Filologia del Graal

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  • 31-01-2021
  • di Daniele Stona
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Apparizione del Sacro Graal tra i Cavalieri della Tavola Rotonda. ©Wikipedia
Negli ultimi decenni del secolo XII, nella letteratura occidentale, fece la sua prima apparizione un oggetto assai misterioso, destinato a suscitare nell’immaginario collettivo uno straordinario interesse che dura da ben otto secoli, diventando il simbolo di alti ideali e di profonde esperienze religiose.

Questo oggetto, descritto per la prima volta dallo scrittore francese Chrétien de Troyes, prende il nome di Graal.

Sul Graal sono state scritte migliaia e migliaia di pagine e sono state formulate le ipotesi più controverse, ma ancora oggi il Graal rimane qualcosa di inafferrabile che continua a stimolare la fantasia di scrittori, studiosi ed appassionati. Molti di questi hanno legato il mito del Graal a pratiche esoteriche e a concezioni gnostiche della religione cristiana, come ad esempio l’esistenza di una stirpe reale discendente da Gesù (questa è il risultato di un’interpretazione paraetimologica che trasforma san gréal in sang réal). C’è chi identifica il Graal con la coppa che raccolse il sangue di Gesù Cristo o con il piatto dell’Ultima Cena, chi con la Sindone di Torino o l’Arca dell’Alleanza. Altri ancora lo identificano con la Pietra Filosofale o il tesoro dei Templari. Alcuni addirittura affermano di saper indicare il luogo esatto in cui si trova il Graal, ovviamente nei luoghi più disparati del pianeta, dalla Francia alla Gran Bretagna, dalla Terra Santa all’America.

Molti di questi studiosi, per avvalorare le loro ipotesi, scavano nella storia senza però tener debitamente conto dei romanzi che nel giro di mezzo secolo, dalla fine del secolo XII agli inizi del XIII, per primi fondarono il mito.

Quando pensiamo al Graal, di solito, lo identifichiamo subito con il calice dell’Ultima Cena nel quale è raccolto il sangue di Gesù Cristo, ma non sempre è stato così. La figura del Graal ha avuto un’evoluzione che, se vista all’interno di studi meramente letterari, linguistici e filologici, trova una sua spiegazione portando la maggior parte delle teorie nate negli ultimi anni a sciogliersi come neve al sole.

Il punto da cui parte la linea evolutiva del Graal e che ne fece la fortuna fu un romanzo rimasto incompiuto: il Perceval o Le Conte du Graal di Chrétien de Troyes, un poema composto da 10600 ottonari, probabilmente scritto tra il 1181 e il 1190. Il romanzo, a detta dell’autore, è ispirato da un livre sulla storia del Graal donatogli da Filippo d’Alsazia, dedicatario dell’opera e narra due storie parallele: le avventure di Perceval da una parte e le avventure di Galvano dall’altra, anche se il vero protagonista rimane ovviamente Perceval.

La brusca interruzione del Conte du Graal è all’origine dell’iniziativa, portata avanti da più autori, di riprendere il filo del racconto e concludere la storia che Chrétien aveva lasciato in sospeso. Nella maggior parte dei casi i testi “satellite”, in tutto quattro Continuazioni, si presentano come apocrifi, aggiunte al romanzo di Chrétien de Troyes e che si pretendono opera della sua stessa mano. Solo due Continuazioni (la III e la IV) sono firmate dai loro autori, e solo la IV di Gerbert de Montreuil chiama in causa, per giustificarsi, l’incompiutezza del Conte du Graal, imputata alla morte di Chrétien.

I testi che ruotano attorno al romanzo del Nostro si propongono di dire quello che il Conte du Graal non dice, e di riportare all’ortodossia cristiana aspetti che sembrano sfuggire alla sua giurisdizione, com’è evidente, oltre che nelle quattro Continuazioni, nei due Prologhi apocrifi noti come Elucidation e Bliocadran: opere non di molto successive all’interruzione del romanzo di Chrétien de Troyes.

La cosiddetta Elucidation risale all’inizio del XIII secolo e riporta la tematica del Graal a una matrice più celtica. Il Bliocadran la segue di poco e ancora più antiche e prossime alla stesura del Conte du Graal sono alcune delle Continuazioni: la I, nella sua redazione breve, è addirittura anteriore al 1200; la II si colloca tra il 1205 e il 1210; la III e la redazione lunga della I più avanti, certamente dopo la Queste du Graal[1].

Molte sono le domande che gli studiosi si pongono attorno al Perceval e soprattutto sul Graal e dal tentativo di risposta a queste domande sono nate molte ipotesi, le quali, per quanto alcune ben congegnate, sono ben lontane dall’essere verificabili con una certa sicurezza e anzi hanno fatto crescere ulteriormente l’interesse attorno a questo mistero.

