Inventare una lingua

Le lingue costruite a tavolino sono moltissime e hanno origini e obiettivi diversi. Cosa le distingue dalle lingue storiche e perché tanti hanno provato a crearne una?

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© LuckyTD/iStock
L’episodio è uno tra i più famosi della serie tv The Big Bang Theory: due tra i protagonisti, Bernadette e Howard, si stanno sposando davanti all’amico Sheldon, che è uno degli officianti. A un tratto Sheldon inizia a pronunciare parole incomprensibili, scatenando le ire di Bernadette: «Sheldon! Avevo detto niente klingon!» Come tutti i fan di Star Trek e, in generale, i cosiddetti nerd ben sanno, la lingua adoperata da Sheldon (e oggi coltivata da un certo numero di appassionati nel mondo) è quella parlata dagli omonimi alieni, che, nel loro idioma nativo, si chiamano non klingon ma tlhlngan. Tecnicamente, fa parte delle lingue che vengono definite “artificiali”, per distinguerle da quelle storiche (chiamate anche, talvolta, naturali), che appartengono alla cultura e alla storia di una comunità e non sono state “costruite a tavolino”. In inglese e nel confronto internazionale tra studiosi si usa l’abbreviazione conlang, da costructed language, “lingua costruita”.

In realtà, la differenza tra lingue storiche e artificiali non è così netta, se si prende come parametro esclusivamente il fatto che una lingua sia stata pianificata e si regga su convenzioni: in fondo, un certo livello di costruzione a tavolino fa parte di tutte le lingue, storiche e “inventate”. In quelle inventate, però, il livello di pianificazione linguistica è molto più marcato e, in particolar modo, la loro evoluzione non è il prodotto dei cambiamenti sociali e dei loro riflessi sulla lingua adoperata per comunicare, ma di decisioni prese con scopi ben definiti. Queste decisioni sono appannaggio di persone che si definiscono, con parole che provengono dal greco, glottoteti o anche glossopo(i)eti, cioè, letteralmente, “creatori di lingue” e la loro attività viene indicata come “glossopoiesi”.

Di lingue artificiali ne esistono davvero moltissime, con scopi e caratteristiche diversi e, per evitare di perdersi nel mare magnum delle possibili caratteristiche, possiamo adoperare una prima suddivisione, basata sul motivo che ha spinto a crearle.
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L’alfabeto Klingon © Dimitrios Karamitros/iStock


Artistiche, ausiliarie o logiche?


La lingua klingon che abbiamo citato sopra fa parte delle “lingue artistiche”, categoria in cui rientrano anche quelle elfiche e le altre lingue della Terra di Mezzo ideate dallo scrittore J. R. R. Tolkien per la trilogia del Signore degli Anelli e gli altri libri della saga, o quella na’vi, parlata dal popolo protagonista del film Avatar di James Cameron.

Si tratta di lingue create per essere utilizzate all’interno di opere letterarie, cinematografiche, musicali, in generale per adoperare uno strumento comunicativo in un universo finzionale, oppure ideate come opera artistica a sé. Di solito sono lingue che conservano la stessa irregolarità e complessità che si possono notare nelle lingue storiche, per essere più verosimili. Per indicarle, gli studiosi sono soliti usare l’abbreviazione inglese artlang, da artistic language, “lingua artistica”.

Vengono, invece, chiamate “lingue ausiliarie” quelle che nascono con lo scopo di facilitare la comunicazione tra persone che parlano lingue diverse, spesso in contesti internazionali. È il caso del celeberrimo esperanto, oppure dell’ido, dell’interlingua e di molte altre. Si parla, invece, di “lingue logiche” o “filosofiche” per quelle ideate a scopi di studio e ricerca, in campi come la linguistica o la filosofia del linguaggio. Attraverso queste lingue è, infatti, possibile mettere alla prova alcune ipotesi relative alle lingue e, in ultima analisi, contribuire a dar vita a una lingua con specifiche caratteristiche ritenute desiderabili dagli ideatori. Tra queste rientra per esempio il loglan, il cui scopo di partenza era mettere alla prova l’ipotesi di Sapir-Whorf (secondo la quale il linguaggio adoperato ha un’influenza sul pensiero di chi lo parla) e creare una lingua dalla grammatica asciutta e neutrale sul piano culturale, che sarebbe in grado di favorire un modo di pensare logico in chi la parla.

Che cos’è davvero artificiale?


