Isaac Newton e la pietra filosofale

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©The alchemichal quest, Chemichal heritage foundation, flickr cc
Che Harry Potter, il mago più famoso degli ultimi tempi, abbia avuto a che fare, nel corso delle sue avventure, con la famigerata pietra filosofale, non è certo una sorpresa. Infatti (per quei pochi che non lo sapessero), nel mondo della magia e dell’alchimia la pietra filosofale costituisce la sostanza dotata del potere di trasformare i metalli vili in elementi preziosi e capace di donare l’immortalità.

Tutta la ricerca alchemica è contraddistinta da una duplice valenza, materiale e spirituale; da una parte si presenta come un’attività pratica volta al miglioramento di tecniche che oggi definiremmo di tipo chimico; dall’altra è concepita come un mezzo che può condurre gli uomini alla rigenerazione e alla salvezza.

Scoprire invece che anche Isaac Newton, uno dei simboli della scienza moderna, ha avuto a che fare con l’alchimia può provocare qualche imbarazzo. La cosa si fa seria quando si viene a sapere che Newton dedicò alla lettura, alla trascrizione e al commento di testi alchemici un tempo probabilmente superiore a quello che impiegò nello studio della fisica, lasciandoci in eredità alcune migliaia di pagine manoscritte composte nell’arco di tutta la sua vita. La questione rischia di diventare fonte di disperazione nel momento in cui non si può fare a meno di constatare che fra gli interessi di Newton c’erano non solo l’alchimia, l’interpretazione delle Sacre Scritture e la ricostruzione della cronologia universale, ma anche alcuni dei temi tipici della tradizione ermetica, ad esempio quello dell’antica sapienza. E se Newton fosse stato davvero un mago? Così la pensava il celebre economista John Maynard Keynes, il quale, nel 1936, acquistò una parte dei manoscritti inediti di Newton, manoscritti che fino ad allora erano stati accuratamente nascosti o volutamente ignorati. Fra le istituzioni che si rifiutarono di acquisirli vanno ricordate l’Università di Cambridge, il British Museum e le università americane di Harvard, Yale e Princeton. Solo a partire dagli anni cinquanta del Novecento questi fondamentali testi sono stati seriamente studiati dagli specialisti di storia della scienza e hanno contribuito a modificare, in maniera irrevocabile, l’immagine di Newton come “scienziato positivo” costruita dalle interpretazioni degli storici del tardo Settecento e dell’Ottocento.

Richard Popkin ha scritto in maniera provocatoria che Newton può essere considerato il più grande teologo del Seicento. Maurizio Mamiani ha dimostrato che Newton era convinto che esistesse un unico metodo per interpretare le verità sacre e quelle naturali. Sotto questo profilo, la differenza con Galileo Galilei (di cui parleremo in un’altra occasione) è veramente profonda. Per Newton, infatti, il “libro della natura” e il “libro della Bibbia” potevano essere letti utilizzando le stesse regole e un identico codice. Per questo motivo le celebri Regulae philosophandi contenute nel testo di fondazione della fisica classica, i Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), non sono nient’altro che una versione semplificata di una serie di norme utilizzate per interpretare il testo dell’Apocalisse, molto amato da Newton.

A questo punto gli entusiasti cultori di magia e misteri penseranno di aver trovato in Newton un valido alleato. Infatti, come sarà possibile mettere in dubbio la validità dell’alchimia e di altre discipline collegate al mondo della magia se proprio uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi ne è stato un convinto studioso? Il “lettore scettico” sarà sull’orlo di una crisi di nervi, non sapendo più come far fronte a tale situazione.

