fonte che ha prodotto il falso, infatti, uscirà danneggiata per il fatto stesso di aver diffuso una notizia inventata: l’utente la riconoscerà, e, magari, in futuro non presterà più attenzione al sito, al blog o alla testata che l’ha messa in circolazione. In altri termini, non si fiderà più di quella fonte. Questa cosa è molto positiva: ci sono indicazioni secondo cui il pubblico starebbe diventando sempre più attento al contenuto veritativo delle notizie. Sotto questo profilo, molti individui devono ormai essere visti come “consumatori responsabili di informazione digitale”[4].

Ma davvero il pubblico è in grado di discernere fra fake news e storie giornalistiche legittime? La questione forse dovrebbe essere trattata come premessa generale dello studio, ma gli autori hanno preferito discuterla a metà del lavoro. Ad ogni modo, nel riprendere alcune ricerche recenti sul tema, gli studiosi francesi sembrano fiduciosi in questa capacità di discernimento da parte del pubblico[5].

Inoltre, le persone tengono parecchio alla loro reputazione, anche quando, in rete, fanno aumentare la circolazione di una notizia. Ciò fa pensare ad Altay, Hacquin e Mercier che la fiducia sia qualcosa di asimmetrico: è più facile perderla che riconquistarla. Il costo che bisogna sopportare per acquisirla di nuovo dopo aver condiviso notizie false è assai superiore al guadagno che si pensa di poter conseguire facendole circolare.

Questa asimmetria nella fiducia, come la chiamano gli autori della ricerca, li ha spinti a formulare una serie di ipotesi (H). Eccole elencate tutte di seguito: se si condividono fake news, si fa più in fretta a perdere la reputazione di quanto ci si è messo a conquistarla (H1), e lo stesso vale se le notizie false sono coerenti con l’orientamento politico di chi le ha condivise (H2). Dunque, condividerle ha un costo potenziale (H3), e questo costo può essere ancora più alto se entra in gioco la reputazione individuale di chi le fa girare (H4). Questo costo, del resto, potrebbe estendersi anche ad altri soggetti, ossia a chi, eventualmente, condividerà ulteriormente i falsi in passaggi successivi, anche se si tratta di falsi politicamente graditi a costoro (H5). Questi costi potrebbero diventare ancora più alti nel caso in cui si ritenga sia messa a rischio la propria reputazione condividendola non in modo “generico” o anonimo, ma tramite account personali o in altri modi che permettono di risalire con precisione all’identità del diffusore (H6). Infine, l’ipotesi di ordine più generale (H7), conseguenza delle prime sei: condividere fake news potrebbe comportare costi maggiori rispetto alla condivisione di notizie vere ed attendibili, tanto più quando si ritiene sia messa in pericolo la propria reputazione personale.

Gli esperimenti hanno confermato con chiarezza l’ipotesi H1: si subisce una maggior perdita di fiducia quando si condivide una notizia falsa insieme ad altre vere, rispetto a quanta se ne acquista quando si diffonde una notizia vera insieme ad altre false (in altre parole, gli episodi negativi per la propria credibilità pesano di più rispetto a quelli positivi). La reputazione che si acquisisce come fonte, dunque, è qualcosa di fragile e soggetto a rapide cadute.

Per testare l’ipotesi H2 si è replicato il primo esperimento, ma questa volta utilizzando notizie di contenuto politico più o meno gradito ai partecipanti. Niente da fare anche stavolta: diffondere notizie false in linea con un certo orientamento elettorale peggiora la propria reputazione anche tra le persone d’accordo con quella linea politica (anzi, sembra farlo in maniera maggiore rispetto a news “neutre”). Solo con il terzo esperimento, però, si è cercato di capire se davvero il motivo di fondo per il quale tante persone non condividono le notizie false sia il timore della perdita di reputazione (ipotesi da H3 ad H6).

Per provarlo, è stato chiesto ai partecipanti quanto avrebbero chiesto di essere pagati per condividere fake news. Così facendo, tuttavia, si poteva sospettare che la richiesta di denaro non fosse legata al timore di perdere reputazione, ma al beneficio economico atteso.

È stata dunque progettata una serie di esperimenti in cui il pagamento s’incrociava con altre due variabili: la prima, che abbiamo già incontrato, era la congruenza del falso con le idee politiche del condivisore, la seconda - più decisiva della prima - il fatto di condividere le fake news da account anonimi oppure utilizzando quelli propri, dunque rendendo identificabile con chiarezza l’identità dello “spacciatore di falsi”.

