Il calamaro gigante, una leggenda divenuta realtà

  • In Articoli
  • 08-08-2014
  • di Alfonso Lucifredi
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Calamaro gigante femmina, National Museum of Natural History's Sant Ocean Hall, Wikimedia Commons
Il 10 gennaio scorso è circolata in rete la notizia dello spiaggiamento a Santa Monica, in California, di un calamaro gigante dalle dimensioni veramente spropositate: lungo oltre 160 piedi (quasi 50 metri), questo colosso, secondo l’opinione di alcuni esperti, sarebbe frutto della radioattività generata dall’incidente alla centrale nucleare Dai-Ichi di Fukushima nel 2011. La notizia era corredata da una foto[1] che mostrava l’animale spiaggiato circondato da decine di curiosi. Tutto questo pochi giorni dopo il ritrovamento, avvenuto sulle stesse spiagge, di un oarfish, in italiano regaleco o re delle aringhe, di 95 piedi di lunghezza (quasi 30 metri, a fronte di lunghezze medie di pochi metri), anch’esso presunta vittima di gigantismo causato dalle radiazioni nocive generate da Fukushima, propagatesi nell’oceano Pacifico.
Grazie a reminescenze di stampo “godzilliano” la notizia è ben presto diventata virale ed è apparsa qua e là sulle pagine facebook e tra i tweets di migliaia di persone in giro per la rete.
Si tratta di un classico esempio di bufala giornalistica mal confezionata: la bufala è nata da un articolo del portale satirico Lightly Braised Turnip (in nota [2] il link all’originale), l’immagine è stata creata con un fotomontaggio, peraltro piuttosto grossolano, di un altro calamaro rinvenuto a La Arena in Cantabria (in nota [3] e [4] il link all'originale) con l’immagine di una balena trovata morta in Cile nel 2011[5]. Allo stesso modo, sono stati inventati di sana pianta anche gli esperti citati nell’articolo originale, il biologo Martin L. Grimm e la presunta manager dei parchi di Santa Monica Cynthia Beard, tutti nomi di persone mai esistite. E, per finire, nella traduzione in altre lingue e nel marasma di condivisioni, evitando qualunque conversione dal sistema anglosassone al metrico decimale, i 160 piedi sono allegramente diventati 160 metri.
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Wikimedia Commons
In questo caso non c’era nemmeno bisogno di fare grandi ricerche per svelare la bufala: era sufficiente un’osservazione più attenta dell’immagine, palesemente manipolata anche all’occhio di un non esperto, per riconoscere lo scherzo e accantonare la notizia con un sorriso. Ciononostante, l’evento in sé ha riportato l’interesse per un animale quasi sconosciuto, di grande fascino e che vale la pena di riscoprire.

Il circlemaker che non ti aspetti



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Yoji Ookata[6] è un fotografo giapponese, specializzato in immagini subacquee. Scoprì il mondo sottomarino quando frequentava le scuole superiori, trasformando la sua passione in lavoro all’età di 39 anni. Ma in cinquant’anni di immersioni non aveva mai visto una cosa come quella che gli apparve[7] al largo dell’isola Amami Oshima[8], a una profondità di circa 25 metri, nel maggio del 2007: uno strano cerchio perfettamente scavato nella sabbia, formato da più strutture concentriche, della larghezza di quasi due metri.
La formazione, per certi versi simile a un cerchio nel grano, era stata subito battezzata “mystery circle”. Ma al posto di gridare “all’Ufo all’Ufo”, Ookata ha provato a risolvere il mistero.
Insieme a una troupe televisiva dell’NHK è tornato sul posto, scoprendo altri cerchi sottomarini e filmando il momento della formazione di uno di questi. La soluzione del mistero è andata in onda il 9 settembre 2012 in una puntata speciale del programma di divulgazione scientifica “Darwin has come!”[9].
Niente UFO o astronavi sottomarine, ma qualcosa di altrettanto sorprendente: il circlemaker era un pesce palla. Nelle riprese di Ookata si vede infatti l’animale stendersi sul fondale e imprimere più e più volte la forma del suo corpo nella sabbia, per poi decorare il cerchio con conchiglie trasportate sul posto, rotte con la coda e infine sparpagliate in tutta la formazione.
Un'operazione che ha richiesto quasi sei giorni di lavoro e portata a termine con un preciso scopo: trovare una compagna. Gli zoologi che facevano parte della spedizione hanno notato come le femmine di pesce palla fossero attirate dai cerchi: maggiore la complessità delle formazioni, maggiore la probabilità di accoppiamento.
Imprimere queste complesse strutture sul fondale potrebbe inoltre costituire una strategia evolutiva: le femmine di pesce palla depongono le uova fecondate al centro dei cerchi, e il sistema di creste e canali creato con la sabbia servirebbe a proteggerle dalle correnti marine. Anche le conchiglie rotte e sparpagliate nella formazione avrebbero una funzione: non semplici decorazioni, ma cibo per i nascituri.

