Dobbiamo fidarci della scienza?

Intervista con Naomi Oreskes

  • In Articoli
  • 05-02-2021
  • di Fabio Turone
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Naomi Oreskes. ©Ragesoss Wikimedia
Naomi Oreskes, geologa di formazione, insegna Storia della scienza e Scienze della Terra all’Università di Harvard. Ha scritto un libro, da poco pubblicato in italiano, di fondamentale importanza per chi si occupa di informazione scientifica e per chi è interessato a capire che cosa sta succedendo al clima della Terra. È tradotto in italiano con il titolo di “Mercanti di dubbi. Come un manipolo di scienziati ha oscurato la verità, dal fumo al riscaldamento globale”.

Professoressa Oreskes, vuole raccontarci come è nato questo libro e spiegare perché questi scienziati, anziché cercare la verità, hanno finito per oscurarla?

Eric Conway e io abbiamo scritto “Mercanti di dubbi” per rispondere a una domanda: per quale motivo uno scienziato rispettabile e degno di fiducia dovrebbe attaccare i propri colleghi su determinati temi, mettendo in dubbio il loro operato scientifico e i lavori pubblicati su riviste in revisione paritaria? La questione che ci interessava di più era il cambiamento climatico; tuttavia, abbiamo scoperto che le stesse persone avevano sollevato dubbi non solo su quella scienza, ma anche sulle piogge acide, sul buco dell’ozono e su altre questioni ambientali. Nel corso delle nostre ricerche, inoltre, abbiamo visto che avevano anche lavorato con l’industria del tabacco per insinuare dubbi sulla pericolosità di sostanza. La maggior parte di noi non si sorprenderebbe troppo nello scoprire che l’industria dei combustibili fossili difende quelle fonti energetiche, mostrandosi insieme scettica nei confronti delle prove scientifiche del riscaldamento globale: ciò è facilmente intuibile, dopotutto, dati gli enormi interessi economici in gioco. Qui però si trattava di scienziati di buona reputazione che contestavano lavori scientifici accreditati.

Dall’esame della complessa rete di attività in cui erano coinvolti, è emerso che per questi scienziati non si trattava di una questione di denaro; anzi, non abbiamo trovato nessuna prova che avessero avuto un ritorno economico diretto dal loro lavoro. Naturalmente potrebbero aver goduto di benefici personali di altro tipo, come la gratificazione del loro ego (erano persone che amavano stare al centro dell’attenzione). A muoverli, però, era un’ideologia politica, quella che George Soros definì “fondamentalismo del mercato”. Secondo tale idea, i mercati sono onnipotenti e dovremmo lasciare che siano loro a risolvere i nostri problemi principali senza intrusioni da parte dello stato; in caso contrario si scivolerebbe lungo una china che porta al socialismo e al comunismo. Questo gruppo di fisici proveniva dai tempi della Guerra Fredda e si era formato in un’ideologia fortemente anticomunista: certe prese di posizione furono da loro interpretate come una continuazione della lotta alla diffusione del comunismo. Una visione del genere è erronea e parecchio confusa, a mio parere, visto che mescola insieme varie questioni diverse, ma siamo riusciti a capirla e spiegarla.

In questa strenua opposizione ai dati scientifici che non si conciliavano con una certa ideologia, sono stati impiegati gli strumenti della stessa scienza per indebolirla, contestarla e negarla. Può spiegarci in che modo?

Come storici della scienza, Eric Conway e io siamo abituati a studiare persone che cercano di creare sapere scientifico, persone che si pongono l’obiettivo di accrescere la nostra comprensione del mondo naturale. Per questo motivo all’inizio siamo stati scioccati e piuttosto destabilizzati dalla scoperta di un gruppo di scienziati che, al contrario, creavano ignoranza, disinformazione o false notizie. A tutte le attività in cui erano coinvolti sottostava una strategia ben precisa: quella di creare dubbio, facendo credere a noi, gente comune, che non sappiamo davvero quale sia la verità su certe questioni, e che perciò sarebbe prematuro mettere in atto azioni politiche, strategie nazionali o anche misure da adottare nella vita di tutti i giorni.