In realtà, più si scava a fondo e più diventa difficile tracciare davvero una linea di demarcazione tra lingua storica e artificiale. «Pensiamo a un esempio famosissimo di lingua storica, il latino», fa notare Francesca Chiusaroli, docente di linguistica all’Università di Macerata, impegnata nella ricerca e nella divulgazione sulle lingue artificiali e glottoteta in prima persona. «Nessuno nega l’esistenza di una fase storica, concreta e parlata del latino, con una struttura sintattica e delle regole morfologiche che hanno subito trasformazioni nel tempo e nello spazio. Ma il latino scritto è per certi versi una lingua del tutto diversa, con un periodare strutturato e complesso, incompatibile con gli usi concreti del parlato e con una sintassi che si potrebbe definire costruita a tavolino e cristallizzata in forme usate a lungo, per esempio come lingua franca della scienza, anche in epoche molto distanti e in cui il latino parlato nel quotidiano era caduto in disuso da molto tempo».

In questa prospettiva, il latino – ma anche molte altre lingue, come il greco antico e lo stesso italiano, per fare solo un paio di esempi – appare davvero una lingua così diversa da quelle artificiali? «Aggiungiamo – fa notare Chiusaroli – che, almeno fino al XIX secolo, “naturale” e “artificiale”, anche quando sono usati per far riferimento alla lingua, sono termini considerati sinonimici». Si tratta di un concetto che ci impone un cambiamento di prospettiva enorme e nel quale fatichiamo a entrare, ma centrale per comprendere la temperie culturale che ha portato allo sviluppo delle lingue artificiali. «Nella parola “artificiale” – prosegue la linguista – si ritrova la radice della parola latina ars, “arte”, che vuole rendere l’idea di riprodurre con l’azione umana la meraviglia della natura, in un modo che fa più riferimento all’attività umile di un artigiano piuttosto che a quella di un artista. E anche la lingua, in questo contesto, può essere costruita o ricondotta “ad arte”, cioè come sarebbe, appunto, “secondo natura” e, in chiave religiosa, secondo la volontà di Dio».

Nasce, quindi, l’idea di ricostruire con l’arte, appunto, le condizioni di serenità e perfezione del giardino dell’Eden prima che gli esseri umani ne fossero scacciati per via del peccato originale. Fa notare Chiusaroli: «Gli studiosi si chiedono che lingua parlassero Adamo ed Eva e come fare a ricostruirla, notando che il racconto biblico sottolinea che il nome imposto da Adamo a tutte le cose non va affatto considerato arbitrario, come nelle lingue storiche, ma frutto della sua perfetta connessione con la volontà di Dio. Da questo tentativo di riportare la lingua alle condizioni originarie, di cui parla ampiamente Umberto Eco nel suo saggio La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, prendono le mosse alcuni progetti di creazione di una lingua artificiale».
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Torre di Babele, Peter Bruegel il Vecchio, 1563 ca. © Wikipedia/Public Domain


Al di là di Babele


Come ricorda anche Umberto Eco, il mito fondativo della riflessione sulle lingue è quello biblico della Torre di Babele, che racconta di un’epoca in cui gli esseri umani parlavano una sola lingua, ma la superbia li spinse a voler costruire una città con una torre così alta da condurli fino al cielo, cioè a Dio. La punizione del Signore si attuò proprio tramite una confusione delle loro lingue, che fece fallire miseramente il progetto perché nessuno riuscì più a comprendere gli altri.

Sottolinea ancora Francesca Chiusaroli: «Nasce, quindi, il sogno di dare vita a una lingua che, al contrario di quelle storiche, non porti su di sé questa maledizione di Babele che, in ultima analisi, è quella del peccato originale. Paradossalmente, di una lingua così tanto pianificata e costruita viene proprio esaltata quella che appare come una naturalità costruita ad arte». Si tratta di un’idea che, per esempio, è testimoniata in una famosa lettera di Cartesio del 20 novembre 1629, indirizzata all’abate Mersenne. Cartesio discute della possibilità di creare una lingua definita “filosofica”, che abbia la capacità di aiutare il pensiero e sia anche comprensibile da tutte le persone del mondo. Una lingua artificiale ausiliaria diffusa a livello planetario, in pratica. Il filosofo si rende, però, conto dell’estrema difficoltà dell’impresa, realizzabile solo se il mondo tornasse un grande paradiso terrestre. La sfida viene raccolta dagli accademici di Port-Royal che nella seconda metà del Seicento, con la Grammatica generale e ragionata e la Logica, cercano di cogliere quella che ritengono la struttura razionale comune a tutte le lingue.