Innanzitutto, per poter comprendere bene il nostro romanzo dobbiamo dimenticarci del successo che ha avuto e delle sue successive evoluzioni, evitando così di caricarlo di significati che sono propri solamente delle opere posteriori e che da questo traggono spunto.

Il Conte du Graal, spogliato così di tutte le sue aspettative, si presenta come un romanzo di “formazione”, se non addirittura “iniziatico”: come spiega ampiamente Alexandre Micha[2] in esso viene narrata la genesi del cavaliere e la sua formazione attraverso tre vie fondamentali per diventare un cavaliere perfetto: la via delle armi, la via dell’amore e la via della religione.

Questa probabilmente era l’idea di base del romanzo di Chrétien, il quale prende appunto come eroe un adolescente selvaggio che non sa cosa sia un cavaliere o come si corteggi una donna o che cosa sia una chiesa.

Perceval, nonostante sia supportato dai consigli della madre e di Gornemant, si rivela inizialmente ingenuo e sciocco, tanto da fraintendere gli insegnamenti ricevuti, come, ad esempio, nell’episodio della Damigella nella Tenda: sebbene spinto da buone intenzioni, si comporta come un brigante, travisando appunto i consigli della madre. Perceval infatti entra nella tenda pensando che si tratti di una chiesa, per pregare; trova la fanciulla, la bacia seguendo delle “regole cortesi” tutte sue e le ruba l’anello, credendolo un pegno d’amore; infine gozzoviglia con il cibo che trova nella tenda, come se avesse ricevuto ospitalità e abbandona la fanciulla in lacrime in balia delle ire del suo amico.

Dopo aver calpestato le regole dell'amore cortese, Perceval fa scempio anche delle regole della cavalleria: quando il nostro sciocco eroe giunge alla corte di Artù, entra nella sala a cavallo, contro ogni etichetta, e arriva tanto vicino al re con il suo cavallo da far cadere il cappello dalla testa del sovrano. In seguito uccide il Cavaliere Rosso in un duello che non si può certo definire regolamentare e procede alla sua auto-investitura spogliando il cadavere delle armi di cui si era profondamente invaghito.

La figura di Perceval comincia a sgrezzarsi dopo l’incontro con Gornemant, in quanto rappresenta il culmine della sua formazione di uomo di corte e quindi il primo stadio della sua formazione come cavaliere.

Il secondo stadio, che consiste nel diventare un perfetto amante cortese, lo raggiungerà nell’episodio di Blancheflor, nel quale l’eroe, vergine e all’oscuro dei piaceri amorosi, si innamorerà della giovane pulzella.

A questo punto Perceval è già sulla buona strada, in quanto ha assimilato le qualità di prode combattente e perfetto amante, che in lui si completano e si danno vigore vicendevolmente; tanto è vero che, quando Perceval scorge le macchie di sangue sulla neve fuori dall’accampamento di re Artù, riesce a sconfiggere cavalieri del calibro di Sagremor e Keu, in virtù del fatto che quelle macchie di sangue gli ricordano la sua amata.

La sua formazione religiosa comincia al termine delle due appena enunciate; certo i consigli della madre e di Gornemant contemplano anche la sfera della fede cristiana, ma trattano per lo più di pratiche esteriori come fermarsi a pregare in chiesa; in questo campo il nostro eroe viene tratteggiato dall’autore come un ignorante e superficiale, egli è infatti un perfetto cavaliere terreno, ma è ben lontano dalla cavalleria celeste.

Questo può essere visto come motivo del fallimento al Castello del Graal, in quanto Perceval è ancora privo di quel perfezionamento interiore necessario a portare a termine la sua Ricerca.

Il cambiamento avverrà però dopo aver errato, privo di fede, per più di cinque anni, in quel famoso Venerdì Santo nel quale incontra lo zio eremita che lo istruisce sul Graal e sulla fede e dal quale riceve la sua Prima Comunione, che lo rinfrancherà dai peccati commessi, primo su tutti l’abbandono della madre morente.

Purtroppo non ci è dato sapere in quali termini si possa concludere la sua formazione religiosa, ma tutto sommato possiamo delineare uno schema preciso delle intenzioni di Chrétien de Troyes per questo romanzo: egli infatti stabilisce una certa gerarchia nell’ordine degli apprendimenti con una stretta dipendenza l’uno dall’altro.

In primo luogo abbiamo la formazione delle armi, la più semplice ed immediata, poi abbiamo la formazione amorosa, la quale non sarebbe possibile se non attraverso il valore conseguito con imprese cavalleresche, mentre la terza, quella spirituale, è possibile solamente grazie a un cuore puro, mondato dall’amore.

Allo stesso modo, dunque, dimenticandoci delle successive evoluzioni della leggenda, dovremo studiare l’episodio fondamentale del racconto, il corteo del Graal, e leggere il passo per quello che è.