Furono impiegate diverse strategie per creare quel dubbio, ma due si rivelarono particolarmente importanti. La prima fu la pedanteria, particolarmente perniciosa perché prende uno dei punti di forza della scienza trasformandolo in una debolezza. Sappiamo che la scienza è complicata e che le prove sono caotiche; una delle sfide è essere onesti sulle aree in cui le prove sono più deboli o i metodi discutibili, restando aperti a critiche e discussioni. Purtroppo è un punto di cui si può fare cattivo uso, esattamente ciò che accadde con il nostro gruppo di scienziati. Ad esempio, sappiamo tutti che i modelli climatici non sono perfetti: molti aspetti del sistema climatico, come il comportamento delle nubi, non sono ben compresi. Ma simili piccole debolezze e domande metodologiche fuori contesto furono gonfiate per screditare tutte le altre conoscenze sul tema, facendo credere che non comprendere l’1% di una questione equivalesse a non saperne nulla. Questa strategia provocò molti danni, rivelandosi uno strumento potente per persuadere altri scienziati che magari non erano ferrati in materia: fisici, chimici o medici facevano eco ai dubbi avanzati, dando l’impressione di una scienza molto più incerta di quanto non fosse nella realtà.

L’altra strategia, e qui l’industria rivestì davvero un ruolo di primo piano, fu quella di finanziare quella che noi chiamiamo “ricerca dell’inazione”. È una forma di depistaggio sviluppata per prima dall’industria del tabacco. Sappiamo sicuramente che fumare tabacco provoca vari tipi di cancro e molte altre patologie, come malattie cardiache, pressione alta, enfisema, bronchiti; non c’è alcun dubbio che fumare sigarette faccia alla salute e che i fumatori abbiano una maggiore probabilità di morte prematura rispetto ai non fumatori, ne abbiamo prove scientifiche schiaccianti. È altrettanto vero, però, che il cancro ha anche cause diverse: il tabacco non è affatto l’unica sostanza a provocarlo. L’industria del tabacco finanziò quindi ricerche sulle altre cause del cancro ai polmoni, come il gas radon o l’amianto. Una mossa ingannevole, molto astuta ma nefasta: in questo modo si potevano "onestamente" accusare quelle sostanze, realmente cancerogene, distraendo l’attenzione dagli effetti del tabacco. Non si trattava dunque di una menzogna, ma di una sorta di diversione, una misdirection. La strategia funzionò piuttosto bene per il tabacco e di conseguenza fu applicata anche ad altri ambiti, come il cambiamento climatico.

C’è in questo qualche parallelo con la situazione attuale causata dalla pandemia da coronavirus?

Sicuramente esiste un parallelo con la Covid-19. Come abbiamo mostrato in “Mercanti di dubbi”, la motivazione che sottostà al negazionismo del cambiamento climatico è il rifiuto di accettare l’importanza del ruolo dello stato nel regolare i mercati e proteggere la competizione, e soprattutto nel gestire aree che i mercati non sanno affrontare bene. Abbiamo visto in molti casi che il cambiamento climatico è un fallimento del mercato, con il settore privato che non è stato in grado di capire come risolvere il problema.

Con la Covid-19 è successo qualcosa di simile, particolarmente negli Stati Uniti. Già a gennaio scienziati e autorità sanitarie dicevano che il virus apparso in Cina non prometteva nulla di buono, che occorreva prendere iniziative e che gli stati dovevano iniziare a fare test e procurare mascherine e respiratori. Il governo Trump si è semplicemente rifiutato: non hanno voluto prendere atto della serietà della situazione, hanno negato le prove scientifiche, hanno tolto spazio alle informazioni degli esperti scientifici, tutto perché non credevano che lo stato dovesse essere coinvolto. Anche dopo che si è palesata l’enormità del problema, la reazione del governo federale è stata quella di delegare ai singoli stati e a livello locali. Certo, molto spesso gli enti locali sono più ricettivi ai bisogni delle persone rispetto al governo federale e possono gestire meglio alcune situazioni, ma ciò non vale per il caso in questione: un’amministrazione locale non può controllare la diffusione di una pandemia. La stessa parola “pandemia” ci indica che è dappertutto; se si tiene sotto controllo in un posto solo, il virus spunterà in un altro e tornerà alla carica.

