Recensioni e segnalazioni

  • In Articoli
  • 21-12-2022
  • A cura di Thea Pietrobono

Paura della scienza
Enrico Pedemonte
Treccani, Roma, 2022
pp. 284, euro 21,00


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Forse mai come in questi anni di pandemia la scienza ha avuto un ruolo così visibilmente centrale.

Dall’immenso sforzo collettivo per la comprensione della malattia prima, e per lo sviluppo dei vaccini poi, ai dibattiti a distanza tra scienziati, spesso sgangherati e sopra le righe, fino al problema della diffusa sfiducia nei vaccini a dispetto della loro comprovata efficacia e sicurezza, la pandemia ha prodotto una specie di sunto di quello che la scienza può fare ma anche di quanto oggi sia davvero illusoria l’idea di considerarla un processo idealizzato a cui affidarsi senza timori.

Enrico Pedemonte non è un giornalista scientifico in senso stretto, ma un giornalista che si occupa con competenza anche di scienza. Questo lo aiuta ad avere uno sguardo molto ampio e ad arrivare a conclusioni che vanno al di là dei soli meccanismi interni della scienza.

Paura della scienza è due libri in uno. Come prima cosa, e in particolare nella prima parte, è un vero e proprio sussidiario di temi e storie note a chi si occupa di pseudoscienze e controversie scientifiche vere o finte. L’aria un po’ didattica è accentuata dalla presenza, alla fine di ogni capitolo, di una “sintesi” per punti, probabilmente una scelta editoriale della collana (anche se il libro non è certo un manuale scolastico).

Poi, il libro è anche un saggio fortemente critico nei confronti della gigantesca concentrazione di potere nelle mani delle grandi industrie hi-tech, e più in particolare della crescente privatizzazione della ricerca scientifica, traendone alcune considerazioni sull’origine e sulla natura della “paura della scienza” che dà il titolo al libro.

Così nel primo capitolo, intitolato “Gli evangelici contro la scienza”, Pedemonte racconta del creazionismo e di come questo sia legato anche allo scetticismo sul cambiamento climatico. Nel secondo ripercorre invece un secolo di contrapposizione tra gli interessi dell’industria e la salute pubblica, con la scienza a far da campo di battaglia, raccontando quindi l’incredibile storia dell’uso disinvolto di pericolose sostanze radioattive all’inizio del Novecento; la battaglia sugli effetti del fumo passivo negli anni Cinquanta e Sessanta, studiata da Naomi Oreskes ed Erik Conway; i clorofluorocarburi e il buco dell’ozono negli anni Settanta; infine, il problema del cambiamento climatico a partire dagli anni Ottanta.

Il terzo capitolo, intitolato "Gli ambientalisti contro la scienza”, è dedicato al complicato rapporto tra i movimenti ambientalisti e la grande industria (e anche la ricerca pubblica, come nel famoso caso del Golden Rice o, in Italia, delle mele resistenti a un fungo parassita) sul tema dell’ingegneria genetica. Nel quarto capitolo si ripercorre infine la storia della sfiducia nei vaccini partendo dal noto caso Wakefield e arrivando a un’ottima ricostruzione di quanto successo durante i primi mesi della pandemia.

Dopo aver tracciato lo sfondo con i primi quattro capitoli, il successivo, intitolato “I filosofi contro la scienza” comincia ad addentrarsi nel ragionamento vero e proprio.

Partendo dalla polemica intorno ad alcune prese di posizione antiscientifiche del filosofo Giorgio Agamben sulla gestione della pandemia, Pedemonte segue le argomentazioni di Bruno Latour e mostra come nel tempo le idee dei filosofi postmoderni, critiche nei confronti della scienza, si siano trasformate da bandiere della sinistra a istanze della destra populista.

Ci si avvicina alle conclusioni nel sesto capitolo, "Gli scienziati contro la scienza", che dopo aver brevemente (e forse un po’ superficialmente) trattato la discussione e le ricerche avviate dal famoso articolo “Why Most Published Research Findings are False”, pubblicato da John Ioannidis nel 2005 su PLOS Medicine, sposta finalmente l’attenzione alla crescente privatizzazione della ricerca, la cui natura pubblica è sempre più in discussione.

Nei due capitoli della seconda parte, solo apparentemente slegata dalla prima, si arriva al cuore dell’argomentazione.