Innanzitutto Chrétien de Troyes ci mostra il corteo attraverso gli occhi di Perceval ed è per questa ragione che suscita notevole interesse negli studiosi che hanno dedicato centinaia di pagine all’argomento: Chrétien non spiega nulla di ciò che il protagonista vede, facendo apparire misterioso il corteo tanto a Perceval quanto al lettore.

Se leggiamo la scena nell’ottica dell’economia complessiva del romanzo, questa apparirà come una tappa fondamentale per l’evoluzione del personaggio, senza dover forzatamente ricercare spiegazioni esoteriche.

Infatti qui l’autore vuole mostrarci quanto facilmente un giovane sciocco possa fraintendere dei giusti consigli, come quando Perceval scambia il consiglio di Gornemant di non essere curioso con il divieto assoluto di porre qualsiasi domanda; è quindi necessaria una scena nella quale vengono poste quelle domande che il protagonista non osa formulare. Quanto più sarà misteriosa la scena, tanto più sarà evidente al lettore il fraintendimento dei consigli di Gornemant.

È dalla descrizione stessa del Graal e dalle spiegazioni date dallo zio eremita che gli studiosi hanno tratto le più svariate elucubrazioni. Innanzitutto il Graal non è un calice, come siamo abituati ad immaginare, bensì un piatto tanto grande che la fanciulla è costretta a portarlo con entrambe le mani, esso irradia una luce fortissima, è fatto d’oro e arricchito con le pietre più preziose mai viste. Esso non contiene “lucci, lamprede o salmoni” ma un’unica Ostia, della quale si alimenta il padre del Re Pescatore, e per questo motivo viene definita una tante sainte chose, una “cosa molto santa”.

Quest’ultima affermazione porta sì il Graal di Chrétien all’interno dell’orbita cristiana, ma è ancora improbabile che lo si possa identificare con la Reliquia della Passione di Cristo o con qualcosa legato alla liturgia, come è fuorviante accostare la Lancia sanguinante con la Lancia di Longino, in quanto l’autore ci dice che essa devasterà il regno di Logres e, probabilmente, va associata all’infermità del Re Pescatore.

Tanto è vero che ci si domanda perché un oggetto tanto santo quanto il Graal che contiene un’Ostia sia portato da una fanciulla, quando all’epoca le donne erano escluse dalle celebrazioni liturgiche. Ci troviamo dunque di fronte ad un Graal ancora non pienamente cristianizzato.

Come spiega Francesco Zambon, il corteo presentato da Chrétien mantiene ancora numerosi spunti di derivazione celtica; infatti “l’intero episodio della visita di Perceval al castello del Re Pescatore svela il suo significato profondo se lo si accosta ai racconti irlandesi noti con il nome di echtra, 'avventura', e in particolare a quello intitolato Estasi profetica del fantasma (anteriore al 1056). Esso narra come il re Conn, guidato da un cavaliere incontrato nella nebbia, giunga nella dimora del dio Lug, che gli appare seduto in trono e che gli rivelerà la durata del suo regno e di quello dei suoi successori. Accanto a Lug si trova una bella giovane, la Sovranità d’Irlanda, che dopo aver servito a Conn enormi porzioni di bue e di cinghiale, giunta alla distribuzione delle bevande, chiede: «A chi devo dare la coppa?». E il dio risponde: «A Conn». Dopodiché Lug e la sua dimora scompaiono, lasciando però il re in possesso della coppa e di altri oggetti sacri.”[3]

Sono evidenti dunque i tratti in comune con questa consacrazione regale, alla quale Perceval non doveva sfuggire con ogni probabilità, visto anche come si conclude la maggior parte delle continuazioni e delle opere dei successori di Chrétien.

È stato appurato, inoltre, che tutta la “materia bretone” affonda le proprie radici nelle leggende celtiche e l’opera di Chrétien non è esente da ciò; possiamo trovare paralleli tra il Re Pescatore e divinità celtiche come Bran e Nùadu che custodiscono nelle loro mitiche dimore oggetti magici come spade o calderoni dell’abbondanza, i quali possono subire ferite che portano alla devastazione i loro regni.

Un’altra vicinanza con la mitologia celtica la troviamo nel Peredur, un racconto contenuto nel Mabinogion gallese dei primi del XIII secolo. Questo racconto, di poco posteriore all’opera di Chrétien, presenta a grandi linee la stessa storia narrata nel Conte du Graal, ma totalmente legata alla mitologia celtica. Infatti abbiamo molti episodi in comune, come quello delle macchie di sangue sulla neve, e abbiamo anche qui una sorta di “corteo del Graal” con la lancia e un piatto nel quale giace una testa mozzata. Qui l’eroe è chiamato a vendicare questa morte.

