Il caldo non è più quello di una volta

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“Chiudi quella porta che esce il caldo … o che entra il freddo”. E viceversa, in estate, in tempi (a volte sospetti per la salute) di uso e abuso di aria condizionata. Sono modi di dire che ci permettono di farci perfettamente capire da chi ci ascolta. Ma cosa sono il caldo e il freddo? Anzi, caldo e freddo sono davvero qualcosa? Qual è il punto di vista scientifico su questa terminologia?

Come al solito: la storia è lunga e affascinante. I tratti salienti di questa storia sono comunque quelli che prevedevano una “sostanzialità” del calore. Non abbiamo dubbi che il nostro organismo sia predisposto a comunicarci sensazioni che chiamiamo di caldo e freddo, anzi, si tratta di un sistema di interazione con il mondo esterno che ci evita (o prova a limitare) i danni che condizioni estreme posso causare. Questa familiarità – come spesso accade – ha provocato una visione quasi inevitabilmente materiale – di sostanza, per l’appunto – di ciò che in realtà, almeno nel nostro sistema di osservazione e misura, è “soltanto” una sensazione. Come a dire, se sentiamo freddo, significa necessariamente che il freddo esiste, qualunque cosa esso sia. Il contrario del freddo – nel nostro linguaggio – è il caldo. Dunque possiamo assegnare un “segno” (un colore: azzurro e rosso, come sui nostri rubinetti e sulle nostre caldaie) a questa misteriosa sostanza. E anche un nome, il mitico (e sorpassato, nei libri di fisica) “calorico” o il bruciante “flogisto”. Un fluido che ristagna in qualsiasi pezzo di materia (solida o meno, non importa) e che all’occorrenza scorre verso altri pezzi di materia che di questo fluido ne contengono meno, provocando il “passaggio di calore”, quello che appunto chiamiamo in causa quando ci scappa la finestra aperta d’inverno. Le cose stanno diversamente, com’è probabilmente ben noto. La situazione è, come spesso accade nell’evoluzione del pensiero scientifico, tale da configurare una visione di questa classe di fenomeni complessivamente più semplice e organica, di maggior potere predittivo e, ovviamente, più vicina alla realtà dei fatti (qualunque essa sia) di quanto si possa ottenere con gli approcci “antichi” alla medesima questione. Un corpo caldo non contiene qualcosa di più di uno freddo. Si trova piuttosto in uno “stato energetico” differente, tale condizione essendo misurata con precisione eventualmente elevatissima con uno strumento sensibile alla temperatura dell’oggetto. Certo, è necessario stabilire come si possa definire (concettualmente e operativamente) questa nuova grandezza ma, una volta fatto, si può procedere più speditamente all’inquadramento di pressoché ogni fenomeno che, guarda caso, è classificato con l’aggettivo “termico”. Uno stato più o meno energetico è, in prima approssimazione, riconducibile a una corrispondentemente maggiore o minore “agitazione”, mobilità, eccitazione, o disponibilità a essere tale delle parti microscopiche, fondamentali che costituiscono il sistema sotto esame. Un gas è fatto da atomi o molecole che vagano caoticamente nello spazio a disposizione con velocità medie tanto più elevate quanto maggiore è la temperatura del gas stesso. Gas caldo vuol dire che esso possiede una “energia cinetica media” maggiore di un gas (più) freddo, anche se più in dettaglio ci sono altri modi per immagazzinare questo stato energetico. Il fatto di avere più o meno energia “interna” al sistema non è di per sé una condizione sufficiente a stabilire in che modo questa energia potrà essere “spesa” per combinare qualcosa, possibilmente di misurabile con uno strumento o visualizzabile macroscopicamente. Un sistema con una certa energia ha una certa temperatura, e questo ce lo dice il termometro, i cui atomi vengono convinti a scuotersi, con maggiore o minore convincimento, dagli atomi del sistema in esame. Quando gli atomi del termometro e quelli del corpo con il quale è in contatto sono, in media, egualmente agitati, si è nella condizione di “equilibrio termico”, e dunque possiamo leggere il valore della temperatura, che è dunque una misura proprio del suddetto equilibrio. Un pezzo di sostanza a varie temperature può fare varie cose, se posto in contatto con un ambiente con il quale interagire (microscopicamente: porre “in contatto” – per modo di dire – atomi della sostanza e quelli dell’esterno). Se l’ambiente è più freddo, meno agitato, il contatto diventa causa e motore di “trasferimento di agitazione”, che avviene per tramite di urti su scala atomica. Gli urti sono scambi di energia, di movimento (quantità di moto, come si dovrebbe dire in gergo) e sono bidirezionali: per il principio di azione e reazione, che vale anche su scala atomica, gli atomi più movimentati in media rallentano a favore di quelli più tranquilli. Dunque l’oggetto freddo tende a riscaldarsi e quello caldo a raffreddarsi, fino a trovarsi in equilibrio da qualche parte fra le due temperature di partenza. Si può pensare a questo processo in termini di scambio energetico, dunque, il che ci permette subito di vedere il contatto termico in termini non di passaggio materiale di sostanza di qualche tipo ma di modifica media, bidirezionale, condivisa di una proprietà “complessiva” dei partner dello scambio. Non fluisce “qualcosa”, ma cambiano gli stati energetici. Il che, in un certo senso, sottrae visibilità e spontaneità al modello antico del calorico, nonché ai nostri modi di dire relativi alle fughe di caldo attraverso le finestre aperte. Ma non è sempre possibile adattare le realtà naturali alle esigenze del nostro linguaggio, delle nostre idee e intuizioni.

