Il CICAP Fest nella Città della Scienza

Un'intervista a Telmo Pievani

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Telmo Pievani sul palco del CICAP Fest ©Roberta Baria
Telmo Pievani è professore di Filosofia delle Scienze Biologiche presso l'Università degli studi di Padova e Delegato del Rettore per la Comunicazione Istituzionale. Con lui, che è anche Garante scientifico del CICAP Veneto, abbiamo parlato del Festival e delle tante iniziative di comunicazione promosse dall’Università.

L’Università di Padova, di cui sei Delegato del Rettore per la Comunicazione Istituzionale, ha contribuito molto per portare il CICAP Fest 2018 a Padova. Che valore date a questa iniziativa?

La mia Università si avvia a festeggiare, nel 2022, i suoi primi ottocento anni di storia, essendo la sesta più antica al mondo. Dal Trecento il nostro Ateneo è luogo di libertà di ricerca, di espressione e di insegnamento. Abbiamo laureato la prima donna al mondo e per diciotto anni Galileo Galilei ha potuto lavorare in piena autonomia a Padova. La medicina moderna nei fatti è nata a Padova, anche grazie all’arrivo di studiosi da tutta Europa che qui potevano lavorare indipendentemente dalla loro professione di fede. Per tutte queste ragioni iscritte nella nostra storia siamo interessati alle iniziative che promuovano la cultura scientifica, la razionalità critica, la libertà di ricerca. Per le celebrazioni dell’Ottocentenario vogliamo che la comunicazione della scienza sia al centro dei nostri progetti, perché in Italia è quanto mai necessario rafforzare la cittadinanza scientifica e la democrazia della conoscenza.

La tua Università è molto attiva, appunto, sul fronte della divulgazione della scienza. Quali sono le linee strategiche sulle quali vi state muovendo? Quali le iniziative che reputi più significative e perché?

Comunicare la scienza è un dovere civile di trasparenza e di responsabilità per ogni scienziato. Noi abbiamo un patrimonio immateriale e materiale (le nostre ricchissime collezioni scientifiche plurisecolari; l’Orto botanico universitario più antico del mondo e Patrimonio Unesco) che intendiamo valorizzare, offrire e condividere con il grande pubblico, anzi con la molteplicità di pubblici che oggi si avvicinano alla scienza. La prima linea strategica è quella di lavorare a progetti che lascino un’eredità permanente alla città, e non soltanto a eventi effimeri. La seconda è quella di aggiornare la comunicazione della scienza ai linguaggi più avanzati del digitale. Dalla fine di maggio abbiamo rivoluzionato le nostre testate giornalistiche, fondendole tutte in un unico web magazine cross-mediale, Il Bo LIVE (ilbolive.unipd.it ), in cui i nostri contenuti (scoperte, ricerche, ospiti internazionali, eventi, dibattiti, approfondimenti, commenti su temi del giorno, etc.) vengono raccontati intrecciando e mescolando in modo sperimentale i diversi linguaggi del web, dai podcast ai video youtube, dai social al primo blog del nostro Ateneo. Siamo un’Università, quindi dobbiamo fare ricerca anche sui linguaggi del futuro e su nuovi format.

Una delle questioni più dibattute nell'ambito della comunicazione della scienza è quella della misurazione degli effetti delle diverse attività che vengono realizzate. A che punto siamo da questo punto di vista secondo te?

Mi pare che i misuratori più ambiziosi proposti finora (per esempio il numero di iscritti a corsi di laurea scientifici) siano poco realistici. La quantità di partecipanti ai festival e alle mostre non si accompagna necessariamente all’apprezzamento per la qualità della proposta. Ma se intrecciamo criteri qualitativi e quantitativi possiamo farci un’idea dell’impatto e del consenso di un’attività di comunicazione. In generale, la mia impressione è che in Italia il “movimento” di chi è interessato alla scienza sia molto ampio, stratificato, motivato, e assai sottovalutato. Lo si nota dall’intensità (non solo dai numeri) della partecipazione ai numerosi festival e alle mostre scientifiche in Italia, ma anche dal lusinghiero riscontro di iniziative di stampa, radio, tv e web dedicate alla scienza. Se raccontata bene, la scienza al pubblico italiano piace moltissimo. Lo mostrano anche le rilevazioni sulla fiducia degli italiani negli scienziati, sempre in cima alle classifiche per autorevolezza e attendibilità. Gli unici che ancora non sembrano accorgersene sono i nostri politici, a tutti i livelli e di tutti i colori (che al contrario stanno sempre in fondo alle classifiche di fiducia).