I riflessi di queste idee si riscontrano anche negli esperimenti sulle lingue artificiali del XVII secolo da parte di religiosi anglicani che si oppongono al ruolo egemone del latino da parte dei cattolici, ma anche, molto dopo, in Noam Chomsky. Sottolinea Chiusaroli: «Si tratta di un obiettivo che le lingue artificiali conservano ancor oggi, come si può vedere nel lavoro di molti ricercatori che le usano, per esempio, per studiare i limiti e i vincoli delle lingue, chiedendosi se esistano caratteristiche che definiscono le lingue come tali e quali siano».

Le lingue artificiali possono diventare addirittura un utile strumento didattico: nei corsi di laurea a indirizzo linguistico lo studio di una lingua “inventata” può permettere di riflettere su caratteristiche profonde ed elementi funzionali che sono in ombra quando ci si trova di fronte a una lingua che si conosce bene o in parte, entrando dentro meccanismi che possono essere comuni a più lingue o distinguersi dagli altri.
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La bandiera nell’immagine, nota come Conlang Flag, è il simbolo delle lingue costruite scelto dai membri della mailing list CONLANG e rappresenta la Torre di Babele davanti al Sole che sorge © Wikipedia/Public Domain


Un pregiudizio duro a morire


«È anche per questo – aggiunge Chiusaroli – che è un vero peccato un certo confinamento settoriale dell’insegnamento delle lingue artificiali: che si creda o meno nell’opportunità di un uso concreto delle lingue artificiali per la comunicazione, lo studio di quei codici è utile per sviluppare riflessioni sulla grammatica, sicuramente formative e interessanti per studiare il funzionamento di una lingua». A questa lacuna in parte sopperisce il Web, con le molte risorse online oggi disponibili e con le community virtuali che riuniscono i parlanti delle diverse lingue artificiali, permettendo loro di praticarle sia oralmente sia per iscritto.

D’altra parte, l’idea che lo studio delle lingue artificiali sia una bizzarria che non va coltivata né incoraggiata ha radici antiche. Per esempio, nel 1866 la Société de Linguistique de Paris metteva al bando, per i propri iscritti, due argomenti ritenuti troppo poco scientifici e, quindi, poco dignitosi per uno studioso “serio”: l’origine del linguaggio e le lingue artificiali, che presentano, tra l’altro, dei collegamenti. Si richiamava, quindi, l’opportunità di concentrarsi sulle lingue storiche. Ricorda Chiusaroli: «Dal XIX secolo in poi, “artificiale” e “naturale” diventano, con riferimento alle lingue, termini davvero contrapposti, e il primo viene adoperato per indicare ciò che non aderisce alle leggi di natura, che la scienza stava mettendo in luce. È in questo periodo che nasce, come riflesso degli studi sulla teoria dell’evoluzione, l’analisi scientifica delle lingue e il loro “albero genealogico”, che va alla ricerca dell’antica lingua comune, per esempio il cosiddetto indoeuropeo, nel caso di una parte delle lingue europee e asiatiche».

Eppure anche in questi studi le ricostruzioni incerte e arbitrarie non mancano, così come non ci sono prove della concreta esistenza delle lingue comuni di cui parlano i linguisti, che restano però utili strumenti di studio, in modo non dissimile da quello che abbiamo visto fare con le lingue artificiali. Per esempio, guardando agli esperimenti di ricostruzione di testi scritti in indoeuropeo (come le diverse versioni della favola La pecora e i cavalli, a partire dalla prima, scritta dal linguista August Schleicher nel 1868, fino a quella di Andrew M. Byrd del 2013), ci troviamo di fronte a strutture linguistiche che hanno molti punti in comune con le lingue artificiali propriamente dette.

In Italia, l’attenzione di Umberto Eco al tema dei linguaggi logici ha permesso in parte di sottrarre la materia dall’oblio e di stimolare una nuova ondata di studi, che sono, per fare un esempio recente, confluiti nella Conferenza internazionale sulle lingue inventate I-CONlangs, che ha riunito a Torino, nel luglio del 2022, tutti i principali esperti di conlang.