Queste somiglianze tra i due racconti hanno fatto nascere in alcuni studiosi l’idea che entrambi gli autori si siano rifatti a una fonte comune. Questa fonte, forse una leggenda bretone, è stata resa più vicina ai gusti del ceto aristocratico da parte di Chrétien de Troyes, mentre il Peredur sarebbe rimasto più vicino all’originale.

Il romanzo di Chrétien de Troyes introduce una sistematica opera di cristianizzazione di queste leggende celtiche, la quale però si trova ancora in una fase embrionale rispetto alle successive opere sul Graal.

Dunque il Graal di Chrétien è sì un oggetto magico d’ispirazione celtica ma è diventato una “cosa molto santa” che contiene un’Ostia ed è quindi inseribile nel contesto cristiano, tuttavia non è considerabile ancora una reliquia di Cristo, bensì, molto probabilmente, un “premio” per il raggiungimento del terzo stadio della formazione dell’eroe in qualità di cavaliere e cioè la sua formazione religiosa.

Sarà solamente con il Joseph d’Arimathie di Robert de Boron, scritto tra il 1191 e la fine del secolo, che il Graal diventerà il calice (veissel) contenente il sangue di Gesù Cristo. Il romanzo è l’unica opera di Robert de Boron che ci sia pervenuta praticamente completa e doveva essere la prima parte di una trilogia di romanzi sul Graal, ma di questa, appunto, sono rimasti solamente il Joseph e un frammento del Merlin, mentre il terzo capitolo, il Perceval, è andato perduto, fatta salva una versione in prosa molto più tarda e quasi sicuramente opera di un altro autore.

La trama del Joseph d’Arimathie non è altro che il frutto di una connessione fra leggende narrate in alcuni apocrifi tardoantichi e medievali relativi alla figura di Giuseppe di Arimatea e il tema del Graal appena proposto da Chrétien de Troyes.

Il romanzo parla, per così dire, della “preistoria del Graal”, infatti è l’unico romanzo graaliano che non si svolge nell’Inghilterra al tempo di Re Artù, bensì nella Palestina del I secolo d.C. e narra le vicende di Giuseppe d’Arimatea, al quale viene consegnato il vaso usato da Gesù nell’Ultima Cena e contenente il Suo sangue, costruendo così la leggenda del Graal che tutti noi conosciamo.

A unire per prima le vicende del Perceval di Chrétien de Troyes con quelle del Joseph d’Arimathie di Robert de Boron, fu un’opera di poco posteriore a quest’ultima e scritta da un Anonimo. Quest’opera è il Perlesvaus.

Tra i testi graaliani il Perlesvaus è forse il più sorprendente per la commistione di tematiche cristiane con elementi appartenenti a un mondo pagano di una brutalità e una efferatezza inaudite, fatte di violenza, mutilazioni e teste mozzate. Un mondo che gronda fiumi di sangue, ma che viene comunque allegorizzato dalle parole di pii eremiti che cercano di spiegare anche le più feroci nefandezze agli increduli protagonisti come volontà divina. Ne abbiamo un esempio nella IV branche, quando Galvano, per colpa di un nano traditore, causa l’uccisione di una donna da parte del marito tra indicibili sevizie. Un eremita spiegherà successivamente all’addolorato Galvano che la donna è stata uccisa giustamente in quanto rappresentava l’Antica Legge[4].

Questa soluzione di spiegare le brutalità del mondo come volontà divina fa del Perlesvaus il testo graaliano più vicino all’ideologia crociata, quel “Deus vult” che obbligava i soldati in Terra Santa ad azioni sanguinarie per adempiere al volere di Cristo. Una situazione, questa, che trova eco nell'Isola Britannica dell’epoca, cristianizzata con la spada in pugno nel secolo V, ma ancora alle prese con le credenze pagane.

A differenza degli altri romanzi, infatti, l’Anonimo pone l’accento non tanto sul valore della castità che caratterizza il cavaliere perfetto (un punto, questo, che rimane comunque esplicito), ma sulle sue straordinarie doti di combattimento. Lascia senza parole l’assoluta mancanza di pietà da parte del protagonista: l’importanza che riveste la violenza in questo scritto ha fatto supporre a R. S. Loomis che l’autore fosse una mente malata in preda a gravi paranoie e ossessioni.

Il Perlesvaus si suddivide in undici branches, con la prima che funge da Prologo, dove viene narrata la storia del “santissimo Vaso”. A questa storia viene associato fin da subito il tema del lignaggio, come del resto succede nel Joseph d’Arimathie, dove Perceval-Perlesvaus viene collegato a Giuseppe d’Arimatea.

