Radici storiche e basi concettuali
La fine del XVIII secolo fu un periodo di transizione cruciale per la medicina. Le pratiche mediche erano ancora fortemente influenzate dalla tradizione galenica che dominava il campo da oltre un millennio. Questa tradizione si basava sulle teorie umorali. Si credeva che la salute fosse il risultato di un equilibrio tra quattro umori corporei: sangue, flemma, bile gialla e bile nera. Le malattie erano viste come uno squilibrio di questi umori e i trattamenti miravano a ristabilire questo equilibrio attraverso pratiche come il salasso, le purghe e l’uso di emetici. Mentre alcune nuove scoperte stavano cominciando a emergere e a consolidarsi, per esempio la scoperta della circolazione sanguigna da parte di William Harvey nel XVII secolo, le pratiche mediche erano rudimentali e nella maggior parte dei casi inefficaci: la teoria dei germi non era ancora stata formulata e le infezioni erano comuni e spesso mortali, gli anestetici e gli antibiotici erano sconosciuti e le operazioni chirurgiche erano estremamente dolorose e rischiose.
In questo contesto, il medico tedesco Samuel Hahnemann sviluppò l'omeopatia: frustrato e deluso dalle pratiche mediche convenzionali della sua epoca, cercò un approccio alternativo dolce, che tuttavia era perfettamente in linea con i principi non scientifici che ispiravano quelle pratiche.
Nel 1796, Hahnemann pubblicò la sua teoria dell’omeopatia, basata su due principi fondamentali.
- 1. Il principio di similitudine (Similia Similibus Curentur). Hahnemann credeva che una sostanza che causa sintomi simili a quelli di una malattia in una persona sana potesse curare la stessa sintomatologia in una persona malata. Questo principio si rifaceva a un’idea già presente nella medicina ippocratica e Hahnemann la mise al centro della sua pratica mirata ai sintomi. Adottando procedure che al tempo potevano ancora essere definite sperimentali, Hahnemann somministrava su sé stesso o su persone sane i diversi ceppi omeopatici e segnava su un taccuino i sintomi lamentati dopo l’assunzione. La lista dei sintomi che egli stilò con questo metodo, che gli omeopati chiamano “sperimentazione pura”, è la base su cui ancora oggi si prescrivono i prodotti sintomatici ed è il motivo per cui gli omeopati affermano che l’omeopatia sia una pratica sperimentale. Vale la pena sottolineare che queste procedure non garantiscono in alcun modo la solidità dei dati sulla relazione tra sintomi elicitati e prodotto omeopatico perché sono soggettivi e le persone si influenzano reciprocamente determinando così un effetto nocebo, cioè avvertono sintomi in risposta alla somministrazione di un prodotto inerte. Inoltre, anche assumendo che un prodotto sia la causa di un sintomo, manca ancora la plausibilità del principio generale che il simile curi il simile e la prova che quel prodotto curi quel sintomo nella persona malata.
- 2. La dinamizzazione e la diluizione. Hahnemann sosteneva che diluendo ripetutamente una sostanza in acqua o alcool e agitando vigorosamente la soluzione (processo detto “succussione”), si sarebbero potenziate le proprietà curative della sostanza stessa. Credeva anche che quanto più la sostanza fosse diluita, tanto più potente sarebbe stata la sua azione terapeutica.
Malgrado le critiche che le furono mosse sin dall’inizio, l’omeopatia sopravvisse e gli omeopati moderni continuano a seguire i medesimi principi di Hahnemann: il sintomo è espressione individuale di uno squilibrio dell’energia/forza vitale, squilibrio che impedisce l’autoguarigione; il prodotto omeopatico elicita un sintomo simile a quello lamentato dal paziente, ma di minore potenza così che la forza vitale sia in grado di superarlo e di portare, quindi, all'autoguarigione.