Negli Stati Uniti abbiamo visto i problemi creati dall’ideologia paralizzante secondo cui lo stato è cattivo e il privato è buono. Le persone vi si sono trincerate in maniera aggressiva e patologica, fino a diventare incapaci di accettare anche i consigli pensati per aiutarli e proteggerli. Si sta trasformando in una tragedia in cui decine di migliaia di persone stanno morendo, quando probabilmente si sarebbe potuto evitare. Con il cambiamento climatico vedremo la stessa cosa: danni ingentissimi e perdite enormi che sarebbero stati evitabili, se solo avessimo agito prontamente sulla base delle informazioni scientifiche disponibili.

Qual è in particolare il ruolo degli scienziati?

Durante la pandemia da Covid-19 non abbiamo visto lo stesso tipo di disinformazione da parte degli scienziati come invece accadde nel dibattito sul tabacco o sul cambiamento climatico. Credo che ciò sia in parte dovuto alla rapidità con cui si è scatenato il virus; non c’è stato il tempo sufficiente affinché un gruppo di scienziati dissidenti si organizzasse a quel modo. Abbiamo tuttavia visto in maniera evidente scienziati del governo federale che sono stati ostacolati e che non hanno potuto parlare apertamente per paura del licenziamento. Penso che Anthony Fauci abbia compiuto uno sforzo eroico nel cercare di spiegare la scienza e comunicare il messaggio del metodo scientifico con chiarezza. Si vede però quanto sia stato difficile per lui; ancora di più lo è stato per Deborah Birx, che ogni tanto è presente alle conferenze stampa e appare visibilmente alterata a causa delle affermazioni del Presidente, ma non lo contraddice perché sa probabilmente rischierebbe il posto. Insomma, secondo me gli scienziati e le autorità sanitarie che lavorano per il governo federale ora si trovano in una posizione molto difficile. Sono solidale con il loro tentativo di lavorare nel miglior modo possibile nelle circostanze attuali, ma non viene loro data l’opportunità di fare una comunicazione chiara.

Oltre a ciò, ci sono stati anche alcuni scienziati esterni che hanno fatto affermazioni irresponsabili, come quel medico che qualche mese fa suggerì di usare l’idrossiclorochina per curare la Covid-19: non era un esperto nell’area e non aveva fatto alcun esperimento clinico in doppio cieco, ma le sue affermazioni furono riprese e pubblicizzate dal Presidente. Comunque, nonostante alcuni dissidenti ed eccentrici siano stati coinvolti nel dibattito pubblico, non è diventato un fenomeno organizzato come invece è accaduto per il cambiamento climatico.

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La copertina del libro di Oreskes.
Dopo “Mercanti di dubbi” ha pubblicato un altro libro, non ancora tradotto in italiano, il cui titolo è formulato come una domanda: “Why Trust Science?”, ovvero, perché fidarsi della scienza? Si tratta di una domanda retorica o di un interrogativo sincero?

Il titolo del libro è una domanda sincera che ho voluto porre per due ragioni. La prima è questa: quando cominciai a tenere conferenze sul cambiamento climatico, capitava a volte che qualche persona del pubblico mi chiedesse, dopo avermi ascoltato, per quale motivo dovremmo fidarci della scienza. Nel tempo ho riflettuto su questa domanda trovandola legittima e importante. Possiamo portare prove scientifiche come i modelli, l’analisi delle carote di ghiaccio, i dati climatici raccolti con lo snow pillow per misurare il manto nevoso, NdR e spiegare che insieme danno una visione robusta del sistema climatico; eppure, la domanda resta aperta. Spesso a porla erano persone che sembravano chiederselo onestamente, non cercavano di fare polemica e basta.

L’altra ragione per cui ho voluto rispondere alla domanda viene da quanto abbiamo appreso dalla storia della scienza, che è la mia professione. Senza dubbio ci sono state occasioni nel passato in cui gli scienziati si sono sbagliati. Guardarsi indietro e riconoscerle è importante sia da punto di vista storico che filosofico. Infatti, se crediamo che la scienza sia nel complesso un'attività degna di fiducia e che ci dica la verità riguardo al mondo naturale, cosa ne facciamo allora dei controesempi in cui invece la scienza non ha funzionato? Ecco che diventa necessario comprendere tali casi. Di fatto il mio primo libro (basato sulla mia tesi di dottorato) riguardava proprio uno di questi esempi: il dibattito negli anni '20 sulla teoria della deriva dei continenti, rifiutata da un’ampia maggioranza degli scienziati americani e oggi riconosciuta come un fatto. La mia era dunque una domanda onesta e seria da un punto di vista sia intellettuale, sia sociopolitico. E dobbiamo veramente essere in grado di rispondere.