Il tema serve, in questo caso, ad amplificare un altro tema, quello della Terra Desolata, in quanto Perlesvaus, pur descritto come un cavaliere buono, pudico e coraggioso, essendo discendente di una stirpe tanto illustre e avendo taciuto le domande che avrebbero risanato il Re Pescatore, ha fatto sprofondare l’intera Gran Bretagna nella desolazione. Qui vediamo che l’Anonimo si discosta da Chrétien, in quanto la desolazione è frutto delle colpe del “buon cavaliere” e non conseguenza dello smarrimento del Graal.

Troviamo anche in questo caso la processione del Graal, ma questa volta ad assistervi sarà Galvano e non Perlesvaus. Qui la processione è molto più scarna ed essenziale rispetto agli altri romanzi; infatti le damigelle portano solamente il Graal e la Lancia, ma con una variante molto significativa: la Lancia è piegata sul Santo Graal in modo che stilli le gocce di sangue all’interno del Vaso.

Nel vedere il Graal Galvano cade in estasi e, seppur esortato più volte a parlare, non riesce a proferire parola, ma addirittura, nelle tre volte in cui sfila il Graal, il nipote di Artù ha delle visioni: nella prima egli vede due angeli che portano dei candelabri d’oro; nella seconda vede tre angeli e nel Graal la sagoma di un bambino, poi vede cadere tre gocce di sangue sulla tavola, un topos molto ricorrente in questa letteratura, il cui significato cambia da ricordo d’amore nel Perceval a simbolo della Trinità in questo romanzo. Nella terza, infine, Galvano vede un uomo in croce trafitto da una lancia.

In questo romanzo vediamo dunque che il Graal è ormai perfettamente collocato in un’ottica puramente cristiana, unendo in maniera magistrale le vicende narrate nel Perceval di Chrétien de Troyes con quelle del Joseph d’Arimathie di Robert de Boron.

Sulla stessa linea del Perlesvaus troviamo La Queste del Saint Graal, opera anonima composta tra il 1225 e il 1230. La Queste del Saint Graal è uno dei romanzi che costituiscono il cosiddetto ciclo della “Vulgata” arturiana o Lancelot-Graal; il ciclo è così chiamato perché fu molto popolare, nonché la versione più diffusa della leggenda.

Il ciclo della “Vulgata” è formato da cinque romanzi: l’Estoire del Saint Graal, il Merlin, il Lancelot, La Queste del Saint Graal e dal Mort le Roi Artu.

La grande novità di questo romanzo non sta tanto nella figura del Graal, la quale non si discosta molto dal Perlesvaus, ma nel protagonista. Abbiamo, infatti, uno spostamento del ruolo del “Prescelto” da Perceval, come è stato da sempre nella letteratura precedente, a nuovo protagonista chiamato Galaad, figlio di Lancillotto.

L’invenzione del personaggio di Galaad è dovuta, secondo Ferdinand Lot, al fatto che nella Queste il protagonista principale non poteva essere più Lancillotto, colpevole del suo amore adultero con la regina Ginevra, e non poteva essere nemmeno Perceval, in quanto risultava un eroe totalmente estraneo alle vicende fin lì narrate. Quindi, per colmare questo iato tra le avventure di Lancillotto e la Ricerca del Graal, è stato creato ad hoc il personaggio di Galaad, eroe senza macchia ma allo stesso tempo figlio dell’adultero Lancillotto[5].

Inoltre gli autori del ciclo della Vulgata hanno creato questo personaggio con l’intento di introdurre una nuova legge nella società feudale dell’epoca che soppiantasse la cavalleria cortese e creasse una nuova cavalleria, la cavalleria celeste. Una cavalleria che mette Dio davanti a tutto, come del resto prevede l’ottica delle Crociate, della quale Galaad diventa l’emblema fino a simboleggiare lo stesso Gesù Cristo.

Rimane comunque, nella Queste, il personaggio di Perceval, il quale sarà addirittura uno dei tre cavalieri che porteranno a termine l’impresa, assieme a Galaad e a Bohort, a simboleggiare la Trinità, ma passerà in second’ordine.

Infatti anche lui, al severo sguardo degli autori del ciclo, consapevoli del personaggio fino ad allora tramandato, risulterà indegno del ruolo di “Prescelto”, vista l’ingenuità che lo ha fatto sì rimanere casto e puro, ma lo ha fatto anche innamorare di Blancheflor; tanto è vero che, nella Queste, rischia di finire invischiato nelle trame del Maligno, il quale è pronto a concedersi a lui in veste di damigella.

L’altro cavaliere che porterà a termine la Ricerca è Bohort, il quale però è l’unico dei tre che abbia perso la sua verginità, ma che riesce comunque a conquistarsi l’onore di poter veder il Santo Graal grazie alla sua vita votata alla castità dopo il concepimento di Helain il Bianco con la figlia di re Brandegoris, la quale riuscì a giacere con lui solamente grazie a un anello magico.