Nel contesto delle conoscenze di oggi, l’omeopatia e i suoi principi risultano ancor meno plausibili di allora perché generici, aleatori e contrari alle odierne leggi della fisica, della chimica, della biologia e alle conoscenze di fisiopatologia. Allo stesso modo, i profili di personalità che, secondo l’omeopatia, definirebbero gli specifici sintomi che ciascun individuo presenta in risposta a una malattia, rimangono senza alcun supporto neuropsicologico e somigliano più alle vecchie e smentite ipotesi lombrosiane (si veda il box in basso).
In questa ottica è facile capire perché la visita omeopatica, che mira a incasellare il paziente in uno dei “terreni” omeopatici allo scopo di scegliere il prodotto che mira al sintomo specifico per quella persona, non fornisca al medico omeopata alcuna valida informazione di carattere fisiopatologico, ma inneschi nella persona malata un vissuto di presa in carico personalizzato.
Le domande del professionista omeopata rassicurano e allentano l’ansia perché la persona malata si sente ascoltata; l’indulgere su aspetti personali, abitudini di vita e sintomi conferma al paziente la narrazione che la scelta della terapia sia disegnata sui suoi bisogni particolari. L’approccio empatico e la comunicazione di una medicina dolce priva di effetti collaterali facilitano le aspettative e aiutano la costruzione di un rapporto di fiducia. Poco importa se le domande mirano a definire caratteristiche psicologiche non suffragate dalla neuropsicologia e che la personalizzazione non abbia quindi alcuna plausibilità: la persona si sente finalmente compresa, il tempo della visita (45-60 minuti) diventa tempo di cura e il confronto con i tempi di visita che i medici non omeopati hanno a disposizione nel servizio sanitario nazionale è immediato e pesa a sfavore della medicina e dei medici che vengono incolpati di non ascoltare e di non capire. I dieci minuti di visita concessi ai medici non omeopati rendono impossibile instaurare un rapporto medico-paziente dignitoso.
L’incompatibilità dei paradigmi omeopatici con le diverse branche della scienza è sempre stata sottolineata, e ancora lo è, dai praticanti l’omeopatia, i quali hanno dapprima aggettivato la disciplina come “alternativa” alla medicina. Con il passare del tempo e in assenza di alcuna validazione rispetto alle conoscenze che man mano il metodo scientifico offriva, le cosiddette medicine alternative hanno proposto il loro uso come pratiche “complementari” alla medicina e, a partire dalla fine del secolo scorso, il concetto è stato rinforzato adottando la dicitura “medicina integrativa”, rinnegando quindi la possibilità che si tratti di un metodo di prevenzione o di cura a sé stante: un po’ come se una stampella senza le caratteristiche minime per sostenere alcunché venisse proposta come supporto aggiuntivo a una stampella funzionante e, quindi, appropriata.
L’omeopatia come campo nullo
Nonostante l’uso complementare/integrato, le evidenze hanno continuato a negare l’utilità delle pratiche omeopatiche. Ecco quindi che alcuni autori hanno proposto di considerare l’omeopatia come esempio di null field, o campo nullo, vale a dire come un controllo negativo i cui effetti riflettono esclusivamente la magnitudine dei bias presenti in una ricerca clinica, dato che non possono essere attribuiti a una sostanza: sia perché la sostanza non c’è, ma anche perché, come detto, il meccanismo d’azione reclamato si basa su principi in contrasto con la chimica, la fisica e la biologia[1].
Utilizzare l’omeopatia come controllo negativo nelle sperimentazioni cliniche offre vantaggi rispetto al placebo, in quanto il campo nullo include in sé anche gli effetti cumulativi dei molti bias inevitabili legati a variabili qualitative intrinseche alla sperimentazione. L’adozione del campo nullo offre quindi migliore garanzia di evitare i falsi risultati positivi.
Ecco alcuni dei bias che affliggono le sperimentazioni e che sono ricompresi nel campo nullo:
- A. Effetto placebo. Si riferisce ai miglioramenti clinici che non sono attribuibili all’efficacia intrinseca di un trattamento, ma piuttosto alla percezione o aspettativa del paziente di ricevere un beneficio. Le aspettative positive sono inoltre aumentate dalla presenza di rituali adottati durante la visita e dalla prescrizione ritualizzata dell’assunzione di un determinato prodotto[2].