Nel libro sostiene che la risposta che si sente spesso, secondo la quale i fatti vengono accertati applicando il metodo scientifico in modo asettico, impersonale, univoco e uniforme, è una risposta del tutto inadeguata e sbagliata. Perché?

La domanda non è se esistano i fatti in assoluto, ma come facciamo a capire quali sono i fatti e quali no. La risposta tradizionale data dai filosofi della scienza e dagli scienziati stessi è che troviamo i fatti attraverso l'uso del metodo scientifico. C’è un problema con questa risposta: è falsa! Sappiamo che storicamente non è fattuale: se guardiamo a quello che gli scienziati hanno fatto, vediamo una grande diversità nei metodi usati; se guardiamo al problema logicamente o filosoficamente, tutti i candidati proposti per essere il metodo scientifico definitivo mostrano difetti logici o filosofici. Ciò significa che dobbiamo ripensare a che cosa, in effetti, porti a risultati affidabili nella ricerca scientifica. La mia opinione è che tutte le prove e il lavoro condotto nel mio campo, ovvero la storia e filosofia della scienza, negli ultimi 30 o 40 anni puntino chiaramente al ruolo cruciale dei processi sociali.

Questa parte risulta sorprendente per alcune persone, dato che ribalta ciò che a molti di noi è stato insegnato sulla scienza; si ha l’idea che l’obiettività scientifica sia innata nell’individuo, che i singoli scienziati debbano essere figure quasi divine, del tutto logiche, senza preconcetti né pregiudizi, e che applicando tale mentalità oggettiva ai problemi ottengano le risposte giuste. Credo che sia una visione completamente falsa, senza alcuna prova a supporto. Al contrario, ritengo che ci siano prove a sostegno dell’importanza fondamentale rivestita dal processo sociale di validazione delle affermazioni nella scienza. Quando vado a una conferenza, a un seminario o a una riunione con un’idea e delle prove, cosa fanno i miei colleghi? Mi mettono alla prova, mi pongono domande; mi chiedono da dove derivano le prove, quale metodo ho utilizzato, come ho raccolto i dati. Potrebbero anche dirmi che ho bisogno di più dati, oppure che le statistiche non tornano, per cui cercherò di migliorare il mio lavoro; lo presenterò per la pubblicazione e si ripeterà lo stesso processo, visto che nella revisione paritaria i revisori saranno critici e cercheranno di trovare i punti deboli, gli errori e le parti da sistemare. Si tratta di un processo piuttosto negativo che conduce però a un risultato positivo, dato che porta a conclusioni vagliate molto accuratamente. Questo processo di vaglio, secondo me, è il punto cruciale della scienza.

Arriviamo così a un’ulteriore conclusione. Come facciamo a sapere che il processo di vaglio funziona? Può darsi che gli scienziati facciano parte di un club esclusivo di soli maschi bianchi che la pensano tutti allo stesso modo. Effettivamente, il problema della mentalità di gruppo nella scienza è stato sollevato da molte persone. Qui si manifesta l’importanza della diversità nella scienza: se tutti osservano un problema scientifico dallo stesso punto di vista, è possibile che si perdano qualcosa di importante. Abbiamo tutti dei punti ciechi, ma quanto più la comunità scientifica è varia, tanto più possiamo confidare nel fatto che qualcun altro ce li indicherà. Con varietà non intendo solo il colore della pelle o il genere, per quanto siano importanti, ma anche una diversità intellettuale e metodologica; occorre esaminare un problema da più punti di vista e applicare diversi metodi.

Per questo motivo nel mio libro “Why Trust Science?” insisto molto sulla necessità di evitare il feticismo del metodo. Per esempio, gli studi clinici in doppio cieco sono eccellenti quando si riescono a fare gli RTC, o studi controllati randomizzati: sono strumenti molto efficaci, spesso sono ritenuti il riferimento di eccellenza nella medicina. Molte volte, però, non è possibile fare un RCT; in quei casi non possiamo gettare la spugna, ma troviamo altri modi per affrontare il problema, come studi di coorte, studi sugli animali e modellizzazione. Nella scienza esistono vari metodi diversi: non dobbiamo essere arroganti ed esaltarne uno senza considerare gli altri, come invece purtroppo accade. Piuttosto, dovremmo considerare tutte le prove nel loro complesso e vedere cosa ci dicono. Se guardiamo ai casi storici in cui gli scienziati lo hanno fatto, vediamo che si dimostrano tuttora molto validi.