Parliamo della formazione dei futuri divulgatori della scienza: su quali elementi è utile puntare secondo te? Cosa state facendo come Università in questo ambito? Quali innovazioni sarebbe opportuno sviluppare?

La comunicazione della scienza deve abbandonare qualsiasi tentazione sacerdotale o paternalistica. Deve misurarsi con i linguaggi che cambiano e favorire una partecipazione attiva e democratica ai contenuti della scienza. Il rigore di chi è competente deve sempre unirsi alla disponibilità al confronto, al dialogo con interlocutori differenti, alla trasparenza e alla chiarezza del messaggio. Chi riceve un’offerta di comunicazione scientifica deve sentirsi coinvolto in un’esperienza emozionante, deve fidarsi e non vergognarsi di ciò che ancora non sa. Succede per esempio nelle esperienze migliori di didattica interattiva della scienza per i bambini più piccoli, quelle che riescono a innescare i talenti innati da ricercatore che ogni nostro bimbo possiede.

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L’Orto botanico di Padova
Oltre alla produzione editoriale, hai portato la comunicazione della scienza, anche a teatro; penso ad esempio allo spettacolo con la Banda Osiris e Federico Taddia sul tema dell’evoluzione. Si tratta di una formula che secondo te può essere estesa anche ad altri campi? Quali sono stati gli elementi chiave del successo di quello spettacolo, che potrebbero essere ripresi per altre produzioni analoghe?

Fa parte di quella ricerca di linguaggi nuovi di cui parlavo prima e che trovo essenziale. Ad un certo punto mi sono reso conto che con i miei saggi divulgativi raggiungevo sempre la stessa nicchia di pubblico, di lettori fortemente motivati. Alle presentazioni mi accorgevo che erano già tutti perfettamente convinti di quanto stavo dicendo. Allora ho pensato che non stavo in realtà incidendo, che non stavo più sorprendendo nessuno con le mie storie di scienza e di evoluzione. L’esperienza teatrale bellissima con i quattro grandi musicisti della Banda Osiris e con un autore di talento come Federico Taddia, nata per caso in un Festivaletteratura di Mantova, mi ha aperto la strada di un’esperienza inedita che ha avuto davvero un successo per me inaspettato. La platea dei teatri viene esposta a una situazione inizialmente disorientante in cui una voce scientifica, la mia, dialoga con quella di un giornalista autore di satira sociale, ed entrambe si lasciano interrompere e perturbare dalle irruzioni musicali e cabarettistiche della Banda. Il tutto parlando di un tema scientifico qualsiasi purché narrabile, che può essere l’estinzione della biodiversità (“Finalmente il finimondo”) come l’evoluzione dei sessi (“Il maschio inutile”). Dopo un’ora e mezza il pubblico esce arricchito di contenuti scientifici che non riuscirei a far passare nemmeno in tre conferenze e nel frattempo non se n’è accorto perché ha riso, ha pensato, si è lasciato trascinare da uno spettacolo che ogni tre minuti cambia registro e situazione. Trovo che sia una modalità estremamente efficace e innovativa per fare comunicazione della scienza.

Per quanto riguarda il rapporto tra scienza e società, la cronaca ci mostra come alcune questioni siano particolarmente calde e dibattute, penso al tema dei vaccini in primo luogo. La politicizzazione di temi scientifici è un fenomeno non solo italiano, penso per esempio alle posizioni di Trump sul cambiamento climatico: si tratta secondo te di un fenomeno in crescita? Nella tua prospettiva, quali altre questioni rilevanti potranno aprirsi nel prossimo futuro?