- B. Bias di pubblicazione. Esiste una tendenza a pubblicare risultati considerati positivi invece di risultati considerati negativi, il che può distorcere la percezione e la stima dell’efficacia nella letteratura.
- C. Errori metodologici. Il multiple testing bias si verifica quando vengono effettuati numerosi test statistici per informare una stessa conclusione (per esempio, l’efficacia del farmaco) senza un’attenta disamina del contesto e dello scopo scientifico. Ogni test statistico ha una probabilità generalmente ignota di produrre un risultato falso positivo (errore di tipo I); tuttavia, più test vengono eseguiti, più aumenta la probabilità complessiva di ottenere per caso almeno un risultato considerato significativo. Pertanto, quando si esplorano possibili associazioni statistiche in assenza di meccanismi causali noti in campo medico, alla luce dei potenziali rischi per i pazienti e dei costi per la sanità pubblica, sono essenziali opportuni aggiustamenti per la multi-comparazione.
- D. Errori nel bilanciamento dei gruppi. In molti studi sull’omeopatia si confrontano gruppi non omogenei per trattamento, vale a dire che il gruppo di soggetti a cui viene somministrato il placebo manca della componente di consulenza e visita offerta invece ai soggetti del gruppo trattato omeopaticamente. Abbiamo quindi un confronto tra persone che assumono terapia standard, consulenza medica omeopatica e prodotti omeopatici e persone che sono lasciate con la sola terapia standard senza che possano beneficiare di un ulteriore colloquio con un sanitario. Gli studi di neurofisiologia hanno da tempo dimostrato che il colloquio tra medico e paziente è in grado di elicitare una forte risposta positiva che porta il paziente a “stare meglio”.
Inoltre, va sempre tenuto presente che la statistica di per sé non ha il potere di conferire legittimità di efficacia a trattamenti al di là o al di sopra di altre considerazioni cliniche, di laboratorio o di plausibilità scientifica.
Omeopatia, placebo e influenza sociale
Alla ricerca di un utilizzo accettabile dell’omeopatia, un’alternativa al campo nullo che sta venendo avanzata sempre più di frequente è quella di considerare lo stile della consultazione omeopatica come un approccio psicologico paragonabile alla psicoterapia[3]. Questa prospettiva nasce dal presupposto che sia solo la parte consulenziale dell’approccio omeopatico a poter elicitare una efficacia clinica, mentre il rimedio omeopatico viene considerato come placebo con effetti aspecifici.
Che la risposta al placebo sia onnipresente in campo clinico lo sostiene una vasta letteratura che conferma la sua efficacia anche quando i pazienti sono consapevoli di aver assunto una sostanza inerte, così come è confermata una risposta placebica particolarmente buona in alcune patologie quali la sindrome dell’intestino irritabile, la depressione, le sindromi dolorose, i dolori lombari, l’osteoartrite, l’ipertensione, l'insonnia, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), la rinite allergica, i sintomi delle vie urinarie, la sindrome delle gambe senza riposo, la fibromialgia, la nausea, la sindrome della bocca urente e il prurito indotto[4].
Ciò detto, vari autori hanno proposto di accettare l’approccio omeopatico come una terapia psicologica che i medici, anche non omeopatici, potrebbero adottare con le persone che credono alla pratica allo scopo di non farle allontanare dalla medicina mettendo a rischio la propria salute. Questo atteggiamento implica che sia eticamente accettabile sia mentire al paziente sulla plausibilità-efficacia di una pratica, sia esporre le persone malate alla narrazione di ipotesi non solo prive di validità scientifica, ma anche contrastanti con le conoscenze della medicina.
Partendo da considerazioni simili, cioè che l’omeopatia abbia un indice di gradimento non trascurabile e che si debba evitare che le persone malate si affidino a praticanti senza adeguate conoscenze mediche, nel 2002 la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) ha stabilito che solo i medici possono esercitare la pratica dell’omeopatia. Da quel momento, i medici che desiderano applicarla sono sottoposti al codice deontologico della categoria e possono adottare tecniche non convenzionali sotto la loro diretta responsabilità, con il dovere di non sottrarre le persone malate alle terapie mediche efficaci.