L’intelligenza artificiale e i Big Data (che stanno rivoluzionando la scienza esattamente come moltissimi altri settori) sono saldamente sotto il controllo delle grandi industrie hi-tech come Google o Meta. Unito alla crescita letteralmente esponenziale delle prestazioni dei sistemi di AI, questo fa sì che il settore si evolva senza che ci sia la possibilità di sviluppare una riflessione critica sulle conseguenze. Lo strapotere delle stesse aziende sulle piattaforme online si traduce in un sostanziale oligopolio privato in alcuni tra i principali canali di formazione e controllo dell’opinione pubblica, una situazione che non ha precedenti storici.

Ed ecco la conclusione di Pedemonte: questa concentrazione di potere, sostenuta e rinforzata da una scienza sempre più opaca, privatizzata e «nelle mani del Potere», genera sospetto e quindi «non si può isolare la crescente sfiducia nella scienza dalla generale sfiducia […] nei confronti di altre istituzioni sociali». Anche per questo, «è perfettamente inutile, probabilmente dannoso, criminalizzare quanti dimostrano sfiducia nella scienza e formulano teorie e pensieri alternativi, spesso bizzarri, privi di ogni fondamento». Siamo d’accordo.

Per chiudere, una critica e un encomio sul libro in quanto libro.

La prima è rivolta alla casa editrice e non all’autore: il libro è disseminato di errori di stampa. Nel quarto capitolo il Thimerosal, un conservante usato nei vaccini al centro di una controversia alla fine degli anni Novanta, è scritto alternativamente Thimerosal, Thymerosal, Thymesoral e Thimesoral. Curiosamente manca l’unica altra grafia accettata, Thiomersal.

L’encomio invece è per le note a piè di pagina, che non funzionano solo da riferimenti bibliografici, ma costruiscono un vero e proprio percorso di approfondimento, utili e stimolanti anche per lettori già “iniziati” a questi temi.

Stefano Bagnasco

Il lato oscuro delle storie
Jonathan Gottschall
Bollati Boringhieri, Torino, 2022
pp. 274, euro 24,00


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Jonathan Gottschall insegna letteratura inglese al Washington & Jefferson College, in Pennsylvania. Nel 2012 ha affrontato il bisogno umano di raccontare storie e i suoi benefici per la società nel fortunato saggio L'istinto di narrare. Ora è tornato sullo stesso tema, affrontandone però il latonegativo: il potenziale distruttivo delle storie.

Intendendo per “storie” non solo la narrativa vera e propria ma qualsiasi racconto, comprese le narrazioni che costruiamo sui social network e le nostre interpretazioni divergenti della storia e della cronaca, la premessa è che «tutta l’instancabile comunicazione che effettuiamo nel corso della nostra vita ha uno scopo prioritario: quello di influenzare le menti di altre persone, di spingere in una certa direzione il modo in cui pensano, percepiscono e in ultimo si comportano».

L’obiettivo della persuasione è più evidente nella comunicazione politica o pubblicitaria; meno scontato, ma altrettanto presente, in altri contesti come le discussioni al bar.

Le storie sono molto efficaci come motori di cambiamento grazie al trasporto narrativo, la sensazione di essere trasportati fuori dalla realtà quotidiana verso altri mondi. I romanzi e i film ci commuovono e ci spaventano come se fossero eventi reali. Ci identifichiamo così tanto con il protagonista di una buona storia che riusciamo a vedere il mondo dal suo punto di vista e continuiamo in parte a farlo anche quando la storia è finita. In base ad alcuni studi, infatti, gli effetti persuasivi delle storie sono effettivi e duraturi e aggirano il nostro senso critico, a differenza delle argomentazioni razionali.

Secondo Gottschall, per essere avvincenti le storie devono seguire regole piuttosto rigide. Le buone storie mostrano uno scontro tra buoni e cattivi, generano forti emozioni e hanno una morale. Come aveva intuito Tolstoj e ha confermato la ricerca più recente, le buone storie sono contagiose. Quelle che hanno più influenza sulla società sono di tipo attivante, che richiedono di intervenire. Aveva questa caratteristica il cristianesimo delle origini, intollerante ed evangelizzatore, che si diffuse attraverso il passaparola, e ce l’hanno le teorie del complotto di oggi, storie di orrore morale che fanno sentire chi le diffonde un eroe che combatte contro le forze del male.

Un’osservazione interessante è che l’empatia tanto celebrata dalla psicologia pop può avere conseguenze terribili: all’empatia per i protagonisti positivi di una storia si accompagna infatti l’insensibilità per gli antagonisti. Per esempio erano ricchi di empatia per le sofferenze del proprio popolo gli hutu che nel 1994 in Ruanda massacrarono quasi un milione di tutsi a colpi di machete.

