La difficile linea di demarcazione della vita: intervista a Maurizio Mori

  • In Articoli
  • 31-08-2022
  • di Lorenzo Montali e Beatrice Schembri
img
Manifestazione contro il divieto d'aborto negli Usa. ©Fibonacci Blue per Flickr CC BY 2.0
Pubblichiamo un’intervista al professor Maurizio Mori, ordinario di Bioetica all’Università di Torino e Presidente della Consulta di Bioetica onlus. L’intervista è precedente alla recente sentenza della Corte Suprema statunitense che ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade (di cui Mori parla) e con cui nel 1973 la stessa Corte aveva legalizzato l’aborto negli Usa.

Lo spunto per questo colloquio è invece una recente legge texana che stabilisce come termine ultimo per poter abortire le sei settimane di vita del feto. Stante la varietà di finestre temporali previste nelle diverse legislazioni, ci siamo chiesti se esse facciano riferimento a indicatori oggettivi e scientifici oppure se la loro scelta dipenda da valutazioni diverse. Grazie alla competenza del nostro interlocutore crediamo che l’articolo possa offrire una panoramica e una riflessione interessante, pur consapevoli del fatto che si tratta di argomenti in parte diversi da quelli che tradizionalmente ospitiamo su queste pagine. In diversi passaggi vengono trattate anche questioni che riguardano il ruolo o la posizione della Chiesa cattolica su tali argomenti. Il CICAP e la sua rivista non discutono di questioni di fede, che attengono alla libera scelta di credenti e non credenti, e crediamo che la prospettiva storico-filosofica nella quale questi temi vengono discussi nell’intervista sia rispettosa di tale nostro orientamento. Ai lettori e alle lettrici spetta comunque il giudizio finale anche su questo, buona lettura.

Negli ultimi mesi c’è stata una certa attenzione mediatica verso la legge sull’aborto approvata in Texas. La legge proibisce l’aborto dopo la settima settimana di gravidanza, in quanto a partire da quel momento si rileva il battito cardiaco dell’embrione, considerato un adeguato indicatore dell’inizio della vita e quindi della non possibilità di interromperla. Esiste un consenso scientifico o un orientamento prevalente circa un indicatore obiettivo di inizio della vita, o di inizio della persona?

Già la domanda ha due termini che indicano concetti fortemente diversi. Uno dei problemi di fondo è sapere se valutiamo e tuteliamo la trasmissione della vita, oppure se tuteliamo la persona, cioè una specifica vita di un organismo particolare. Ma quando arriva la persona, e quando termina la persona?

Nella tradizione storica, la differenza tra trasmissione della vita e vita era più complicata; i due concetti venivano quasi a coincidere. L’atto sessuale di frequente portava a gravidanze, e l’interruzione di gravidanza era complicata, spesso metteva a serio rischio la vita di una donna. Anche dopo la nascita la vita era molto precaria, con una mortalità infantile altissima. Ancora nel 1800 l’attesa di vita media era di poco superiore ai trent’anni, e non esistevano più di tanto i problemi legati alla vecchiaia perché non c’erano vecchi. Quindi il criterio per cui più vita c’è, meglio è, ha funzionato finché la specie Homo sapiens rischiava l’estinzione. Il peccato di Onan era un peccato contro la trasmissione della vita; sottrarsi al matrimonio (da matris munus, l’ufficio della madre) era una forma di tradimento, un danno alla vita.

Inteso come danno alla vita della specie?

Sì. Il singolo era un mezzo per far procedere la vita della comunità.

Oggi si parla ancora di inverno demografico, ma secondo me sono sciocchezze. Lo scriveva Bertrand Russell negli anni '30 e '40: ormai l’uomo ha stravinto la lotta per la sopravvivenza della specie, anzi adesso siamo a rischio perché ci autodistruggiamo. La prospettiva è radicalmente cambiata anche da un punto di vista etico. Bisogna avere una concezione dinamica dell’etica, che è fatta per garantire il benessere e la struttura delle persone e degli esseri senzienti. Finché la popolazione era di poche migliaia di individui e doveva cercare di sopravvivere, era scontato che la riproduzione fosse un bene. Oggi per la prima volta affrontiamo problemi diversi, dunque siamo giustamente diventati individualisti. Valutiamo cioè la vita delle persone e degli esseri capaci di autorealizzazione, come altri animali non umani che hanno progetti di vita, oppure in futuro macchine così sofisticate da avere forme di consapevolezza di sé.

E per quanto riguarda la differenza tra inizio della vita e inizio della persona?

Il dibattito odierno sull’inizio della vita si pone all’interno del discorso sull’aborto.

Nella civiltà occidentale, permeata dal cristianesimo (non parlerò di com’era prima, oltre duemila anni fa, o di altre civiltà che non la nostra), il divieto di aborto è stato uno dei tratti qualificanti insieme al principio di fedeltà matrimoniale. La differenza tra contraccezione e aborto non c’è mai stata più di tanto. Erano i fattucchieri a voler controllare la riproduzione, mentre il Dio cristiano lasciava fare alla natura, e vigeva quindi il rispetto delle leggi naturali.

