A volte ritornano

Newton, l'alchimia e la storia delle discipline pseudo-scientifiche

  • In Articoli
  • 23-06-2016
  • di Leonardo Anatrini
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L'alchimista di Pietro Brugel Il Vecchio
Che Isaac Newton, padre della fisica classica e scienziato fra i più sublimi di ogni tempo, fosse un profondo conoscitore dell’alchimia, è cosa che ormai non desta più lo stupore di quanti, anche solo per diletto, si interessano ad avvenimenti, protagonisti e opere di quelle che nel corso della storia sono entrate a far parte del novero delle discipline scientifiche. Eppure il recente passaggio in asta di un breve scritto alchemico redatto dal grande scienziato inglese ha scatenato nuovamente una serie di pruriginosi sensazionalismi basati, a parer nostro, su motivazioni non molto distanti da quelle che suscitarono inaudito clamore (anche e soprattutto all’interno della comunità accademica) all’indomani della prima messa all’incanto degli scritti alchemici newtoniani, avvenuta fra 13 e 14 luglio del 1936 presso Sotheby’s a Londra, per conto di Gerard V. Wallop, IX conte di Portsmouth, il quale li aveva ereditati da una pronipote di Newton.

Le vicende di questi scritti sono ormai celeberrime, ma ripercorriamole brevemente.

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Isaac Newton
Nel 1888 gli ultimi eredi di Newton tentarono invano di donare a più istituzioni, fra le quali figurano il British Museum, l’Università di Cambridge, nonché le americane Yale, Harvard e Princeton, le carte del loro illustre avo, rifiutate forse perché ritenute contenutisticamente superflue, forse perché rischiavano di ledere irrimediabilmente la fama di uomo di scienza che il positivismo ottocentesco aveva accuratamente confezionato per vestire la memoria del personaggio storico. Quando furono immessi sul mercato, gli scritti alchemici vennero in buona parte venduti all’economista inglese John M. Keynes, il quale con raro slancio filantropico ne donò in seguito gran parte al King’s College di Cambridge. Rendere finalmente fruibile un patrimonio così vasto e prezioso permise per la prima volta di elaborare un’immagine storicamente accurata di Isaac Newton, genio immortale ma anche e finalmente uomo del suo tempo. I principali fautori di questo insostituibile servizio reso alla storia della scienza furono Richard S. Westfall, fra i primi accademici a studiare il vastissimo corpus alchemico newtoniano (che per primo stimò come superiore al milione di parole) nonché suo più fine biografo, e Betty J. T. Dobbs, che con inaudito sforzo ermeneutico tentò di contestualizzare l’opera del Newton alchimista all’interno delle vicende del Newton scienziato in due testi rimasti celebri e per molti aspetti oggi ancora insuperati, pubblicati nel 1975 e nel 1991. Tale lodevole operato viene oggi portato avanti dallo storico William R. Newman, impegnato da anni nello studio della storia dell’alchimia e dei contribuiti da essa forniti al progresso delle scienze esatte, nonché principale curatore del progetto di digitalizzazione dei manoscritti alchemici di Newton, denominato The Chymistry of Isaac Newton[1].

Torniamo ora alla pietra di scandalo. Lo scorso 14 febbraio la casa d’aste Bonhams ha messo in vendita (lotto 87) un piccolo manoscritto alchemico di 6 pagine, autografo newtoniano plausibilmente risalente alla seconda metà degli anni ‘70 del XVII secolo - che per pura precisione antiquariale è da identificare con il lotto 75 dell’asta del 1936, fra quelli che Keynes non acquistò -, aggiudicato alla Chemical Heritage Foundation (un’organizzazione indipendente no-profit con sede a Philadelphia) per $ 112.500,00, cifra davvero spettacolare, soprattutto se paragonata alle circa £ 9.000,00 realizzate per la vendita dell’intera collezione nel 1936 (poco più di mezzo milione di Euro al cambio attuale).

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L'Alchimista di Pietro Longhi
Ma quali segreti cela questo prezioso manoscritto? Ecco la sorpresa. L’unica fonte sufficientemente attendibile per l’analisi del manoscritto è la scheda catalografica realizzata dagli esperti di Bonhams, dal momento che dei numerosi articoli pubblicati in rete in merito alla questione, la maggior parte, quando non privi persino dei riferimenti fondamentali, contribuiscono solo ad aumentare quella confusione che nello studio della storia delle discipline pseudo-scientifiche è già di casa (ne è un brillante esempio l’articolo pubblicato sul sito del National Geographic[2], comunque non scevro di interessanti e validi spunti storico-scientifici).