Ha parlato di arroganza come nemica della scienza che ogni tanto non mostra un’adeguata disponibilità a riconoscere i propri limiti e i propri errori.

In molti dei miei lavori nel corso degli anni ho insistito su un fatto: se la storia della scienza ci ha insegnato una lezione, è quella dell’umiltà. Guardando al passato, troviamo svariati esempi di persone intelligenti e ben intenzionate che hanno commesso errori. Errare è umano, lo facciamo tutti; non dovremmo aspettarci che la scienza sia perfetta o che gli scienziati non sbaglino mai. Allo stesso tempo, dovremmo aspettarci che gli scienziati posseggano una sana dose di umiltà riguardo al loro lavoro, e che quando commettono errori vengano allo scoperto e siano pronti a rettificare.

Non ritengo invece sana l’abitudine corrente di puntare il dito e mettere alla gogna i punti deboli di certe teorie, cosa che ad esempio vediamo succedere con la crisi di riproducibilità in psicologia. Senza dubbio ci sono problemi da affrontare nella psicologia, ma non credo che fare i superiori e accusare con supponenza sia un atteggiamento utile. Lo sarebbe invece riconoscere che, vista l’esistenza di problemi, occorre creare meccanismi che permettano di risolverli facilmente e senza vergogna; non serve quindi umiliare le persone, ma piuttosto incoraggiarle ad ammettere onestamente i propri errori e cercare di correggerli. Bisogna trovare umanità nella scienza, qualcosa di cui non si parla molto perché pensiamo che sia un ambito freddo e meccanicistico; in realtà la scienza è fatta dalle persone, le quali commettono errori, vengono attaccate e a volte provano imbarazzo nell’ammettere di aver sbagliato. La comunità scientifica dovrebbe cercare di creare una cultura in cui questo imbarazzo non ci sia e si possa dire apertamente di aver commesso uno sbaglio, proporre una rettifica e lavorarci insieme.

Un altro punto importante ha a che vedere con i limiti della scienza. Direi che abbiamo dimostrato precedenti di successo nel fare scienza: abbiamo curato molte malattie, mandato esseri umani nello spazio e sulla Luna, scoperto come usare l’elettricità e prodotto molto altro a partire dalle conoscenze derivate dalla ricerca scientifica; gran parte di noi vive una vita più lunga, più felice, più comoda, più sicura e più sana grazie alla ricerca. Ma c'è un grosso ma. Quando gli scienziati iniziano a parlare di ambiti al di fuori dalla scienza, che sia moralità, etica, filosofia, letteratura, storia, spesso non sono particolarmente edotti a riguardo. Questo non dovrebbe sorprenderci: essere uno scienziato significa essere un esperto altamente specializzato e, quasi per definizione, diventare esperti in qualcosa porta a essere ignoranti in molti altri campi.

Perciò ritengo estremamente importante che gli scienziati siano umili nel riconoscere i limiti delle loro conoscenze, specie quando si arriva a discutere sul da farsi in una certa situazione, che si tratti del cambiamento climatico, della Covid-19 o della diseguaglianza di reddito. Quest’ultima è un ottimo esempio. Gli economisti possono aiutarci a individuarne le cause; esse tuttavia non risiedono esclusivamente nell’economia, ma anche nelle ineguaglianze sociali ed educative, nel razzismo, nel sessismo. La componente economica è importante, ma non è l’unica: se guardiamo solo a quella non vedremo il quadro completo e, quasi certamente, non riusciremo a risolvere il problema.

Grazie professoressa Oreskes per averci spiegato come il dibattito pubblico su questioni di fondamentale importanza, come il ruolo dell’uomo nel mutamento climatico e l’urgenza di prendere qualche provvedimento, siano stati inquinati da questi “mercanti di dubbi”.

Traduzione di Veronica Padovani, revisione editoriale di Beatrice Schembri
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