Sofia Lincos
Tante volte le esplorazioni dedicate alla ricerca di creature misteriose e leggendarie hanno infatti ottenuto risultati deludenti. Tra yeti, bigfoot, chupacabra, mostro di Loch Ness e tanti altri, ai racconti folcloristici e a sporadici avvistamenti non sono corrisposte prove scientifiche tangibili dell’esistenza di animali così affascinanti e introvabili. Ciononostante esistono le eccezioni, soprattutto per quanto riguarda gli ambienti oceanici, dove le scoperte sono quasi all’ordine del giorno: il censimento della vita marina, avvenuto nel decennio tra il 2000 e il 2010 (sul sito ufficiale[10] i risultati ottenuti sono resi pubblici) ha portato all’identificazione di migliaia di nuove specie marine appartenenti a tutti i grandi gruppi tassonomici.
Tra le varie leggende riguardanti i mostri marini, un posto di assoluto rilievo è occupato dal calamaro gigante, spesso noto, nella sua forma più gigantesca e leggendaria, col nome di Kraken (dal norvegese krake, mostruoso, che in tedesco assume, guardacaso, il significato di “piovra”). Questo è dovuto alla sua ricorrente presenza nella cultura popolare: tante sono le leggende marinare che raccontano di lotte all’ultimo sangue con i capodogli o di attacchi a navi anche di grandi dimensioni, trascinate in fondo al mare da giganteschi tentacoli; probabilmente Omero l’aveva descritto nell’Odissea col nome di Scilla. Il calamaro gigante è anche protagonista di tanti romanzi di avventura (si scaglia contro il Nautilus in Ventimila leghe sotto i mari e Melville descrive un suo incontro col Pequod in Moby Dick, mentre in tempi più recenti è protagonista del bestseller Tentacoli di Peter Benchley, da cui è stata tratta una miniserie televisiva) ed è apparso tante volte al cinema, non ultimo nella saga dei Pirati dei Caraibi, anche qui sotto il nome di Kraken.
Dopo oltre 2000 anni di miti e leggende, l’osservazione diretta ha confermato quello in cui pochi credevano: l’elusivo calamaro gigante esiste davvero, e si può trovare in tutti i mari del mondo, per lo più a grandi profondità. Le osservazioni sporadiche avvenute nel corso dei secoli erano infatti poco credibili a causa di alcune probabili esagerazioni, ma a lungo andare la conoscenza sull’animale si è approfondita ed è diventato sempre più evidente che il calamaro gigante non appartiene solo al mondo delle leggende.
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Harper Lee's Sea Monsters Unmasked, London, 1884. Wikimedia Commons
Nella storia non mancano infatti le testimonianze di osservazioni dirette dell’animale o dei suoi resti, a partire dai numerosi spiaggiamenti avvenuti sulle coste dei mari del nord (ad esempio in Islanda nel 1639 e in Olanda nel 1661), per arrivare agli incontri con gli animali vivi: il più celebre è avvenuto il 17 novembre 1861 al largo delle Canarie, tra Madeira e Tenerife, quando la corvetta francese Alecton avvicinò un animale, moribondo in seguito a un probabile scontro con un capodoglio, e cercò di issarlo a bordo, riuscendo a recuperarne solo la parte posteriore, lunga circa 5 metri. Leggenda vuole che il 10 maggio 1874 il vascello Brick Pearl, al largo del Golfo del Bengala, fosse assalito da un calamaro gigante, i cui tentacoli provarono a inclinare lo scafo e lottarono corpo a corpo con i marinai. Forse anche il mito, nato nel XVI secolo, del “Pesce Monaco”[11] è dovuto all’incontro con uno di questi animali nel Mare del Nord. Secondo altre testimonianze, non confermate, dopo l’affondamento del Britannia nel 1941, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, alcuni superstiti aggrappati ai bordi dello scafo di una zattera, talmente piccola da non riuscire a contenerli tutti, vennero attaccati da un calamaro gigante e uno di loro venne trascinato a fondo, mentre il luogotenente del vascello riuscì a sopravvivere, al prezzo di numerose cicatrici a forma di ventosa su una gamba.