Il romanzo si discosta poi con la tradizione precedente anche per quanto riguarda il corteo del Graal. Nella Queste, infatti, similmente al Perlesvaus, la processione si trasforma in una vera e propria celebrazione liturgica impreziosita da visioni mistiche. La scena a cui mi riferisco è quella in cui il Graal compare a Galaad e ai suoi undici compagni nel castello di Corbenic. In questa occasione il Graal è posto su di una tavola sulla quale discende Josephés, primo vescovo cristiano, accompagnato da quattro angeli, i quali recano alcune reliquie tra cui la Lancia sanguinante, avente qui un ruolo “minore” rispetto ai romanzi precedenti. Josephés celebra così la liturgia e nel momento in cui estrae dal Graal un'ostia, dal cielo discende una figura simile a un bambino, dal volto rosso e acceso come il fuoco, che entra nel pane. A questo punto Josephés scompare e dal Graal esce un uomo sanguinante che distribuisce l’eucarestia ai cavalieri.

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Cappella del Sacro Graal, Cattedrale di Valencia. ©Elisa Marianini Wikimedia


La Queste del Saint Graal si presenta dunque importante non tanto come evoluzione della figura del Graal, che infatti resta fondamentalmente in linea con la tradizione precedente caratterizzata dalla Trilogia boroniana, quanto come evoluzione del “cavaliere predestinato” verso il miles Christi sanbernardiano, già presente in nuce in Chrétien de Troyes e qui espresso con chiarezza.

Un discorso a parte va fatto per un altro romanzo, questa volta di area tedesca: il Parzival di Wolfram von Eschenbach.

Il Parzival, scritto probabilmente tra il 1200 e il 1210, presenta come fonte principale d’ispirazione il Conte du Graal di Chrétien de Troyes, in quanto il racconto delle avventure di Perceval e di Galvano risulta pressoché uguale all’opera del romanziere francese, almeno fino al punto in cui arriva il romanzo incompiuto.

Ma è proprio nella processione e nella figura stessa del Graal che l’autore si discosta di molto dall’originale francese, tendendo involontariamente diverse trappole in cui sono caduti molti studiosi nelle loro fantasiose teorie.

La processione del Graal, a differenza di quella del Conte, si svolge tra le lacrime e lo sconforto dei presenti; per primo passa attraverso la stanza uno scudiero che sorregge una lancia dalla cui punta sgorgano gocce di sangue. Quindi giungono due dame che portano dei candelabri d’oro e altre due con dei cavalletti d’avorio. Poi è la volta di altre otto dame: quattro sorreggono delle enormi candele, le altre la tavola di zircone. Successivamente due principesse portano due coltelli d’argento affilatissimi. Infine entra una vergine, Repanse de Schoye (altro personaggio anonimo nel racconto di Chrétien de Troyes), che sorregge il Graal su di un drappo verde. Il Graal, posto sulla tavola, elargisce qualsivoglia cibo e bevanda. Pur vedendo tutto ciò, Parzival si trattiene dal fare domande, assecondando il consiglio di Gurnemanz a non essere curioso, anche quando il padrone di casa gli regala una preziosa spada. Al termine del banchetto, il Graal viene portato in un’altra stanza nella quale Parzival scorge un uomo dai capelli d’argento che giace a letto. Il mattino seguente Parzival trova il castello vuoto e lo abbandona.

Con una coreografica processione composta da venticinque personaggi Wolfram punta più alla spettacolarità dell’immagine che al carattere misterioso definito dal suo predecessore. Nonostante tutto, la situazione appare la medesima: in entrambe le versioni troviamo gli stessi oggetti che sfilano di fronte al protagonista, ad eccezione dei coltelli d’argento, novità introdotta da Wolfram, visti da molti studiosi come un fraintendimento del testo francese da parte del Nostro, il quale ha tradotto erroneamente taillor non con “tagliere” ma con “coltello”.

Un altro aspetto non comune agli altri romanzi del Graal è la presenza di una teologia che fa da sfondo al romanzo molto diversa rispetto agli altri racconti. Come nel Joseph d’Arimathie di Robert de Boron e successivamente nel ciclo della Vulgata è presente anche qui l’importantissimo tema della dinastia dei custodi del Graal, che però non viene collegata a Giuseppe d’Arimatea, ma rimane una dinastia laica associata ai Templari.

È appunto qui nel Parzival che nasce il binomio Graal-Templari sul quale si è versato parecchio inchiostro. In questo caso concordo con Richard Barber, il quale afferma che la parola “templeise” con la quale venivano identificati i custodi del Graal è stata sì tradotta con “Templari”, ma senza che Wolfram avesse in mente il famoso ordine cavalleresco. Infatti, nel Basso Medioevo, nessun nobile tedesco avrebbe pensato che templeisen e Templari fossero la stessa cosa, in quanto questi ultimi erano chiamati Tempelherren. Inoltre va aggiunto che, all’epoca in cui Wolfram scrive, i Templari erano scarsamente presenti nel territorio della Germania e che il primo Maestro delle poche precettorie templari tedesche fu nominato solamente nel 1227, circa un secolo dopo la fondazione dell’ordine, nonché qualche anno dopo il Parzival[6].