Nonostante lo scopo sia meritorio, bisogna però sempre ricordare che la letteratura sottolinea che l’adesione alle discipline alternative comporta un rischio per la salute, un ritardo diagnostico spesso non recuperabile e una fidelizzazione a una narrazione che si contrappone alla medicina non solo quando si parla di patologie di minor impatto sul benessere delle persone, ma anche nel caso di patologie in cui la prontezza d’intervento, la fiducia reciproca tra paziente e medico e la scrupolosa adesione alle terapie fanno la differenza tra la vita e la morte[5].
Oltre a ciò, va sottolineato anche quanto l’influenza sociale («si dice in giro», «me lo ha detto il mio vicino», «l’ho letto sul giornale», «lo passa la mutua») possa avere un impatto sulle nostre percezioni di benessere.
In questo senso, è di grande interesse uno studio, che ha indagato in che modo le aspettative e le convinzioni sociali possano modulare le risposte fisiologiche e psicologiche al consumo di un prodotto placebico[6].
Gli autori hanno inventato un prodotto con un nome evocativo, AquaCharge Energy Water, presentandolo a un gruppo di soggetti come un prodotto a base di acqua addizionata con 200 milligrammi di caffeina quando in realtà si trattava di semplice acqua di sorgente. I partecipanti allo studio hanno mostrato di sentirsi più “attivati” sia rispetto a parametri soggettivi sia a parametri oggettivi (pressione arteriosa e frequenza cardiaca), quando consumavano il prodotto in condizione di conferma sociale rispetto a una condizione di disconferma sociale oppure di assenza di influenza sociale (le tre condizioni venivano provocate accogliendo i soggetti in una stanza dove un falso partecipante, in realtà uno degli sperimentatori, esprimeva approvazione o disapprovazione verso il prodotto, oppure in una stanza dove non c’era nessuno).
I risultati dello studio evidenziano come l’influenza sociale possa facilitare le risposte fisiologiche e psicologiche a un prodotto placebo, sottolineando quindi, in linea con le conoscenze neurofisiologiche degli effetti placebo e nocebo, l’importanza delle convinzioni e delle aspettative, e indicando quanto il contesto sociale influenzi le nostre convinzioni. Gli approfondimenti futuri dovranno concentrarsi sulle implicazioni etiche del marketing basato sull’influenza delle aspettative e sulla modulazione dell'esperienza del consumatore tramite fattori psicosociali e la divulgazione di effetti “magici” da parte di semplici cittadini, medici, politici o influencer.
In questa ottica, anche le campagne informative che mirano a sottolineare l’elevato numero di persone che usano l’omeopatia acquistano un nuovo significato. Se da un lato ognuno di noi pensa di essere impermeabile alle campagne pubblicitarie, la letteratura scientifica conferma che siamo invece molto influenzabili, soprattutto se chi formalizza il messaggio da veicolare conosce i meccanismi neuropsicologici. Inoltre, se a mente fredda ognuno di noi concorda che la verità scientifica non si stabilisce per alzata di mano, è anche vero che ognuno di noi, quando diventa paziente, si trova in una posizione delicata ed è facile preda di messaggi allettanti veicolati con parole suadenti, ma non aderenti alle conoscenze.
Conclusioni
La consultazione omeopatica è mirata alla raccolta di informazioni per raggiungere una diagnosi omeopatica secondo principi non plausibili che vengono narrati ai pazienti; la diagnosi si traduce quindi nella prescrizione di prodotti omeopatici poiché l’omeopatia non dispone di altri trattamenti. Di conseguenza, come hanno scritto alcuni autori in risposta all’ipotesi di considerare l’omeopatia come una forma di psicoterapia, «non si può escludere la possibilità che offrire semplicemente più tempo e attenzione a un paziente possa essere utile per alcuni tipi di sintomi. Tuttavia, ciò si applica a qualsiasi tempo e attenzione e non ha nulla a che fare con il rimedio omeopatico o persino con la (inspiegabile) competenza rivendicata dagli omeopati»[7].