La balena bicefala e altre duplici storie


Ha fatto il giro del mondo la notizia[12] di un insolito ritrovamento in Messico nel gennaio di quest'anno: due balene siamesi appena nate, con due teste e due code perfettamente formate ma unite all’altezza del torso. Secondo quanto riferito dagli esperti del museo di storia naturale di Los Angeles a National Geographic le due balene siamesi erano più piccole di un balenottero normale appena nato (2-3 metri contro 4 di media), ma questo può voler dire che si tratta o di un aborto o di feti nati sottopeso per via dello sforzo nella gravidanza gemellare. Al ritrovamento la balena bicefala era ancora viva ma è sopravvissuta solo poche ore: le balene siamesi non sopravvivono a lungo dopo la nascita perché hanno difficoltà a nuotare e respirare.
Considerando che i cetacei nascono con la coda in avanti, e che qui di code ce n’erano ben due, non è chiaro come la madre abbia potuto partorire, né se sia sopravvissuta al parto. Non è comunque stata ritrovata.
Per quanto raro, gli esperti riferiscono che non si tratta di un evento unico e che gemelli siamesi erano già stati riportati per altre specie di balena. Smentiscono anche la voce che sia colpa delle radiazioni di Fukushima.
Questo non è l’unico esempio di animale bicefalo nato a cavallo del 2014: il 30 dicembre 2013 era nato un vitellino bicefalo[13] in Marocco. Basta guardare sul web per vedere che l’evento di un vitellino bicefalo, al contrario di quanto accade per le balene, per quanto infrequente e per quanto bizzarro, non è poi così raro. Idem dicasi per i serpenti, le tartarughe, i gattini, i polli, gli squali, le salamandre e così via. C’è persino il caso famoso di Abigail e Brittany Hensel, le teen-ager americane gemelle siamesi con due teste e un unico corpo, con ciascuna testa che muove il braccio e la gamba della metà corrispondente del corpo. Nessun vertebrato, insomma, è immune al fenomeno. Serpenti e tartarughe sembrano sopportare abbastanza meglio degli altri lo stress dovuto alla mutazione e riescono in alcuni casi ad arrivare sino all’età adulta, mentre la mortalità neonatale degli individui bicefali tra i mammiferi sprovvisti di cure mediche sfiora il 100%. Frank e Louie tuttavia sono le due teste di un gatto siamese (di razza e di fatto) arrivato all’incredibile età di 12 anni. In realtà si tratta di due facce collegate a un cervello solo, quindi si muovono all’unisono. Frank però non ha un esofago, quindi Louie mangia per due.
L’origine della bicefalia (o, più propriamente, policefalia) è la stessa dei gemelli siamesi: è dovuta alla mancata disgiunzione di due gemelli monozigoti nelle prime fasi della vita embrionale, avviene da sempre e non è particolarmente collegata alle radiazioni. È stato addirittura rinvenuto il fossile di un rettile del cretacico inferiore bicefalo.
Il fenomeno ha però da sempre contribuito ad alimentare l’immaginario e fantasioso mondo interiore di Homo sapiens. Cerbero, il cane a tre teste, ad esempio, o l’idra di Lerna erano mostri policefali della mitologia greca. Scilla fu per gelosia trasformata dalla maga Circe in un mostro a sei teste e quattro occhi. E poi c’è naturalmente Giano Bifronte dei romani, forse ispirato a un caso di disopropia, ovvero due facce ma una testa sola, come il gatto Frank e Louie. Gli dei della mitologia indiana hanno un numero di teste nettamente superiore alla media degli altri dei: Brahma ne ha quattro, Ravana ne ha dieci, Airavata è un elefante a sette teste e così via. Poi ci sono anche i draghi a due o più teste delle mitologie nordiche e, pur non essendo una creatura leggendaria o divina, una piccola menzione la merita anche Zaphod Beeblebrox della Guida galattica per autostoppisti.
La policefalia ci inquieta perché si tratta di due creature che condividono un unico corpo e, se da un lato ci desta orrore per la deformità, dall’altro siamo coscienti che si tratta di una creatura con ben due cervelli, ovvero il 100% in più della nostra materia grigia, e ci si aspetta che ci batta in scaltrezza. Considerata l’intelligenza delle balene, se la balena bicefala fosse sopravvissuta avrebbe probabilmente potuto spiegarci qualcosa, soprattutto sul perché non è una buona idea dare la caccia alle balene.

