Il grande inganno della macchina Kirlian

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Semën Davidovič Kirlian (Krasnodar, 20 febbraio 1898 - 4 aprile 1978) era uno scienziato, inventore e fotografo russo. Nel 1939, egli scoprì quello che oggi viene chiamato “effetto Kirlian”, un procedimento fotografico grazie al quale, per un certo periodo, si è ritenuto fosse possibile vedere l’aura vitale che, secondo alcune credenze New Age, circonda ogni essere.

Kirlian aveva sempre avuto una grande passione per l’ingegneria elettrica, accompagnata da una innata propensione a progettare invenzioni. Dopo aver costruito diversi apparecchi elettrici, fu chiamato come riparatore di macchine fotografiche e di apparecchiature elettriche dell’ospedale della città.

Durante la riparazione di un generatore, egli venne investito da una scarica elettrica ad alta tensione (alternata ad alta frequenza), ma di bassa intensità (circa 0.1 A). Tale scarica non era dannosa, ma fu sufficiente a dare luogo a dei piccoli aloni luminosi che circondavano le sue dita e gli elettrodi stessi del generatore. Incuriosito da questa scoperta, decise di provare a catturare tale bagliore con la pellicola fotografica.

Come prima cosa provò a fotografare delle monete, poi provò direttamente con la sua mano. Ebbe quindi l’intuizione di ripetere l’esperimento inserendo un foglio di carta fotosensibile tra il bagliore elettrico e la sua mano, cercando, nello stesso tempo, di riprendere tramite una foto l’immagine dell’accaduto. Una volta effettuato il test, Kirlian si accorse che sulla pellicola attorno alle dita della sua mano fotografata apparivano degli aloni luminosi.

Kirlian scoprì dunque che, se si poneva un oggetto a contatto con un foglio di materiale fotosensibile e vi si applicava un’elevata tensione elettrica, in particolari condizioni, l’immagine risultante ritraeva il contorno dell’oggetto circondato da un alone luminescente dai bordi sfumati, il quale appariva colorato se si impiegava materiale sensibile in grado di registrare i colori. Questo effetto venne denominato “effetto Kirlian”.

Gli studi e le ricerche proseguirono insieme alla moglie, Valentina Khrisanovna Kirliana. I due provarono a fotografare parti di esseri viventi, sia animali che vegetali, sia morti che vivi, utilizzando un apparecchio fotografico costruito dallo stesso Kirlian, che in seguito fu chiamato Camera Kirlian. La Camera Kirlian era formata da una bobina, grazie alla quale veniva inviato un certo quantitativo di carica ad alta tensione e bassa intensità a una piastra di alluminio, completata da una lastra di vetro e da una pellicola fotosensibile.

Nel 1948, Kirlian depositò la sua scoperta all’ufficio brevetti di Mosca, registrandola come un «determinato effetto ottico-fotografico, ottenuto mediante strumentazione e attraverso impiego di energia elettrica, osservabile sugli stessi oggetti fotografati».

Quando videro i primi risultati, Kirlian e la moglie pensarono di aver trovato il modo per fotografare l’aura, una sorta di campo o radiazione luminosa invisibile che circonderebbe il corpo umano. Prima dell’invenzione della Camera Kirlian, si diceva che solo certi sensitivi potessero osservare l’aura delle persone, ma che questa non potesse essere registrata da alcuno strumento scientifico. La somiglianza tra le fotografie Kirlian e l’aspetto che, nell’immaginazione collettiva, si attribuisce all’aura, aveva portato a ipotizzare che l’alone luminescente delle fotografie Kirlian fosse proprio l’aura e che da essa fosse possibile ottenere informazioni sullo stato psicofisico di un soggetto, o addirittura si potesse certificare la presenza di poteri psichici, confermando strumentalmente le ipotetiche capacità terapeutiche che scaturirebbero dalle mani di un guaritore.

Secondo i seguaci della tecnica Kirlian, lo studio dell’aura poteva aiutare persino nella diagnosi delle malattie, in quanto, secondo loro, la presenza di un’aura liscia e regolare rappresenterebbe un segnale di buona salute, mentre un’aura frastagliata indicherebbe la presenza di una qualche malattia. Dalla colorazione dell’aura, inoltre, si potrebbero dedurre ulteriori informazioni sullo stato psichico del soggetto.

