Linee di Nazca scoperte dall’intelligenza artificiale? Non proprio...

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  • 23-04-2020
  • di Roberto Labanti
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©Diego Delso Wikimedia.org
Cavallo di battaglia della paleoastronautica già negli anni ‘50 del secolo scorso, quando la teoria degli antichi astronauti non erano ancora stata codificata nei libri degli autori oggi ritenuti classici come Kolosimo, Charroux, Von Daniken[1], le linee di Nazca (o Nasca) sono recentemente tornate a fare parlare di sé, grazie ad una collaborazione tra un’università giapponese e una grande azienda informatica statunitense. Attraverso un comunicato stampa in lingua inglese e una serie di slides in giapponese pubblicati sul sito dell’Università di Yamagata, nel nord-est del Giappone, il 15 novembre[2] (seguiti qualche giorno dopo da un blog post sul sito del colosso dell’informatica statunitense International Business Machines Corporation[3]), l’Università e IBM annunciavano al mondo che 143 nuovi geoglifi (letteralmente, “disegni sul terreno”) erano stati scoperti dal gruppo di ricerca dell’antropologo culturale Masato Sakai nella pampa (le locali pianure) di Nazca e nell’area circostante e che gli studiosi avevano esteso l’uso dell’intelligenza artificiale (AI, artificial intelligence) sviluppata da IBM con l’intenzione di comprendere le linee di Nazca come un insieme.

Il messaggio che invece è passato attraverso i mass media, che i geoglifi fossero stati scoperti grazie all’AI, è quindi frutto di un equivoco. Per capire perché è necessario fare qualche passo indietro.

Le linee e i geoglifi di Nazca e di Palpa, dal 1994 sito patrimonio dell’umanità dell’UNESCO[4], sono delle raffigurazioni di piccola o grande dimensione che si rinvengono disegnate sul terreno delle pampas della regione sud-peruviana di Ica, fra le Ande e l’Oceano Pacifico: si va da semplici linee a rappresentazioni più complesse, geometriche, di animali (come colibrì o condor) o di piante. Menzionati per la prima volta in Europa dal conquistador e cronachista spagnolo Pedro Cieza de León (c. 1520-1554), che nella sua Crónica del Perú apparsa a Siviglia nel 1553[5] che li riteneva segni utili a indicare il percorso, sono oggetto di ricerca scientifica a partire dagli anni 1930. Sono ritenuti prodotto di quella che gli archeologi definiscono cultura di Nazca, che si sviluppò intorno al centro sacro di Cahuaci fra il c. 100 a.e.v. e l’800 e.v. La loro funzione è ancora oggetto di discussione, anche se è probabile quella rituale.

Negli ultimi decenni, anche a fine conservativo, parte delle ricerche si sono concentrate sull’individuazione di nuove raffigurazioni attraverso foto o altri tipi di dati acquisiti da aerei, satelliti, droni etc. È il caso, ad esempio, delle oltre cinquanta nuove figure che nel dicembre 2017 archeologi peruviani hanno individuato grazie ad immagini riprese da aeromobili a pilotaggio remoto, attribuibili in parte alla cultura Nazca, ma anche alle precedenti culture di Paracas e Topará[6].

Il gruppo di Sakai è attivo in questa particolare linea di ricerca dal 2004 e, nel corso degli anni, fra il 2006 e il 2016, ha spesso annunciato la scoperta di nuovi disegni. Il comunicato stampa di novembre è stata l’occasione per annunciare che fra il 2016 e il 2018 i ricercatori giapponesi avevano individuato ulteriori 142 geoglifi attraverso immagini ad alta risoluzione della pampa ottenute attraverso la metodologia LIDAR, cioè telerilevamento laser dall’alto, e successiva conferma sul terreno. Secondo gli studiosi, i geoglifi che ritengono di avere scoperto rappresentano persone e diversi animali (uccelli, scimmie, pesci etc.), anche se, in effetti, aggiungiamo noi, nelle immagini di alcuni di questi presentate nelle slides è a volte difficile “riconoscere” la figura. La verifica sul campo è quindi necessaria per avvalorare l’esistenza di un artefatto, quale che sia la cosa che si intendeva raffigurare. Sakai e colleghi hanno diviso i geoglifi in due tipi, A e B. Quelli ritenuti più antichi (100 a.e.v.-100 e.v., se non prima) sarebbero quelli di tipo B: spesso di dimensioni inferiori a 50 metri, sono stati realizzati rimuovendo le pietre nere che coprono il suolo in modo che il corpo della figura fosse formato, a tinta unita, dalla sabbia bianca sottostante. Quelli classificati di tipo A sono invece datati ad un periodo successivo, tra i 100 e i 300 e.v. Di dimensioni solitamente più ampie (oltre 50 metri), presentano una diversa tecnica costruttiva: qui la sabbia è esposta solo per le linee dei bordi e dei dettagli interni.