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Cortile Palazzo Bo
Credo che sia un effetto collaterale, spiacevole e pericoloso, del successo della comunicazione in rete e sui social, che favorisce polarizzazioni ideologiche, tribalizzazioni del pensiero, violenza verbale. Una minoranza manipolabile di esagitati fa leva su questo insperato megafono planetario e sfoga le sue frustrazioni. I temi sono già molteplici (l’evoluzione, il cambiamento climatico, le bufale nutrizionistiche, etc.) e quando cresce la sfiducia di alcuni nei confronti di qualsiasi istituzione, compresa la scienza, la porta è aperta per la diffusione di negazionismi, estremismi, fondamentalismi, primitivismi. Se poi talune forze politiche si mettono strumentalmente a cavalcare la pancia di questo pubblico, senza la competenza necessaria per offrire soluzioni, il pasticcio è completo. Poi un bel giorno d’improvviso la crisi ambientale, unita alle diseguaglianze globali crescenti e vergognose, si farà sentire con tutta la possanza di cui è capace la natura e allora ci sveglieremo volenti o nolenti da questi torpori irrazionali. Capiremo che non ci sono più orticelli né sovranitàda difendere, perché ce li saremo bruciati, ma ce ne accorgeremo come sempre nell’imminenza del pericolo e mai prima. La lungimiranza è la virtù meno praticata da Homo sapiens.

Per quanto riguarda il nostro Paese, pensi che esista un problema di scarsa conoscenza scientifica, in confronto ad altri contesti simili a noi? Se sì, quali pensi ne siano le cause?

I dati sociologici ci dicono che l’Italia è messa abbastanza male come educazione scientifica, ma non tanto peggio di altri Paesi economicamente avanzati. I nostri ricercatori sono apprezzatissimi all’estero e la nostra efficienza nella produttività scientifica batte quella di grandi potenze che investono molto più di noi nella ricerca (come ha confermato a febbraio la rivista Nature). Quindi i percorsi formativi che stanno alle spalle dei nostri giovani più competitivi non sono poi così male e dovremmo estenderli a una platea più larga di studenti. Se dessimo risorse e opportunità di lavoro stabile a queste ragazze e a questi ragazzi italiani, farebbero faville. Il problema gravissimo (e non più rinviabile) del nostro Paese sta semmai nella carenza culturale pesante delle nostre classi dirigenti, che ignorano completamente i temi della ricerca e dell’innovazione. E noi continuiamo a votarli. La selezione delle classi dirigenti in Italia è scomparsa, e se ne vedono gli effetti.

Nel tuo intervento al CICAP Fest parlerai delle ragioni evoluzionistiche del credere, un tema che hai trattato in primo luogo nel libro Nati per credere, scritto con Vittorio Girotto e Giorgio Vallortigara. Ci puoi anticipare il senso della tua relazione?

Vorrei spiegare perché le bufale, le fake news e l’irrazionalità sono così suadenti per la nostra mente, che predilige intuitivamente spiegazioni finalistiche, animistiche, dietrologiche. Lo mostrano molti esperimenti di psicologia cognitiva e dello sviluppo, interpretabili anche in chiave evoluzionistica. Questo significa che il nostro nemico è più insidioso di quanto finora ipotizzato, perché quando ci opponiamo a quel tipo di pensiero antiscientifico dobbiamo fare doppia fatica, dobbiamo difendere argomenti e ragionamenti che sono contro-intuitivi. Ecco perché la comunicazione è fondamentale.

Una ragione per convincere gli indecisi a venire a Padova per il CICAP Fest?

Perché sarà una festa della scienza, dello scetticismo razionale e del libero pensiero. Per un pubblico di ogni età e per le famiglie. Uno spazio di confronto e di discussione, ma anche di aggiornamento sui temi di frontiera della scienza del XXI secolo. Con relatori di grandissimo valore da tutta Italia e un programma che offre ogni giorno una gamma ricchissima di opzioni per tutti i gusti, dalle conferenze ai seminari, dai laboratori agli spettacoli. E poi perché le sedi del festival saranno quelle bellissime di una città che, tornando all’inizio, da otto secoli difende con orgoglio la sua “patavina libertas”.

Grazie, ci vediamo a Padova allora!
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