I pericoli dell’empatia sono la conseguenza di un retaggio evolutivo non più adatto alla società contemporanea. Se in passato la distinzione tra i buoni del nostro gruppo e i cattivi del mondo esterno garantiva la sopravvivenza di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori esposti agli attacchi di gruppi rivali, nelle società multiculturali e multietniche di oggi non solo non è più adatta al contesto ma può causare enormi tragedie.

Sfruttano cinicamente i nostri punti deboli le “fabbriche di troll” russe che sono riuscite a creare gruppi di estremisti contrapposti per indebolire la società occidentale. Ma anche le grandi aziende che dedicano molte risorse allo storytelling sono tutt’altro che innocenti: raccolgono dati su di noi con l’obiettivo di proporci storie sempre più personalizzate e persuasive, in definitiva manipolative. Gli avanzamenti tecnologici, compreso il deepfake che produce falsi sempre più indistinguibili dalla realtà, rischiano di causare un’infocalisse in cui ogni fazione costruisce prove apparentemente valide a sostegno della propria tesi e non esiste più una realtà condivisa a garantire la convivenza civile.

Come ci difendiamo dal potere distruttivo delle storie? Qui sta forse la parte più debole del libro. Gottschall non vuole soccombere al pessimismo, ma non ha ricette articolate da proporre: la sua principale raccomandazione è di affidarsi alla scienza e in particolare di far crescere la scienza della narrazione in modo da riuscire a governare meglio le storie in futuro. Per quanto riguarda i singoli individui, Gottschall consiglia di tenere a freno la nostra tendenza a farci conquistare dalle storie: per esempio quando una storia che mostra una distinzione netta tra buoni e cattivi ci suscita indignazione moralistica dovremmo provare a metterla in discussione e a immaginarla diversamente.

Il lato oscuro delle storie è un libro che intende descrivere fenomeni di ampia portata mettendo insieme molte discipline diverse: questo non può che dar luogo a qualche semplificazione e imprecisione, ma d’altra parte il lavoro di sintesi è apprezzabile e non mancano gli spunti di riflessione critica.

Andrea Ferrero

Le gioie della scienza
Jim Al-Khalili
Bollati Boringhieri, Torino, 2022
pp. 178, euro 18,00


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Jim Al-Khalili, fisico teorico britannico, divulgatore e titolare della cattedra di comunicazione della scienza all’università del Surrey, è noto da anni anche in Italia grazie alla traduzione di parecchie sue opere, tutte pubblicate per i tipi di Bollati Boringhieri.

L’ultima è Le gioie della scienza, un testo breve, veloce, cristallino, ma radicale. Un volumetto nel quale Al-Khalili usa spesso termini come “profondo” e “profondità”.

Chi non ama e non conosce i modi in cui ragiona la scienza, spesso ripete che la scienza mancherebbe di profondità. Rimarrebbe in superficie, per quanto efficiente e segnata da successi pratici possa essere, e non sarebbe in grado di sondare la profondità della realtà, dei fenomeni, e una supposta essenza delle cose. Con il suo stile umile e densissimo, in modo indiretto Al-Khalili chiarisce questo sofisma. E lo fa, per esempio, facendo vedere quanto in profondità ci conduce la spiegazione della realtà fisica di un fenomeno come l’arcobaleno.

Semplicemente, c’è profondità e profondità. C’è la finta profondità del “mistero”, fine a sé stessa, che a ben vedere teme le spiegazioni e non vuole che la curiosità sia soddisfatta, e la profondità vera, quella che cerca di render conto in maniera adeguata della complessità dei fenomeni. La profondità che si spinge fino a comprendere le cause di quello che accade. Questa, argomenta Al-Khalili, è la profondità – ed è la fonte di gioia e di costante sorpresa dell’impresa scientifica.

Ed è proprio gioia che suggeriscono le otto lezioni del libro, introducendo alla scelta di giudizi più razionali e più utili, sia sul piano collettivo sia su quello individuale. Perché la scienza è qualcosa che ci fa stare meglio, e che ci fa stare meglio secondo procedimenti attendibili. E, secondo Al-Khalili, l’attendibilità della scienza può essere motivo di gioia e di legittima, ragionevole felicità.