È questo il momento in cui la conoscenza della storia della scienza e la “sensibilità da storico” devono entrare in azione. Da molto tempo gli storici cercano di spiegare che la storia della scienza non può essere presentata come una trionfale rassegna di verità che si sono succedute nel tempo. L’atomismo non è il logico passaggio dalla filosofia di Democrito alla teoria di John Dalton (come si continua incautamente a scrivere nei manuali per i licei), così come la fisica classica non è nata solo da discussioni tecniche intorno alla natura del movimento. Ciò che per noi appare ovvio e naturale è invece il risultato di processi complicati, di decisioni difficili, di scelte operate in situazioni diverse da quelle attuali. Alle spalle di un qualsiasi successo scientifico esiste un mondo fatto di lotte, contrasti, dibattiti, immagini della natura in competizione fra loro, idee vincenti ed errori; errori che spesso caratterizzano non solo le teorie sbagliate, ma anche quelle che si affermano, in quanto vere. Copernico, ad esempio, continuò a credere nell’esistenza delle stelle fisse, mentre Lavoisier non abbandonò mai l’idea che l’ossigeno fosse il principio generatore di tutti gli acidi. Per uno storico, è normale che uno scienziato abbia credenze, oppure sia influenzato, nella costruzione della sua opera, da convinzioni di natura metafisica e religiosa, o da tradizioni tipiche del suo tempo. Metterlo in evidenza non diminuisce in alcun modo la forza del sapere scientifico, che è il migliore strumento che abbiamo per la conoscenza della realtà e l’unico in grado di correggere con eccezionale frequenza i propri errori.

Non bisogna aver paura (anche in sede didattica) di mostrare che la scienza è una cosa complessa che emerge da contesti e situazioni complesse. Aver a lungo tenuto nascosti i manoscritti di Newton è stato un errore, perché ha permesso di continuare a presentare un’immagine dello scienziato falsa da un punto di vista storico e una cattiva descrizione dell’evoluzione della scienza moderna dal Seicento a oggi. La specializzazione delle discipline scientifiche, a cui oggi siamo tanto abituati, è un prodotto storico: «Poiché le scienze si sono costruite nel tempo, i criteri con cui connotiamo oggi la ricerca scientifica non possono essere estesi al passato senza danno, e il danno si misura con l’aumento della distorsione, pur inevitabile, con cui la ricostruiamo e la comprendiamo[1]». Nel Seicento le metodologie matematiche e sperimentali furono elaborate contemporaneamente a studi che erano ancora strettamente legati all’aristotelismo, alla tradizione magico-ermetica e alle dottrine di Paracelso, personaggio chiave nella storia della chimica dell'età moderna. Un patrimonio di conoscenze che non era di dominio esclusivo di oscuri filosofi, ma anche di grandi esponenti della rivoluzione scientifica, come ad esempio Keplero. Dunque, il fatto che Newton si sia occupato di alchimia e altre discipline (oggi) “eccentriche” non costituisce un problema, se lo si interpreta nella giusta dimensione storica, perché questo era un interesse del tutto lecito e sensato per un uomo del Seicento. Infatti, soltanto dopo la rivoluzione chimica di Lavoisier (siamo alla fine del Settecento) non avrà più alcun senso, dal punto di vista scientifico, parlare di teorie della materia nei termini utilizzati per centinaia di secoli dagli alchimisti[2]. Quei termini, invece, avevano ancora un significato non solo per Newton, ma addirittura per gli uomini dell’età dell’Illuminismo.

Tuttavia una cosa deve essere ben chiara: il fatto che Newton abbia dedicato molto del suo tempo all’alchimia o alle profezie bibliche non rende quei campi di studio ancora validi né depositari di chissà quali segreti. Nella scienza, l’autorità non conta (era quello che Galileo cercava di spiegare, inutilmente, ai seguaci di Aristotele). Semplicemente, si sono trovate nel corso del tempo nuove teorie e spiegazioni più vere per interpretare i fatti a cui facevano riferimento quelle discipline. Chi si occupa di misteri e di divulgazione scientifica farebbe bene a ricordarselo.

Note

1) Mamiani, M. 1994. La scienza esatta delle profezie, in I. Newton, Trattato sull’Apocalisse. Torino: Bollati Boringhieri, p. 17
2) Ciardi, M. 2003. Breve storia delle teorie della materia. Roma: Carocci
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