Parlare di trasferimenti di “agitazione” permette di comprendere moltissime classi di fenomeni naturali di tipo termico in movimento, ovvero di tipo “termodinamico”.

Anzitutto, è possibile aprire il capitolo dei bilanci energetici in termini sia “meccanici” che “termici”. Nel primo caso, si parla delle variazioni di stato energetico che si associano all’esecuzione di lavoro meccanico, ovvero in corrispondenza dell’applicazione di forze (quelle grandezze che consentono di mantenere o di allontanare un corpo materiale da una situazione di equilibrio, cioè di continuazione di una immobilità nello spazio e nel tempo). Un corpo ha possibilità di compiere lavoro quando si trova in una condizione energetica “potenzialmente” favorevole, come per esempio quando una massa si trova in una data posizione nel nostro campo di gravità, o una carica è collocata in un campo elettrico. Oppure quando una sostanza è a una certa temperatura, ovvero le sue parti fondamentali, come già detto, hanno un movimento caotico con energia cinetica media a un dato valore. In entrambi i casi i sistemi possono compiere lavoro, ovvero accelerare masse per un tratto di strada. L’energia viene convertita in lavoro. Vale anche l’operazione inversa: possiamo “caricare energeticamente” un sistema lavorando su di esso. Per esempio, la compressione di un gas (come quando si gonfia uno pneumatico con l’azione di una pompa) è un lavoro meccanico compiuto dall’esterno che ha come effetto, oltre a quello desiderato di innalzare la pressione all’interno della camera d’aria, anche quello di aumentare la temperatura, cioè l’energia termica. Questa, a sua volta, è disponibile per la conversione inversa dedicata alla produzione di lavoro. In realtà i passaggi da stato energetico di tipo meccanico (lavoro) a quello termico (calore) non sono simmetrici in natura. Si scopre che è sempre possibile convertire integralmente il lavoro meccanico in calore (come quando ci si strofina le mani per scaldarsele, appunto) ma il contrario ha un prezzo da pagare. La conversione da calore (agitazione) a lavoro (movimento ordinato, come quello del pistone di un motore termico dell’automobile) avviene pur di sprecare, buttare all’aria, letteralmente, un po’ di caos. Dall’ordine al caos sono capaci tutti di passare, si potrebbe dire (lo fa automaticamente la natura), dal caos all’ordine la strada è in salita. Bisogna staccare un biglietto che limita “l’efficienza” della conversione.

Un’altra parte di grande fascino legata all’interpretazione microscopica, fondamentale, dell’energia e del calore (che, ora dovrebbe iniziare a essere chiaro, non è energia ma modo di trasferirla: è vero che tutti dicono “passaggio di calore”, “trasferimento di calore”, e ci si capisce, ma in fisica non è il massimo: “passaggio di calore” si tradurrebbe in “passaggio di passaggio di energia termica” e questo non piace a nessuno, ma tant’è). Passaggi di energia termica (“meccanismi di trasporto del calore”, recitano i libri, anche quelli sacri) possono avvenire per vari motivi. Non che i fisici amino molto le classificazioni come quelle invece giustamente adottate, per esempio, in zoologia, ma in questo caso è consuetudine radicata suddividere i fenomeni di trasporto termico in due famiglie principali. Da una parte ci sono meccanismi nei quali gli scambi energetici avvengono tramite collisioni meccaniche fra atomi e molecole: si parla allora di “conduzione” (se l’energia fluisce fra parti solide in contatto, come quando ci si misura la febbre) e di “convezione” (se l’energia viaggia fra parti fluide, dunque in movimento, come quando si mescolano acqua calda e fredda). Dall’altra ci sono i meccanismi nei quali il vettore energetico non è meccanico ma elettromagnetico: atomi presi a calci da altri atomi si “caricano” di energia che viene liberata (e che viaggia) sotto forma di onde elettromagnetiche, come quando ci mettiamo al sole e, oltre ad abbronzarci, ci godiamo il suo tepore. Energia che viaggia, di tipo ultravioletto, nel primo caso, infrarosso, nel secondo. Molto piacevole, comunque sia.

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