Intervista a Vera Gheno, nuova socia onoraria del CICAP

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La grande famiglia del CICAP si è recentemente allargata con la nomina di nuovi soci onorari e consulenti scientifici. Tra i nuovi soci c’è Vera Gheno, linguista, saggista, ricercatrice e docente all'Università di Firenze, dove tiene da molti anni il laboratorio di italiano scritto per Scienze umanistiche per la comunicazione.

Dottoressa Gheno, che effetto hanno avuto sulla lingua la globalizzazione e la diffusione dei social network? Come ne deve tenere conto chi si occupa di comunicazione della scienza?
“Sicuramente ogni mezzo contribuisce a far cambiare forma alla comunicazione, come insegna Marshall McLuhan; tuttavia, non vorrei che si arrivasse a una sorta di determinismo tecnologico: i social network contengono quello che decidiamo di metterci dentro, e la forma di ciò che ci mettiamo dentro dipende dalle nostre scelte comunicative. Di certo, sia la globalizzazione sia la diffusione dei social ha reso più veloce la circolazione di ogni genere di notizia, anche linguistica. A parte questa sicura accelerazione, vedo che la nostra lingua, come le altre, fa esattamente quello che ha sempre fatto, ossia si adegua alle esigenze della sua comunità di parlanti”.

Si parla molto, non sempre in maniera ottimale, di “fake news” e “analfabetismo funzionale”. Anche se questi fenomeni non sono certo nati con internet, sicuramente la comunicazione digitale ne ha cambiato, o acuito, certe dinamiche. È d’accordo? Come si possono affrontare questi problemi senza superficialità?
“Sia l’una sia l’altra cosa esistevano già, vero. Io sono sempre dell’idea che internet, in particolare con i social, abbia contribuito a rendere più visibili delle debolezze comunicative che già esistevano nella nostra società. Poi, certo, quella maggiore velocità di circolazione delle notizie (false, distorte, messe in giro con dolo) fa sì che i loro effetti siano anch’essi amplificati. Però io non sono troppo pessimista: penso che siamo ancora giovani e inesperti utenti di nuovi mezzi di comunicazione che nessuno ci ha insegnato a usare, e proprio per questo ritengo che possiamo sempre imparare e migliorarci”.

Si è occupata dell’importanza di riconoscere il valore degli esperti, senza per questo impedire a tutti l’accesso alla discussione pubblica. Si tratta di un tema centrale per noi scettici: anche scienziati e intellettuali qualche volta dispensano opinioni poco informate in campi lontani dalle loro competenze. Com’è possibile alzare il livello del dibattito?
“Francamente, mi pare che una delle cose che dovremmo imparare a fare è tacere un po’ di più: riconoscere il limite delle proprie competenze e conoscenze e resistere alla tentazione di parlare a vanvera di questioni che non conosciamo bene. Questo vale per le persone che non sono esperte, ma anche per quelle esperte di qualcosa, che spesso si improvvisano tuttologhe. L’anno scontro mi scontrai con un virologo che diceva castronerie sulla morfologia dell’italiano… Non c’è bisogno di dire la propria su qualsiasi argomento: sometimes the greatest way of saying something is to say nothing at all, come recita una bella canzone di Justin Timberlake”.

Il CICAP ha l’ambizione di non rivolgersi soltanto alla propria “bolla”, ma a chiunque sia interessato a ragionare e discutere partendo da fatti oggettivi. Secondo lei è un’ambizione realistica? E hai dei consigli per perseguirla?
“Penso che sia un’ambizione più che realistica: ritengo, anzi, che sia un atteggiamento necessario. La differenza tra una democrazia e un’aristocrazia passa per me anche da come ci si comporta con le persone che 'sanno meno’: la seconda le abbandona a sé stesse, ritenendole un peso per la società. La prima, almeno teoricamente, dovrebbe prenderle in carico per cercare di farle uscire dal loro stato di ignoranza. Chi ha il sapere dovrebbe condividerlo, non tenerselo per sé. Per parafrasare Gramsci, non c’è cultura senza relazione. La divulgazione, per quanto mi riguarda, è un dovere civile”.
Una cosa su cui il suo lavoro è molto affine al pensiero del CICAP è l’esercizio del dubbio. Mettersi costantemente in discussione è scomodo e faticoso. Hai dei suggerimenti per praticare e diffondere sempre più questo atteggiamento? “Prima di tutto, bisogna prendersi la briga, assumersi la fatica di praticarlo in prima persona. Così si può aspirare a diventare micro-influencer di chi si ha attorno, si può fare da exemplum. Ho la sensazione che tendiamo a sottovalutare la rilevanza sociale dei comportamenti dei singoli. E invece, secondo me tutte le rivoluzioni di questo tipo devono partire dal modificare il proprio modo di pensare e di agire, agendo in questo modo, di riflesso, anche sugli altri”.

Nei primi anni della sua esistenza, il CICAP si concentrava molto sul dire “no”: no all’esistenza dei fenomeni paranormali o alle pretese delle pseudoscienze. Oggi cerchiamo, con lo stesso rigore del passato, di avere una comunicazione più positiva: “sì” allo spirito critico, alla mentalità scientifica. Da sociolinguista, pensi che questo cambiamento possa avere degli effetti positivi? Ci sono altri aspetti del linguaggio su cui ci suggerisce di fare attenzione?
“Starei ancora più attenta alla trasparenza: allo spiegare in maniera semplice, ma non banale, ogni questione che debba essere veicolata a un pubblico di non specialisti. Comunicare in maniera semplice è difficilissimo (lo diceva sempre Tullio De Mauro), ma necessario. E sì, penso che parlare di ciò che è giusto o ciò che va fatto rispetto a parlare solo di ciò che non è giusto e non va fatto è importante, perché diventa quasi angosciante pensare sempre a ciò che 'non’”.

Noi scettici cerchiamo di fare una comunicazione non violenta, ma spesso abbiamo a che fare con termini intrinsecamente aggressivi, come “pseudoscienza” o “negazionismo”. È possibile conciliare il rigore epistemologico con una comunicazione inclusiva e non violenta?
“Penso che sia umano farsi, di tanto in tanto, saltare la mosca al naso. Non so se si possa sempre conservare l’aplomb, comunicare sempre con una quieta autorevolezza anche di fronte a chi ti urla contro. In fondo, siamo esseri umani, no? Magari, si possono evitare termini aggressivi, dato che ci sono sempre delle alternative meno violente o meno connotate in maniera violenta; però se a volte scappa la parola un po’ sopra le righe, beh, ricordiamoci che errare è umano”.
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