Prima di inoltrarci in una rapida analisi del manoscritto sarà opportuno spendere due parole per chi non sia pratico dell’argomento qui trattato. L’alchimia, come disciplina pseudo-scientifica, ha una doppia applicabilità, in quanto ha sia una valenza materiale, atta a svelare i segreti della generazione della materia nel tentativo di replicare e perfezionare l’operato della natura, sia una valenza spirituale, finalizzata alla rinascita e al perfezionamento dell’uomo in quanto creatura di Dio.

Durante tutto il XVII secolo l’alchimia era parte integrante del curriculum di studi di quanti si dedicavano alla filosofia naturale, quindi non deve impressionare il fatto che menti del calibro di Robert Boyle, John Locke e Gottfried Wilhelm Leibniz - oltre a Newton e solo per citarne alcuni fra i più famosi - si interessassero alla ricerca della Pietra Filosofale e alla trasmutazione dei metalli. Davanti alla mancanza di conoscenze circa la composizione e la struttura della materia, le teorie alchemiche potevano anche essere utilizzate per lo studio della natura nel tentativo di colmare un innegabile vuoto conoscitivo; col progredire degli studi, degli innumerevoli errori e delle sensazionali scoperte, siamo riusciti ad ottenere risultati scientificamente validi, ci siamo progressivamente affrancati da quanto la scienza non poteva dimostrare in quanto inconciliabile con il metodo sperimentale e così al termine del XVIII secolo sono state infine gettate le fondamenta della chimica moderna.

Tutto questo serve a chiarire due punti fondamentali. Primo: il fatto che persino un uomo di scienza come Newton si sia interessato di alchimia indubbiamente non riveste questa pratica di nuova attendibilità scientifica; questo poiché le verità scientifiche sono garantite dal metodo sperimentale, non certo da una o più autorità. Secondo: dal momento che al giorno d’oggi dovrebbe ormai essere chiaro che il progresso scientifico nel suo svolgersi storico non è una sterile successione di intuizioni vincenti slegate da un qualsiasi contesto, quanto piuttosto una lotta per la conoscenza oggettiva, fatta di errori, confutazioni, vittorie e sconfitte, è un grave errore continuare ad adottare un’analisi storica atta a relegare quelle che oggi definiamo giustamente pseudo-scienze a un ruolo liminale, bizzarro passatempo di menti ottenebrate, poiché così facendo si rischia di eliminarle dalla storia stessa, con l’implicita conseguenza di ripetere gli errori del passato, i quali abbondano soprattutto dove e quando la memoria storica viene meno.

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Pagina dal Trattato alchemico di Raimundus Lullus
Ma non dilunghiamoci oltre e torniamo al manoscritto.

Esso consta, almeno per quanto concerne le prime 5 pagine (della sesta e ultima, plausibilmente contenente commenti originali di Newton al testo, non è stata divulgata alcuna immagine), di una trascrizione pressoché integrale di un’operetta alchemica ascrivibile a colui il quale può essere definito con una certa sicurezza uno degli autori preferiti da Isaac Newton, l’alchimista e medico George Starkey (1628 - 1665), nato e vissuto fino al 1650 in America, poi trasferitosi a Londra, dove cominciò a far circolare le sue opere alchemiche sotto le pseudonimo di Eirenaeus Philaletes (i.e. Pacifico amante della Verità), molte delle quali pubblicate postume all’indomani della sua prematura scomparsa durante la Grande Peste di Londra (1665 - 1666). L’operetta è intitolata Preparatio Mercurij ad Lapidem per Regulum Martis Stellatum et Lunam, ex manuscriptis Philosophi Americani (Preparazione del Mercurio per la Pietra, per mezzo del Regolo Stellato di Marte e della Luna, dai manoscritti di un Filosofo Americano).

Questa è forse l’unica informazione esatta che possiamo trovare nei vari articoli pubblicati nelle ultime settimane riguardo al manoscritto.

Da una più attenta analisi questo sembrerebbe una delle classiche copie (spesso più o meno epitomate) che Newton redigeva delle opere da lui più apprezzate e non, come è stato scritto anche nella scheda catalografica di Bonhams, una redazione alternativa dell’opera e precedente alla sua prima edizione, pubblicata nel 1678 nella miscellanea alchemica intitolata Enarratio methodica trium Gebri medicinarum (pp. 181-188). Rispetto ad essa infatti si registra l’assenza di un brevissimo capitolo, il quinto, riguardante la reiterazione delle operazioni di purificazione del mercurio filosofico, mentre quello che dovrebbe essere il settimo si trova diviso in due differenti capitoli.