Inoltre, se l’efficacia clinica fosse dovuta alla durata e alla qualità della visita, allora sarebbe meglio che la ricerca si rivolgesse allo studio del miglioramento delle componenti di consulenza e ascolto nel rapporto tra medico e paziente, ma non ai rimedi omeopatici: questo sarebbe un approccio chiaro e onesto che metterebbe fine alla disinformazione.
In conclusione, sebbene i confini tra psicoterapia e il semplice – ma fondamentale – colloquio tra medico e paziente possano sembrare sfumati, tra di essi vi è una chiara demarcazione: la formazione specifica pluriennale e la consapevolezza dei propri vissuti che deve necessariamente avere il professionista specializzato se intende condurre una psicoterapia. Senza questi due presupposti, si sta instaurando al più un rapporto umano di reciproco rispetto tra persone; quando invece una di esse si propone come psicoterapeuta senza avere né la formazione necessaria e nemmeno le capacità, allora la persona assistita rischia di rimanere ingabbiata in una narrazione che la allontana dal pensiero critico, dalla medicina e dai medici, limitando la sua possibilità di effettuare una scelta consapevole e informata.
Infine, sopra a tutte le considerazioni di natura scientifica, rimane un problema squisitamente etico[8]: è legittimo mentire a una persona che soffre al fine di indurla a credere in narrazioni antiscientifiche e in un potere terapeutico esplicato da un costoso placebo?
L’autrice ringrazia Alessandro Rovetta per la revisione della parte sui bias statistici
Note
1. Carbonico
- a. Caratteristiche fisiche: hanno spesso corporatura robusta, con tendenza al sovrappeso e al rallentamento metabolico.
- b. Caratteristiche psicologiche: spesso sono persone calme, pazienti, e possono mostrare una certa lentezza nelle risposte; hanno una personalità stabile ma possono essere inclini alla depressione.
2. Fosforico
- a. Caratteristiche fisiche: corporatura longilinea, alta e magra, con tendenza alla fragilità fisica e alla debolezza.
- b. Caratteristiche psicologiche: persone vivaci, emotive e sensibili, ma che possono esaurirsi facilmente e soffrire di ansia o instabilità emotiva.
3. Sulfurico
- a. Caratteristiche fisiche: spesso hanno una costituzione media con tendenza a problemi di pelle come eruzioni cutanee, eccesso di calore corporeo e sudorazione.
- b. Caratteristiche psicologiche: energetici, creativi e a volte irritabili; possono essere disordinati e trascurati nella cura personale.
4. Muriatico
- a. Caratteristiche fisiche: tendono ad avere una struttura corporea equilibrata, ma possono soffrire di problemi digestivi e disturbi del sistema nervoso.
- b. Caratteristiche psicologiche: personalità emotivamente instabili, con tendenze a sbalzi d'umore e reazioni intense agli stress.
Due sono i presupposti sostanziali che caratterizzano la psicoterapia:
- 1. La presa di coscienza della persona malata di avere un disagio psicologico, coscienza che motiva la richiesta di aiuto: senza di essa, ogni lavoro psicoterapeutico è impossibile perché sarebbe impossibile lavorare su contenuti psichici disconosciuti dal paziente. Qualsiasi tipo di azione psichica di una persona su un’altra, come le interazioni psicosociali, l’assistenza e il supporto psicologico, quando è rivolta a individui che non si considerano malati e non chiedono aiuto per tale motivo, si svolge al di fuori dell’ambito della psicoterapia.
- 2. Formazione specifica del terapeuta che, oltre a conoscere e padroneggiare una tecnica appropriata, deve conoscere le proprie dinamiche intrapsichiche per evitare di esporre il paziente alle proprie questioni non risolte.
| PSICOTERAPIA | RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|