La definizione di “esperienze di pre-morte” è fuorviante poiché si riferisce ai ricordi riportati da alcuni pazienti colpiti da un arresto cardiaco ma che, avendo raccontato queste esperienze, è ovvio che non fossero davvero morti. A complicare le cose, almeno sui termini per definire il fenomeno, ritorna ora l’anestesista ed esperto di rianimazione Sam Parnia, che se ne occupa da tempo, e che in un recente studio ha definito alcuni tipi di esperienze di pre-morte come “morti lucide ricordate”, suggerendo quindi che i pazienti oggetto della ricerca fossero morti e poi tornati in vita ricordando lucidamente ciò che era avvenuto durante la loro morte!
Lo studio, pubblicato su Resuscitation[1], ha riguardato 567 pazienti sottoposti a rianimazione cardiopolmonare (RCP) in seguito a un arresto cardiaco in 25 ospedali di Regno Unito e Stati Uniti. Tra di essi, 53 sono sopravvissuti ma, a causa delle cattive condizioni di salute, solo 28 di loro sono stati intervistati. Per verificare se avessero avuto un ricordo esplicito oppure inconsapevole di ciò che era successo durante l’arresto cardiaco, nel corso della RCP i pazienti erano stati collegati a un tablet e a delle cuffie che inviavano stimoli visivi e auditivi: sullo schermo del tablet appariva in maniera casuale una tra 10 immagini mentre attraverso le cuffie il paziente ascoltava una sequenza di nomi di tre frutti: mela, pera, banana.
Per l’analisi del ricordo esplicito è stato chiesto ai 28 sopravvissuti di richiamare i ricordi della RCP, inclusi gli stimoli audiovisivi, ma nessuno ha ricordato di aver visto l’immagine proiettata né di aver sentito la sequenza audio. Per l’analisi dell’apprendimento implicito è stato invece chiesto loro di indicare un’immagine tra le 10 mostrate, e di dire i nomi di tre frutti. Anche in questo caso, nessuno ha indovinato l’immagine visualizzata e solo un paziente ha scelto i tre frutti corretti, probabilmente in modo del tutto casuale.
Tuttavia, nei pazienti erano anche state monitorate l’attività elettrica cerebrale e l’ossigenazione cerebrale. Dalle immagini elettroencefalografiche è emersa la presenza di onde theta, alfa, beta e delta quasi normali fino a 35-60 minuti dall’inizio della RCP, nonostante vi fosse una scarsa ossigenazione, suggerendo quindi la possibilità di un’attività cerebrale anche dopo la morte cardiaca. Questo risultato non è però una novità; altri studi, infatti, condotti in precedenza su umani e animali, avevano rilevato la presenza di onde elettriche in soggetti con arresto cardiaco.
Parnia ipotizza che, in condizioni estreme, nel cervello possa verificarsi una mancata inibizione di percorsi neuronali normalmente “dormienti”. Il cervello, infatti, nella sua attività routinaria usa solo i neuroni richiesti per una funzione specifica, mentre le cellule non reclutate restano a riposo. In carenza di ossigeno, invece, il cervello metterebbe in atto dei meccanismi di sopravvivenza reclutando i neuroni dormienti.
Le osservazioni di Parnia e colleghi appoggerebbero quindi l’ipotesi che un abbozzo di coscienza possa essere presente anche quando non è clinicamente rilevabile. Tuttavia, lo studio mostra punti di debolezza e l’identificazione di biomarcatori elettrocorticali non implica inconfutabilmente che la coscienza sia un epifenomeno dell’attività cerebrale poiché un’associazione non è necessariamente una causalità. Questo può dar adito a teorie metafisiche su una coscienza non prodotta da meccanismi cerebrali e capace di vivere autonomamente. Sarebbe stato importante specificare se ci fossero stati EEG piatti di pazienti che hanno riportato ricordi dell’arresto cardiaco perché questo avrebbe potuto, forse, far pensare a una coscienza indipendente dall’attività cerebrale. Chi ha raccontato la propria esperienza fortunatamente non è mai morto, nemmeno per pochi attimi, quindi siamo ben lontani dalla dimostrazione dell'esistenza di una coscienza che sopravvive alla morte.