Newton era piuttosto attento a quelle che erano le novità editoriali dei suoi argomenti di ricerca e fra i suoi manoscritti non sono rari i riassunti e le antologie redatte poco o pochissimo tempo dopo la pubblicazione delle opere alle quali tali scritti fanno riferimento.

Ma cosa dovrebbe essere il mercurio filosofico? L’opera parla solo di questo? Tale manoscritto prova che Newton abbia effettuato operazioni di laboratorio finalizzate all’ottenimento di preparati alchemici? Tutte domande alle quali i già citati articoli tentano in varia misura di dare risposta.

Andiamo con ordine.

Sebbene il titolo possa trarre in inganno, il genere al quale appartiene questa opera rappresenta un vero e proprio classico della letteratura alchemica: si tratta infatti di una recapitulatio, una sorta di riassunto in forma breve che solitamente si trova al termine o in appendice a opere alchemiche molto più estese. Essa riguarda tutte le operazioni della Grande Opera finalizzate all’ottenimento della famigerata Pietra Filosofale. Detto questo, bisogna poi precisare che nell’alchimia di periodo medievale e moderno il mercurio filosofico è una sorta di materia prima universale, il punto di partenza di ogni operazione alchemica, senza la quale è impossibile ottenere la Pietra. Infine basterà rammentare come già da tempo sia cosa nota che Newton occupò oltre trent’anni della sua vita tanto nello studio teorico dell’alchimia quanto nella relativa pratica di laboratorio; allo stesso modo già Betty J. T. Dobbs aveva mostrato come Newton fosse riuscito ad ottenere il misterioso mercurio filosofico, dal momento che sicura testimonianza del fatto si conserva nel manoscritto n° 18 della collezione Keynes[3], la cosiddetta Clavis (Chiave), testo derivato da una lettera inviata da Starkey a Robert Boyle risalente al 1651 e dedicato alla spiegazione delle operazioni miranti all’ottenimento di tale preparato.

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L'Alchimista di Mattheus van Hellemont ©The Alchemist
Questo nuovo manoscritto mostra ancora una volta quanto Newton fosse versato nello studio e nella pratica dell’alchimia. Rispetto al testo originale la maggior parte degli agenti e delle operazioni non sono indicati in latino per esteso (come nella prima edizione a stampa dell’opera di Starkey) bensì sostituiti da relativi simboli, tipici dell’alchimia seicentesca. Inoltre nella prima pagina sono ben visibili le glosse newtoniane al testo - fra parentesi quadre, come di consueto nei suoi manoscritti - inerenti le quantità dei singoli ingredienti, correzioni che non possono che essere il frutto di ricerche di laboratorio. Dopo tutto ciò sarà comunque bene ricordare che Newton fu anche uomo di scienza nel senso più moderno dell’espressione, la qual cosa si può facilmente intuire dalla mancata volontà di pubblicare i risultati dei suoi studi alchemici, forse non tanto per amore della segretezza e del mistero della pratica alchemica o in ottemperanza al suo linguaggio simbolico e variamente codificato (non per niente, in più di un’occasione, nei manoscritti newtoniani - come nel MS Keynes 18 - si osservano vere e proprie decifrazioni di simbologie e nomenclature alchemiche, fatto assolutamente eccezionale), quanto piuttosto perché lui stesso, volendo anche evitare eventuali critiche, preferì rendere pubblici risultati sperimentalmente comprovati, rispetto alle speculazioni dell’alchimia, e anche quando non riuscì a rinunciare alla speculazione, essa si trova, all’interno delle sue opere pubblicate, coerentemente separata dai fatti scientificamente dimostrabili: ne sono due fulgidi esempi lo Scholium generale, un breve commento filosofico pubblicato al termine dei Principia (dalla seconda edizione in poi) e le Queries, i Quesiti costituenti il terzo libro degli Opticks.

Riaffermare questo di Newton equivale a rendere un servizio alla preservazione della memoria storica dello sviluppo delle discipline scientifiche, e non solo. Newton è ancora oggi un meraviglioso esempio di come spesso la scienza coincida col dubbio e di come quel dubbio sia la spinta imprescindibile per l’ottenimento di nuova conoscenza. Studiare la storia delle discipline scientifiche, così come preservare memoria dei propri errori, aiuta a non reiterarne le dannose conseguenze e permette di non consegnare la scienza al limitato e irraggiungibile regno delle verità ultime, che la trasformerebbe in dogma, annullandone senso e scopo.

Note


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