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Uno dei logogrammi della lingua degli alieni eptapodi del film Arrival

Diversi sistemi per mondi diversi


A seconda dello scopo per il quale nascono, le lingue artificiali hanno caratteristiche specifiche e identificative. Le lingue nate per agevolare la comunicazione tendono infatti a essere semplici, ad avere una sintassi e delle regole morfologiche molto regolari e ridotte al minimo, e un sistema lessicale di facile apprendimento. Tutte queste caratteristiche sono naturalmente frutto di una valutazione che conserva elementi di arbitrarietà. Per esempio, siamo sicuri che una lingua non flessiva, cioè senza casi e declinazioni, come l’italiano o l’inglese, sia da tutti i punti di vista più semplice di una lingua flessiva, come il latino? Il modello non flessivo è diventato via via prevalente, ma ha comportato delle irregolarità e degli aggiustamenti che non rientrano sempre nell’oggettiva semplicità. Molte lingue ausiliarie, inoltre, hanno una base lessicale e grammaticale che prende spunto da quella di un’area linguistica, rendendo l’apprendimento più o meno difficile a seconda della lingua madre della persona che vi si accosta. Nell’aspetto grafico, diverse tra queste lingue adoperano l’alfabeto latino esteso (cioè comprensivo delle lettere e dei segni diacritici presenti in molte lingue moderne), per via della sua diffusione e perché molti glottoteti lo adoperano nella loro lingua madre, ma anche questo rappresenta una barriera per chi parla lingue che usano altri alfabeti.

Ma come mai queste lingue, alcune delle quali davvero funzionali e ben costruite, stentano a diffondersi, sebbene rappresentino un’utile strategia comunicativa che mette tutti alla pari? «La principale ragione – sottolinea Chiusaroli – è che nel concreto tende a essere adoperata la lingua storica che, in una determinata epoca, assume un particolare prestigio, perché legata a una posizione di predominio economico e quindi politico, che varia nel tempo, come si può vedere nel passaggio da una lingua all’altra quando cambiano le dinamiche. Quello che accade nei fatti è che chi gode di questo prestigio impone tacitamente la propria lingua, semplicemente adoperandola nei diversi scambi con altre nazioni. Le lodevoli intenzioni alla base di alcune lingue di comunicazione internazionale spesso possono poco nel confronto con le ragioni dell’economia».

Una varietà di forme e alfabeti, spesso anche molto decorativi sul piano grafico, caratterizza le lingue artistiche: «In questo caso notiamo – osserva la linguista – come l’ideatore accentui più o meno l’effetto di un mondo diverso da quello che conosciamo per rendere l’idea di una cultura differente, talvolta addirittura proveniente da altri pianeti, “aliena”. Si scelgono, pertanto, strutture, suoni e metodi completamente diversi da quelli ai quali ci hanno abituato le lingue storiche, per rendere l’idea dell’incontro con l’altro». Pensiamo, per esempio, al modo in cui si esprimono gli alieni del film Arrival (tratto da un racconto di Ted Chiang) che adoperano una scrittura di tipo semasiografico, cioè in cui i segni impiegati (nel caso di Arrival, tracce di forma più o meno circolare) riflettono la specifica percezione del tempo che caratterizza il popolo alieno degli eptapodi, che si mette in contatto con gli umani e ha bisogno della mediazione di una linguista perché il messaggio riesca a giungere a destinazione.

Altre lingue artificiali adoperano pittogrammi per creare una lingua che, attraverso un codice iconico, risulti comprensibile a tutti. Un esempio è l’IKON, al quale lavora un gruppo coordinato dal glottoteta Cesco Reale. Molto interessante anche il progetto dell’emojitaliano che vede direttamente coinvolta Francesca Chiusaroli, insieme ad altri collaboratori come la linguista Johanna Monti e l’informatico Federico Sangati. Questa lingua adopera sempre dei pittogrammi, ma li trae dal vastissimo repertorio degli emoji (quelli che nel linguaggio comune chiamiamo anche “faccine”) che sono in continuo aggiornamento e sono ormai diventati un codice universale, che integra la nostra comunicazione quotidiana. «Il lavoro di costruzione alla base di questa lingua si differenzia da altri esperimenti precedenti fatti con gli emoji, comprensibili solo da persone di lingua inglese, perché basati sulla fonetica di questa lingua. Nel caso della nostra lingua, abbiamo proprio creato un intero codice, così come un glossario e una grammatica, che andranno periodicamente integrati sulla base dell’aggiornamento del repertorio di emoji. La base italiana adoperata per la sintassi (per esempio la scrittura da sinistra a destra o l’ordine soggetto-verbo-oggetto) non compromette la possibilità di comprensione da parte di persone che parlano altre lingue» sottolinea la linguista, che ha in mente di adoperare gli emoji anche come strumento di accoglienza nei confronti di persone che parlano lingue diverse e di sostegno a chi ha difficoltà di comunicazione di vario tipo. Un modo per continuare a perseguire, almeno in parte, l’ideale di solidarietà alla base di alcune lingue artificiali.