Le otto lezioni, in realtà, non sono propriamente tali. Sono discussioni sulle caratteristiche portanti di concetti come natura e verità, su quale sia il ruolo del dubbio nella scienza, e – soprattutto – su come lavorare in modo fruttuoso alla semplificazione delle complessità. Non contengono nessuna idea di magnifiche sorti e progressive: se la mentalità scientifica è davvero tale, non nasconde limitazioni e oscurità di ogni impresa. Anzi, uno dei meriti di Al-Khalili è di far scorgere a chi legge la gioia che c’è anche nel fatto di scoprire “guai” di questo genere.

In tutto ciò, non manca una forte dimensione pubblica, anzi, una dimensione politica.

Il presupposto di Al-Khalili è che «il continuo successo della scienza […] dipende da un rapporto aperto e collaborativo tra scienziati e non scienziati». Senza questo genere di legame, la scienza rischia di fallire. In sostanza, secondo Al-Khalili l’approccio scientifico alla realtà è un diritto individuale e collettivo che si acquisisce nascendo (birthright: è reso con “eredità”, ma per me in quel modo non si rende la forza dell’espressione). E dato che il libro è dedicato alla gioia (anche stavolta: joy, al singolare), viene da accostare tutto ciò a un atto politico: la ricerca della felicità di cui parla la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. Anche la gioia della scienza, come la racconta Al-Khalili, è prima di tutto una dichiarazione d’indipendenza.

Di recente, un genetista e filosofo come Edoardo Boncinelli scriveva su La lettura che la scienza sarebbe vista male da tanta gente soprattutto perché con essa non si viene a patti, e perché al suo confronto si manifesterebbe un senso d’impotenza. Emetterebbe verdetti inappellabili e, al contrario di altre discipline e previsioni, con la scienza non si potrebbe contrattare.

Oltre che un addetto alle scienze hard, Boncinelli è un ottimo grecista, e dunque usa bene l’arte retorica. Con quelle parole, voleva trasmettere il carattere adulto, virile dell’intrapresa scientifica. Il fatto che coincide con la fine dell’infanzia dell’umanità.

Invece, Al-Khalili, figlio del pragmatismo filosofico britannico, non ha dovuto fare i conti con la cultura italiana, devastata fino a pochi decenni fa dall’idealismo e dallo storicismo. Nelle pagine de Le gioie della scienza, anche se non lo afferma in modo esplicito, si direbbe che pensi che la scienza possa contrattare, cioè che possa scendere a patti con la molteplicità dell’esperienza umana e con le sue aree meno razionali.

La scienza fornisce “una qualche misura di controllo”, necessaria ma non sufficiente per ridurre le complessità in modo non disfunzionale, e non di più. E contratta, sapendo che ha armi potenti con sé. Perché, proprio chi contratta, in fondo, ha dalla sua tutte le opzioni per farlo.

Giuseppe Stilo

Occupare il futuro
Roberto Paura
2022, Codice Edizioni, Torino
pp. 368, euro 23,00


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La tesi, molto forte, del libro di Roberto Paura (enunciata nell’introduzione), è che «il futuro come dimensione del possibile, del non ancora, del radicalmente altro rispetto al presente, ci è stato sottratto ed è oggi colonizzato e monopolizzato dall’1% del mondo».

Questo perché la visione del mondo che definisce la moderna forma di egemonia culturale (esplicito riferimento ad Antonio Gramsci), «è fortemente presentista». Infatti, «nonostante la parola futuro risuoni continuamente negli slogan politici, nelle pubblicità delle banche, nei TEDx degli utopisti tecnologici, la nostra società soffre di una sostanziale incapacità di pensare al futuro, inteso come orizzonte di lungo termine». In sostanza, «le realtà che detengono il controllo del presente sono attente a proporci visioni del futuro che non ammettono alternative, non essendo altro che una reiterazione del passato».

Per dimostrare la sua tesi, l’autore – che è presidente dell’Italian institute for the future – sviluppa un ampio discorso che si muove trasversalmente tra la storia della scienza, della filosofia e della fantascienza, cercando di evidenziare la profonda diversità esistente tra “occuparsi del futuro” e “preoccuparsi del futuro”, espressioni che corrispondono ai titoli dei primi due capitoli del libro. Si va da Wells ad Asimov, da Condorcet a Spengler, dal Progetto Manhattan a Elon Musk.