Lisa Signorile
La definitiva conferma dell'esistenza di questi giganti marini si è ottenuta grazie ad una serie di esemplari spiaggiati rinvenuti negli ultimi decenni del Novecento (in particolare in Nuova Zelanda), dal rinvenimento di resti nello stomaco dei capodogli (che sono effettivamente loro predatori) e da tanti anni di ricerche. La massima autorità nel campo è stato, per oltre tre decenni, Clyde Roper[14], zoologo americano dello Smithsionan Institute esperto di cefalopodi, che ha organizzato svariate spedizioni nei mari della Nuova Zelanda alla ricerca del gigante marino, rinnovando l’interesse del grande pubblico per questo animale negli anni ’90.
Le prime fotografie[15] dell’animale vivo nel suo ambiente naturale sono state scattate il 30 settembre 2004 dai ricercatori giapponesi Tsunemi Kubodera e Kyoichi Mori, a oltre 900 metri di profondità e grazie all’ausilio di esche composte da piccoli calamari e gamberetti.
Nel 2005 l’acquario di Melbourne ha acquistato per 100.000 dollari australiani un esemplare intatto, conservato all’interno di un blocco di ghiaccio trovato da alcuni pescatori nelle acque neozelandesi.
Nel 2006, al largo delle isole Malvinas-Falkland, un altro esemplare congelato della lunghezza di quasi 9 metri e ribattezzato Archie, è stato raccolto da un peschereccio. Inviato al Museo di Storia Naturale di Londra, dopo un meticoloso processo di scongelamento e conservazione è stato messo in mostra nel 2006 al Centro Darwin[16].
Nel 2012 un team composto dall’americana Edith Widder, dal neozelandese Steve O’Shea e dallo stesso Kubodera è riuscito, grazie all’utilizzo di esche luminose, a registrare un filmato dell’animale nel suo ambiente naturale (all’ indirizzo indicato in nota [17] si può vedere la divertente conferenza TED in cui Edith Widder racconta di come siano riusciti nel loro intento).
Certo, il vero calamaro gigante è molto più piccolo di quanto raccontino le leggende marinare, dove le esagerazioni sono all’ordine del giorno, e sicuramente mai uno di questi animali si sognerebbe di attaccare lo scafo di una nave, soprattutto se di grandi dimensioni. In realtà le otto specie stimate che compongono il genere Architeuthis raggiungono al massimo i 13 metri compresi i tentacoli più lunghi utilizzati per la predazione, mentre il calamaro colossale (Mesonychoteuthis hamiltoni), il più grande invertebrato conosciuto, diffuso esclusivamente nei mari del sud, può raggiungere al massimo i 14 metri totali. Un esemplare di calamaro colossale è esposto nel museo Te Papa Tongarewa, in Nuova Zelanda, mentre alcune sue immagini si possono vedere sul sito ufficiale del museo[18].
Perché il mistero sul calamaro gigante sia durato così a lungo è presto detto: la sua elusività è dovuta alle grandi profondità a cui vive, ed è un significativo segnale di come sia importante cercare di esplorare e conoscere al meglio la biodiversità che popola i nostri oceani. Pochi esempi possono rappresentare al meglio la nostra ignoranza in fatto di vita marina quanto un gigante rimasto nascosto per oltre due millenni.

Note

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