Ebbene, la maggioranza delle persone ha dichiarato che per condividere fake dovrebbe essere pagata, e, sia pur in maniera meno lineare, che dovrebbe esserlo anche quando la notizia inventata è in linea con le proprie opinioni politiche. Il denaro richiesto aumenterebbe ancor più se la propria reputazione di individui fosse messa in gioco da quell’atto.

Quest’ultimo gruppo di risultati coincide con una serie di lavori recenti, secondo i quali le persone affermano di voler condividere sui social soltanto notizie accurate5 e sono consapevoli che condividendo storie inventate la loro immagine ne uscirà danneggiata[6]. Inoltre, le evidenze sembrano indicare che in realtà i responsabili della diffusione di gran parte delle fake news sono solo una sparuta minoranza (in termini attuali, potremmo considerarli degli iper-diffusori)[7].

Ma, se le persone sono per lo più in grado di distinguere le notizie vere da quelle false[8] e ci tengono a essere considerate attendibili, perché esistono questi iper-diffusori di bufale? Accade per una serie di motivi: a volte, i fake sono un passatempo di gruppo; in altri casi - per far ricorso a un concetto della linguistica - le notizie false svolgerebbero una funzione fàtica, quella cioè della chiacchiera senza importanza, nel corso della quale nessuno si aspetta davvero di esser giudicato male solo per aver parlato “a vanvera”. Infine, ricerche recenti suggeriscono che una parte degli iper-diffusori sarebbe formata da individui “con un alto bisogno di caos”, ossia da individui che non tengono in particolar conto la loro reputazione personale[9].

Un ultimo risultato - ma questo ovviamente non stupisce: quando la notizia, oltre a essere falsa, va anche contro le proprie opinioni politiche, il costo richiesto per condividerla è maggiore (tanto più se si è riconoscibili).

Concludendo: per gli autori la ricerca sociologica mostrerebbe che il problema sul piano generale non sono tanto le fake news in quanto tali, ma il fatto che troppi rifiutano l’informazione di qualità e non se ne fidano[10].

Note

1) Guess, A, Nagler, J, Tucker, J (2019) Less than you think : prevalence and predictors of fake news dissemination on Facebook. Science Advances 5(1): eaau4586; Osmundsen, M, Bor, A, Bjerregaard Vahlstrup, P, et al. (2020) Partisan Polarization Is the Primary Psychological Motivation behind “Fake News” Sharing on Twitter. Disponibile all’url: https://bit.ly/3mMAAWI
2) Why do so few people share fake news? It hurts their reputation https://bit.ly/2RtLhSi
3) Lazer, DM, Baum, MA, Benkler, Y, et al. (2018) The science of fake news. Science 359(6380): 1094–1096.
4) Chambers, S. (2021). Truth, deliberative democracy, and the virtues of accuracy: is fake news destroying the public sphere?. Political Studies, 69(1), 147-163.
5) Pennycook, G, Rand, DG (2019) Fighting misinformation on social media using crowdsourced judgments of news source quality. Proceedings of the National Academy of Sciences 116(7): 2521–2526.
6) Waruwu, BK, Tandoc, EC, Duffy, A, et al. (2020) Telling lies together ? Sharing news as a form of social authentication. New Media & Society. Epub ahead of print 10 June.
7) Grinberg, N, Joseph, K, Friedland, L, et al. (2019) Fake news on twitter during the 2016 US Presidential election. Science 363(6425): 374–378; Osmundsen, M, Bor, A, Bjerregaard Vahlstrup, P, et al. (2020) Partisan Polarization Is the Primary Psychological Motivation behind “Fake News” Sharing on Twitter. Disponibile all’url: https://bit.ly/2PWq57j .
8) Altay, S, de Araujo, E, Mercier, H (2020) “If this account is true, it is most enormously wonderful”: Interestingness-if-true and the sharing of true and false news. Disponibile all’url: https://bit.ly/3snG3Ex
9) Petersen, MB, Osmundsen, M, Arceneaux, K (2018) A “Need for Chaos” and the sharing of hostile political rumors in advanced democracies. Disponibile all’url: https://bit.ly/3wTcEWp
10) Van Duyn, E, Collier, J (2019) Priming and fake news : the effects of elite discourse on evaluations of news media. Mass Communication and Society 22(1): 29–48.
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