La convinzione che quella fotografata fosse proprio l’aura fu messa presto in crisi, quando i due coniugi iniziarono a fotografare oggetti inanimati e si accorsero, con delusione, che anche questi sprigionavano lo stesso tipo di alone, con gli stessi colori: bianco, blu, giallo, rosso e arancione, a seconda delle condizioni in cui l’oggetto veniva fotografato. È famosa, a tal proposito, la foto di una chiave inglese, attorno alla quale si vede la stessa aura che compare intorno a una mano o a una foglia.

Negli anni sessanta, gli studi dei coniugi Kirlian ebbero un certo seguito negli Stati Uniti, dove le fotografie fatte tramite la Camera Kirlian furono utilizzate per l’analisi della conducibilità elettrica dei materiali industriali e nella chimica delle vernici e di settori simili. Le interpretazioni di tipo parapsicologico furono accantonate lasciando spazio alla spiegazione scientifica del fenomeno.

In fisica, infatti, l’effetto in questione è comunemente noto con il nome di effetto corona, un fenomeno per cui una corrente elettrica fluisce tra un conduttore a potenziale elettrico elevato e un fluido neutro circostante, generalmente aria. L’alone che si vede nelle foto viene prodotto quando si sottopone un gas (o una miscela di gas, come l’aria) a una tensione elettrica elevata, anche se a bassa intensità di corrente, provocandone la ionizzazione. La causa dell’immagine non è quindi da ricercarsi in una qualche emanazione proveniente dal soggetto, quanto piuttosto nell’energia fornita dalla scarica elettrica.

Nessuno studio rigoroso ha mai mostrato alcuna correlazione certa fra l’immagine Kirlian e un qualsiasi parametro fisiologico significativo, a esclusione forse del grado di umidità della pelle.

I colori che appaiono dipendono dai gas che sono presenti in quel momento nell’atmosfera intorno all’oggetto: il neon dà l’arancione, l’azoto il blu, gli idrocarburi il rosso, l’ossigeno il giallo. Gli effetti cambiano anche a seconda che si usi una pellicola negativa o positiva e che i gas si trovino tra la pellicola e l’elettrodo oppure tra la pellicola e l’oggetto. Sul risultato finale influiscono anche il voltaggio, l’umidità, la posizione dell’oggetto e persino la pressione che si esercita sulla lastra con un dito o con la mano. Le variazioni dell’aura dipendono quindi soltanto dal cambiamento delle circostanze in cui l’oggetto viene fotografato e non hanno alcuna relazione con l’oggetto in sé!

Ancora oggi alcuni vedono nella Camera Kirlian uno strumento per fotografare il “corpo energetico” o il “corpo astrale”. Messi di fronte alla spiegazione scientifica del fenomeno, costoro spesso ribattono citando il cosiddetto “effetto fantasma”, fenomeno per il quale, in alcune immagini Kirlian, vi sarebbe la persistenza di un’aura anche in corrispondenza di una parte del soggetto che è mancante. Per esempio una foglia viene tagliata su un lato e, malgrado ciò, la fotografia mostra l’aura dell’intera foglia. Esperimenti del genere si dice sarebbero stati fatti anche con arti amputati e dimostrerebbero l’esistenza di una sorta di “corpo eterico”, che si troverebbe “in parallelo” al corpo fisico. Tale componente “eterica” permarrebbe anche in assenza del corrispondente fisico.

Se, però, si prova a eseguire una fotografia Kirlian usando, per esempio, una foglia e se ne rimuove una parte, ciò che accade è che non si vede nessuna luminescenza in corrispondenza della parte mancante. La vicenda dell’aura nella parte mancante sembra quindi avere tutti i presupposti per essere una storia affascinante, trascritta su libri e riviste come se fosse vera, ma mai verificata al di là di ogni ragionevole dubbio.

Esiste, tuttavia, una ipotesi su come, escludendo trucchi fotografici di post-produzione della foto, si potrebbe ottenere un tale effetto. Se si mette fra le piastre di una macchina Kirlian una foglia umida, e poi se ne elimina una parte, potrebbe vedersi ugualmente una debole luminescenza in corrispondenza della zona in cui è rimasta l’umidità della foglia. Tale ipotesi, però, non ha finora trovato alcun riscontro sperimentale.
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