I cosiddetti “Templari” di Wolfram von Eschenbach, a ben vedere, non sembrano rispettare delle regole comuni a qualsiasi ordine cavalleresco dell’epoca, infatti tra di essi troviamo delle donne, le quali ricoprono ruoli molto importanti a Munsalvaesche. Da non trascurare anche il fatto che questi cavalieri del Graal possono sposarsi.

Il fatto, quindi, che Wolfram li chiami Templari sta a indicare che il Graal è custodito in un tempio e loro sono incaricati di servirlo e proteggerlo.

Ma la differenza fondamentale tra il Parzival di Wolfram von Eschenbach e le altre storie del Graal sta proprio nella figura stessa del Graal.

Il Graal, infatti, non è un “piatto” come in Chrétien de Troyes o una sacra reliquia della Passione come in Robert de Boron, ma una pietra con straordinarie virtù. Essa, come spiega Friedrich Ranke, “serve al benessere del corpo dei suoi guardiani, dispensando loro nutrimento e bevande e rigenerando in loro la bellezza della gioventù. La sua natura morale si manifesta con il fatto che soltanto degli esseri perfettamente puri possono sollevarlo e portarlo e che esso esige anche una grande purezza morale da parte dei cavalieri che lo servono. Ma il segreto più profondo della sua natura si trova nel regno della fede cristiana. Esso è custodito nel tempio, cioè nel monastero; tutti gli anni, nel Venerdì Santo, il suo meraviglioso potere è rinnovato dall’ostia che una colomba porta dal cielo”[7].

La pietra inoltre viene anche chiamata “lapsit exillis” e proprio sull’esatta interpretazione di questo termine alternativo del Graal si è acceso un accanito dibattito tra gli studiosi, in quanto l’espressione di per sé non è latino.

Ogni sua ipotetica traduzione è stata possibile solamente con la correzione dei due termini pseudo-latini ampliando notevolmente il ventaglio dei significati. Il termine “lapsit”, ad esempio, da alcuni viene tradotto “cadde”, come se il termine fosse lapsavit, ma la maggior parte degli studiosi, più coerentemente, interpretano il termine come lapis, pietra.

Mentre “exillis” viene visto come un aggettivo e corretto in vari modi: abbiamo di conseguenza “la pietra caduta dal cielo” trasformando il secondo termine in ex caelis, ma abbiamo anche la “pietra filosofale” degli alchimisti (elisir), la “pietra dell’esilio” con exilii oppure anche “la pietra di asbesto” correggendo exillis con textilis.

Altro grande dibattito attorno al Graal di Wolfram è sui motivi per cui sia divenuto una pietra nel romanzo tedesco, e anche qui le ipotesi si sprecano.

Si è pensato a un piccolo altare di pietra per contenere l’Ostia portata dalla colomba. Altri ancora vedono somiglianze con l’altare del rituale etiopico, chi addirittura con la Kaaba e la pietra sacra della Mecca. Numerose analogie si possono riscontrare nelle molte pietre sacre presenti nella Bibbia e nella Kabbalah[8].

Molto più semplicemente, come afferma Jean Frappier, riprendendo il modello filologico di Jean Fourquet, il Graal in qualità di pietra si può spiegare come un errore d’interpretazione del testo francese da parte di Wolfram, analogo al fraintendimento del taillor con i coltelli. Quindi se in Chrétien de Troyes è un piatto d’oro così ricco di pietre preziose da superare qualsiasi altro gioiello, l’errata lettura da parte di Wolfram ha fatto confondere in lui l’ornamento con l’oggetto stesso, fondendo la grande varietà di pietre in un’unica enorme pietra preziosa[9].

Come possiamo vedere, il Graal di Wolfram sembra correre su di un binario parallelo alla tradizione cristiana predominate intrapresa da Robert de Boron e seguita dalla maggior parte degli altri autori della materia graaliana e dai continuatori dell’opera di Chrétien.

Come il Graal perde le sue prerogative di Reliquia della Passione di Cristo, stessa sorte tocca alla Lancia Sanguinante, la quale non è più vista come la Lancia di Longino, ma diventa la lancia esecranda che ferì re Anfortas.

Il Parzival di Wolfram von Eschenbach si dimostra dunque importantissimo, non solo per il suo straordinario valore letterario, ma anche perché ci fa vedere quanto l’incompiuto poema di Chrétien abbia stimolato la fantasia dei suoi contemporanei, tanto da non poter avere una soluzione univoca alle linee tracciate dal francese.