Lo studio, pubblicato su Resuscitation[1], ha riguardato 567 pazienti sottoposti a rianimazione cardiopolmonare (RCP) in seguito a un arresto cardiaco in 25 ospedali di Regno Unito e Stati Uniti. Tra di essi, 53 sono sopravvissuti ma, a causa delle cattive condizioni di salute, solo 28 di loro sono stati intervistati. Per verificare se avessero avuto un ricordo esplicito oppure inconsapevole di ciò che era successo durante l’arresto cardiaco, nel corso della RCP i pazienti erano stati collegati a un tablet e a delle cuffie che inviavano stimoli visivi e auditivi: sullo schermo del tablet appariva in maniera casuale una tra 10 immagini mentre attraverso le cuffie il paziente ascoltava una sequenza di nomi di tre frutti: mela, pera, banana.
Per l’analisi del ricordo esplicito è stato chiesto ai 28 sopravvissuti di richiamare i ricordi della RCP, inclusi gli stimoli audiovisivi, ma nessuno ha ricordato di aver visto l’immagine proiettata né di aver sentito la sequenza audio. Per l’analisi dell’apprendimento implicito è stato invece chiesto loro di indicare un’immagine tra le 10 mostrate, e di dire i nomi di tre frutti. Anche in questo caso, nessuno ha indovinato l’immagine visualizzata e solo un paziente ha scelto i tre frutti corretti, probabilmente in modo del tutto casuale.
Tuttavia, nei pazienti erano anche state monitorate l’attività elettrica cerebrale e l’ossigenazione cerebrale. Dalle immagini elettroencefalografiche è emersa la presenza di onde theta, alfa, beta e delta quasi normali fino a 35-60 minuti dall’inizio della RCP, nonostante vi fosse una scarsa ossigenazione, suggerendo quindi la possibilità di un’attività cerebrale anche dopo la morte cardiaca. Questo risultato non è però una novità; altri studi, infatti, condotti in precedenza su umani e animali, avevano rilevato la presenza di onde elettriche in soggetti con arresto cardiaco.
Parnia ipotizza che, in condizioni estreme, nel cervello possa verificarsi una mancata inibizione di percorsi neuronali normalmente “dormienti”. Il cervello, infatti, nella sua attività routinaria usa solo i neuroni richiesti per una funzione specifica, mentre le cellule non reclutate restano a riposo. In carenza di ossigeno, invece, il cervello metterebbe in atto dei meccanismi di sopravvivenza reclutando i neuroni dormienti.
Le osservazioni di Parnia e colleghi appoggerebbero quindi l’ipotesi che un abbozzo di coscienza possa essere presente anche quando non è clinicamente rilevabile. Tuttavia, lo studio mostra punti di debolezza e l’identificazione di biomarcatori elettrocorticali non implica inconfutabilmente che la coscienza sia un epifenomeno dell’attività cerebrale poiché un’associazione non è necessariamente una causalità. Questo può dar adito a teorie metafisiche su una coscienza non prodotta da meccanismi cerebrali e capace di vivere autonomamente. Sarebbe stato importante specificare se ci fossero stati EEG piatti di pazienti che hanno riportato ricordi dell’arresto cardiaco perché questo avrebbe potuto, forse, far pensare a una coscienza indipendente dall’attività cerebrale. Chi ha raccontato la propria esperienza fortunatamente non è mai morto, nemmeno per pochi attimi, quindi siamo ben lontani dalla dimostrazione dell'esistenza di una coscienza che sopravvive alla morte.
Note
1) Parnia S. et al, 2023. “Awareness during resuscitation - II: A multi-center study of consciousness and awareness in cardiac arrest", in Resuscitation, vol. 191