Echeggiando Cieza de León, Sakai e colleghi ritengono che i geoglifi di tipo B, che si trovano a fianco di possibili percorsi o su pendenze inclinate, siano una sorta di segnali da utilizzare durante gli spostamenti. Quelle di tipo A, invece, a forma di animale, mostrerebbero tracce di atti rituali che prevedevano la distruzione di vasi di ceramica.

Ma allora cosa c’entra l’intelligenza artificiale?

Analizzare con metodologie tradizionali immagini aeree o satellitari, oppure dati prodotti da altre forme di telerilevamento è un lavoro lungo e complesso, in cui, oltre a “falsi positivi” come le pareidolie, sono possibili “falsi negativi”: questo accade quando, a causa del “rumore” delle immagini, come strade o altri artefatti sul terreno, naturali o artificiali, il geoglifo - pur essendo presente - non viene identificato.

Fra il 2018 e il 2019, Sakai e collaboratori hanno quindi deciso di esplorare le potenzialità dell’AI: in collaborazione con la sede nipponica dell’IBM hanno utilizzato un componente del sistema di intelligenza artificiale commerciale sviluppato dalla software house statunitense, il Watson Machine Learning Accelerator (WMLA) per analizzare velocemente immagini aeree, dopo avergli insegnato come identificare i geoglifi, attraverso quello che è chiamato “apprendimento profondo” (deep learning). Nelle immagini che gli sono state sottoposte, Watson ha evidenziato diverse possibili raffigurazioni di esseri viventi che non erano state precedentemente “viste” (è il caso però di specificare che anche un algoritmo può essere vittima di pareidolie). Una di queste presunte figure, ritenuta più plausibile, è stata verificata sul terreno dagli studiosi giapponesi, che ne avrebbero confermato l’esistenza: sembra essere una figura umanoide su due piedi, di piccole dimensioni (quattro per due metri circa); un tipo B della precedente classificazione.

È il primo, e per ora unico, esempio di un possibile geoglifo di Nazca scoperto attraverso l’intelligenza artificiale. Un risultato limitato ma significativo, in grado di confermare le potenzialità di questa nuova metodologia di analisi e un colpo grosso a livello di marketing. I ricercatori di IBM e quelli dell’Università di Yamagata hanno ora deciso di utilizzare un diverso prodotto, PARIS, sviluppato per l’analisi geospaziale di set di dati di grandi dimensioni e complessità, per uno studio approfondito sulla distribuzione delle figure che potrebbe, in prospettiva, aiutarci a comprenderle e proteggerle meglio. Speriamo però che, quando saranno eventualmente annunciati nuovi frutti di questa collaborazione, non ci siano equivoci e conseguenti esagerazioni da parte dei mass media. Come invece, stavolta, è purtroppo accaduto.

Si ringrazia Agnese Picco per aver letto una precedente versione di questo articolo.

Note

1) Ciardi, M. 2017. Il mistero degli antichi astronauti. Carocci, Roma.
5) Cieza de de León, P. 1553. Parte primera de la Crónica del Perú [...]. Impressa en Seuilla : en casa de Martin de Montesdoca, f. 91v, disponibile all’url https://bit.ly/2IUFSw5 .
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