L'assenza del pensiero a lungo termine è uno dei tratti distintivi della riflessione di Paura, il quale, nell’ultimo capitolo – intitolato proprio “Occupare il futuro” – cerca di delineare un ventaglio di possibili soluzioni «per abbandonare il paradigma della previsione, sostituendolo con quello delll’anticipazione, maggiormente orientato a restituirci una capacità di immaginare il futuro e di aspirare al cambiamento».

Il libro finisce così per essere un’ampia riflessione sul concetto attuale di progresso, che, come ha già mostrato lo storico della filosofia e della scienza Paolo Rossi nel suo Naufragi senza spettatori (1995), è nato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, tradendo la visione baconiana di “avanzamento del sapere” che aveva contraddistinto la prima fase dello sviluppo della scienza moderna.

Proprio per questo motivo, come sottolinea correttamente l’autore, «siamo ancora legati a un paradigma fondato sulla crescita e l’espansione, senza renderci conto che questi termini, apparentemente neutri, nascondono in realtà un’infinita ambizione di dominio, esattamente come il termine progresso nasconde la fede in un orientamento teleologico della storia».

Un unico appunto, rivolto più all’editore che all’autore: un libro con questa ricchezza di temi e, soprattutto, di personaggi, avrebbe assolutamente avuto bisogno di un indice dei nomi.

Marco Ciardi

Quarte di copertina


La vita inevitabile


di Pier Paolo Di Fiore, Codice Edizioni
Cosa sappiamo sull’origine della vita? Pier Paolo Di Fiore risponde dal punto di vista chimico, biologico ed evoluzionistico, raccontando una storia iniziata miliardi di anni fa e narrata in prima persona da un protagonista d’eccezione: il Replicante, un’entità biochimica progenitrice del DNA, emersa dalla materia senza vita.

Benvenuti ad Atlantide


di Marco Ciardi, Carocci Editore
Un viaggio alla ricerca di Atlantide, ma anche un viaggio nella memoria dell’autore, tra romanzi, cinema e fumetti, ricerche storiche e indagini scientifiche, miti, metafore e utopie. Per scoprire che, forse, Atlantide non va cercata nel passato, ma deve essere costruita nel futuro.

Ciarlatani


di Francesco Maria Galassi ed Elena Percivaldi, Espress Edizioni
Un paleopatologo e una storica ci guidano in un itinerario tra i secoli alla scoperta delle false credenze e delle cure più strane e curiose per imparare, attraverso il racconto di storie che incantano e suscitano forti emozioni, a orientarci nella selva di cattiva informazione sulla cura della salute.

Mille cervelli in uno


di Jeff Hawkins, Saggiatore
La teoria dei mille cervelli, esposta qui per la prima volta da un esperto di neuroscienze e intelligenza artificiale, nasce da una nuova prospettiva sulla neocorteccia. L’intuizione chiave riguarda le sue unità di base, chiamate colonne corticali, e annuncia una vera e propria rivoluzione nel modo di avvicinarci alla conoscenza, umana e artificiale.

PODCAST


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Martina Tremenda nello spazio


Martina è una ragazzina di 12 anni inviata speciale nel cosmo, che racconta in diretta tutto quello che vede e scopre: pianeti lontani, galassie, nuovi telescopi, buchi neri e alieni. Realizzato da INAF (Istituto nazionale di astrofisica) in collaborazione con Realtà Debora Mancini, è il primo podcast cosmico-stellare per bambini di 8-11 anni ed è disponibile sulle principali piattaforme e sul sito dedicato https://astrokids.inaf.it/il-podcast/

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RadioTre Scienza


In onda dal 2003, il quotidiano scientifico di Radio3 RAI è l’appuntamento radiofonico per eccellenza per tutti coloro che si interessano alla scienza. Ideato da Rossella Panarese e curato da Marco Motta, il programma è fatto di interviste, dibattiti, approfondimenti e reportage ed è in onda dal lunedì al venerdì dalle 11.30 alle 12.00. Ma è anche un podcast, disponibile su tutte le principali piattaforme e sul sito https://www.raiplaysound.it

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Maestre e maestri d’Italia


Alessandro Banfi ripercorre la storia di otto celebri insegnanti italiani che hanno saputo creare modelli educativi. Dall’esperienza di don Milani al celebre metodo Montessori, senza dimenticare le grandi lezioni di Manzi, Pasolini e Rodari, un racconto che celebra l’insegnamento come forma di dedizione e missione sociale, ieri come oggi. Prodotta da Chora Media per Vita, in collaborazione con Fondazione Cariplo, la serie podcast è disponibile sulle principali piattaforme e sul sito https://choramedia.com/
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