Riferimenti bibliografici

  • Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, 1996.
  • Andrea Moro, I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili, Il Mulino, 2018.
  • Serenella Baggio, Pietro Taravacci (a cura di), Lingue naturali, lingue inventate, Edizioni dell’Orso, 2020.


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Il Padre Nostro in esperanto nella Chiesa del Pater Noster a Gerusalemme © ZvonimirAtleti/iStock

Intervista a Gigi Garlaschelli, esperantista per curiosità


Iscritti ed estimatori del CICAP hanno avuto modo di incrociare più volte i molti campi in cui si misura Gigi Garlaschelli, chimico e indagatore di misteri al centro di imprese che spaziano dalla Sindone al sangue di San Gennaro, dai segreti dei fachiri alle indagini storiche di varia natura. Non tutti però sanno che Gigi Garlaschelli è anche un esperantista, fondatore dell’Associazione Esperantista di Pavia e autore della Piccola grammatica gratuita di esperanto, che consente di impadronirsi facilmente dei primi rudimenti della lingua. «La mia passione per l’esperanto – racconta – è nata dalla curiosità intellettuale. Sono stato affascinato dall’idea alla base di questa lingua e ho subito apprezzato il fatto che, al contrario di altre lingue artificiali, sia stata strutturata per essere di semplice apprendimento, in particolar modo per chi parla una lingua indoeuropea». Con il procedere dello studio, le ragioni per apprezzare l’esperanto sono emerse con particolare chiarezza. «L’ideatore dell’esperanto, Zamenhof, ha proceduto in modo rigoroso e intelligente, adoperando radici comuni ad altre lingue, consentendo a chi impara di apprendere nuove parole con poco sforzo, attraverso l’uso di prefissi e suffissi. Non ci sono eccezioni nella pronuncia e nella grammatica e, di conseguenza, in pochi mesi è possibile ottenere già risultati gratificanti, che consentono di comunicare a un livello accettabile».

Ma come impratichirsi nell’uso di questa lingua, visto che non è possibile farlo con l’effetto di immersione di quando ci si trasferisce all’estero per perfezionare una lingua? Sottolinea Garlaschelli: «A parte i casi di esperantisti che hanno cresciuto i propri figli come bilingui (esperanto e lingua locale) fin dalla nascita, oggi gli esperantisti hanno a disposizione diverse risorse, dai tradizionali libri, giornali e radio ai canali YouTube eccetera. Il numero degli esperantisti è stimato a circa due milioni sparsi per il mondo. Un numero molto piccolo se rapportato a quello della popolazione mondiale e, di fatto, l’esperanto non è riuscito a imporsi, rimanendo quella che io definisco una lingua deliziosamente utopistica. Ogni volta che mi imbatto nelle istruzioni di un qualsiasi oggetto tradotte in tantissime lingue con spreco notevole di risorse, mi soffermo a pensare all’utilità di una lingua che consenta a tutti di capire e di essere su un piano di parità».

Ma secondo Garlaschelli vale comunque la pena di provare ad avvicinarsi all’esperanto, anche per il valore culturale e di riflessione sulla lingua. «Mi sono accorto del fatto che più studiavo l’esperanto e più imparavo qualcosa anche della mia lingua, delle sue caratteristiche e dei suoi limiti. Anche solo per questo si tratta di un esperimento culturale sicuramente interessante, che infatti è stato apprezzato da studiosi di alto spessore come Umberto Eco, sebbene non mancassero i critici, come Gramsci, che lo considerava un esperimento borghese. In ogni caso si tratta senz’altro di un modo per esplorare la logica alla base delle lingue».

Per chi volesse accostarsi all’esperanto, Gigi Garlaschelli ha raccolto alcune risorse e consigli di lettura all’indirizzo https://luigigarlaschelli.wixsite.com/luigigarlaschelli/esperanto .
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