Nel vagliare questi romanzi si è potuto constatare che il Graal è un oggetto multiforme e indefinito, un oggetto che si configura nella mente degli autori in maniera sempre diversa, ma nel quale è possibile rintracciare una linea evolutiva.

Questo è quindi il percorso di trasformazione che ha subito il Graal nella letteratura, partendo dall'essere un piatto in Chrétien, per poi passare ad essere un vaso in Robert de Boron e infine divenire il Calice dell’Ultima Cena, come tutti lo conosciamo, nei successivi romanzi. Senza contare il “vicolo cieco” rappresentato dalla trasformazione del Graal in una pietra, operata nel Parzifal.

A questo punto la domanda sorge spontanea: che cos’è il Graal?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo ricorrere alla filologia e all’etimologia; va detto quindi che il termine graal non fu coniato né da Chrétien né da Robert: forme del tipo graal sono attestate prima e fuori dal ciclo letterario che lo denomina ed è un termine vivo ancora oggi anche in italiano, basti pensare al termine grolla, il tradizionale recipiente valdostano; l’area di diffusione di questi vocaboli comprende tutto il mondo romanzo dell’epoca, che va dall’Aragona e dalla Catalogna al Nord-Est della Francia, passando per le regioni occitaniche e franco-provenzali. Nell’Est e nel Nord della Francia troviamo forme come griau, gruau, greal, grô, grôlot, grau; nel Sud invece abbiamo gardale, gresal, grasal, gral, grial.

Il termine, secondo queste fonti, doveva riferirsi a un tipo di piatto o di vassoio prezioso e leggermente fondo, destinato a banchetti sontuosi dove venivano serviti pesci o cacciagione.

E da questo senso parte il significato dato al termine da Chrétien de Troyes; come spiega Mario Roques, non poteva essere altrimenti visto che l’area del vocabolo in Francia è molto vicina alla regione di Troyes.

Lo confermerebbe anche il fatto che, nel romanzo, lo zio eremita avverte Perceval che il Graal non contiene “luz ne lamproies ne saumons”, ma soltanto un’ostia, e che quindi un graal doveva contenere normalmente questi tipi di vivande[10].

Ora che sappiamo che il termine graal esisteva già e aveva un suo preciso significato, risulta totalmente infondata la tesi proposta da Henry Lincoln, Richard Leigh e Michael Baigent e portata avanti da numerosi altri autori, secondo i quali san gréal andrebbe trasformato in sang réal a indicare il lignaggio di Cristo.

Il Graal quindi nasce, nella sua accezione comune del termine, come un piatto, in cui l’opera di cristianizzazione della matrice celtica è già presente in Chrétien, ma inizialmente è poco avvertita dai continuatori della sua opera o sviluppata in altre direzioni, come nel caso di Wolfram von Eschenbach; questo processo viene portato a compimento da Robert de Boron, che ne delinea la preistoria e trasforma il Graal nel veissel contenente il Sangue di Cristo. L’unione del racconto di Chrétien con quello di Robert, già implicito nella mente di quest’ultimo, porterà alla nascita del Perlesvaus e della Queste nei quali il Graal è totalmente Santo e identificato con il Calice dell’Ultima Cena.

Con questo lavoro ho cercato di fare chiarezza sul Graal ricostruendo la sua evoluzione nei romanzi graaliani, cercando di dimostrare come questo oggetto misterioso consista essenzialmente in un mito che nasce in letteratura. Anziché spingersi in spiegazioni di carattere esoterico per certe immagini ricavate dai romanzi, basta analizzare i testi per quello che sono. Romanzi.

Note

1) Il Graal, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2005 pag. 1703-1704.
2) Luce del Graal, René Nelli (a cura di), Edizioni Mediterranee, Roma 2001, pag. 121-128.
3) Il Graal, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2005, pag. XIII-XIV.
4) Silvia De Laude, Introduzione al Perlesvaus, contenuto in Mariantonia Liborio, Il Graal, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2005 pag. 361.
5) Ferdinand Lot, Etude sur le Lancelot en prose, Paris 1954 pag. 190.
6) Richard Barber, Graal, Piemme, Casale Monf. 2004, pag.222.
7) AA.VV, Luce del Graal, Renè Nelli (a cura di), Edizioni Mediterranee, Roma 2001, pag.213.
8) Richard Barber, Graal, Piemme, Casale Monf. 2004, pag.224-225.
9) AA.VV, Luce del Graal, Renè Nelli (a cura di), Edizioni Mediterranee, Roma 2001, pag. 183.
10) Chrétien de Troyes et le Mythe du Graal: Etude sur le Perceval ou le Conte du Graal, Sociéte d'Edition d'Enseignement Supérieur, Paris 1972 , p. 175.
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