Ci sono stati dibattiti sul momento della cosiddetta animazione, ma non riguardavano la liceità dell’aborto, o se esso costituisse o meno un omicidio (inteso come l’uccisione di una persona). Erano spesso legati ad altri tipi di questioni, che oggi appaiono forse ridicole ma che al tempo erano importanti: per esempio, se dare o no il battesimo. Somministrare un sacramento fuori luogo era considerato una sorta di sacrilegio, ma naturalmente bisognava dare il battesimo per far sì che l’anima andasse in paradiso piuttosto che al limbo. Nell’Ottocento il problema dell’animazione era strettamente legato al problema dell’evoluzione. Nella grande idea cristiana che ha prevalso fino a qualche decennio fa la persona è l’unione di corpo e anima: al primo provvedono i genitori, la seconda è infusa da Dio. Dunque, ci si chiedeva quando, nella filogenesi umana, la specie arriva a essere così complessa che Dio infonde l’anima in quel particolare corpo.

Nel nostro tempo il problema dell’aborto cominciò a porsi verso la metà degli anni ’60, quando capitò la tragedia della talidomide. Era un farmaco prodotto per alleviare i disagi legati ai primi tempi della gravidanza; fu assunto da migliaia di donne, ma si rivelò teratogeno e produsse migliaia di malformati. Sui media statunitensi ebbe particolare spazio la vicenda di Sherry Finkbine. La donna voleva infatti abortire dopo aver saputo dei rischi della talidomide, che aveva assunto nelle prime settimane di gravidanza, inconsapevole del fatto che era contenuta in un sedativo. Fu però costretta a recarsi in Svezia per poter abortire, dato che la clinica dell’Arizona in cui l’intervento era inizialmente previsto si era rifiutata di confermarlo senza l’assicurazione che non sarebbe stata penalmente perseguita e dopo che il tribunale a cui la donna si era rivolta si era dichiarato incompetente a decidere. In relazione a quella vicenda, i sondaggi di opinione mostrarono un orientamento dell’opinione pubblica favorevole all’aborto. La svolta legale arrivò alcuni anni dopo con la sentenza Roe contro Wade. Roe aveva chiesto l’aborto in Texas, dove la procedura era vietata, e alcune avvocate presero il caso e portarono la causa alla Corte Suprema. Il 22 gennaio del 1973, facendo appello al diritto di “privacy” e al fatto che nella costituzione americana non si parla del non ancora nato come soggetto di diritto, la Roe vs Wade riconobbe la sovranità e il diritto di autodeterminazione della donna sul proprio corpo, riconoscendo così il diritto di aborto.

La sentenza dichiarò immediatamente incostituzionali tutte le leggi contrarie, creando così un effetto devastante negli Stati Uniti, che passarono di colpo dal divieto netto di aborto alla sua liberalizzazione. Di fatto, la Corte Suprema non agì più in modo così drastico nei tempi successivi: quando nel 1997 riconobbe la costituzionalità della legge dell’Oregon sul suicidio medicalmente assistito, ad esempio, lasciò ai singoli Stati il compito di legiferare a riguardo. Con l’Unione Europea ci troviamo di fronte a un problema simile: se lasciare ai singoli Stati le leggi sull’aborto, oppure riconoscere il diritto agli stessi trattamenti sanitari a tutti i cittadini europei.

Bisogna vedere che cosa vale dal punto di vista bioetico: la vita della persona, oppure il processo di trasmissione (ossia di autoconservazione) della vita?

Qualcuno potrebbe dire che le due questioni non sono di per sé incompatibili: che la conservazione delle persone, cioè, è anche automaticamente la conservazione della specie.

In effetti un tempo era così: la conservazione della tua vita coincideva col tuo benessere. Oggi, invece, anche continuare la vita potrebbe portare al cosiddetto accanimento terapeutico, che va contro il tuo benessere. Benessere della persona e autoconservazione della vita sono quindi due cose diverse: quale privilegiare quando vengono in conflitto? In passato il privilegio andava al favor vitae, mentre oggi abbiamo acquisito la capacità del controllo riproduttivo, e quindi si tratta di sapere come esercitarlo: se è sempre a favore della vita, o se va soggetto alla volontà di chi questa vita la mette in progetto.

La legge del Texas è costruita in modo tale che sono i privati cittadini, e non il pubblico ministero, a denunciare una clinica che esegue un aborto. Nella costruzione giuridica degli Stati Uniti le leggi favoriscono i privati cittadini a denunciare anche i reati ambientali, che pur essendo molto gravi e con potenziali conseguenze sulla vita di una persona, non costituiscono omicidio.

Questo vuol dire che la legge texana non riconosce valenza di omicidio all’atto dell’aborto, altrimenti non ci sarebbe bisogno di denunce private.

Esattamente; è così che i pro-life hanno trovato il modo di arrivare all’obiettivo. Non c’è il carcere, ma una multa fino a 10.000 dollari, così le cliniche hanno sospeso l’aborto per evitare il collasso economico. Per quello che ho potuto capire, la legge del Texas è abbastanza sofisticata, tanto da essere sfuggita a tutte le limitazioni poste dalla Roe contro Wade e successive. Affermare che da quella legge si deduca che a partire dalle sei settimane comincia una persona, però, è eccessivo.

Allora su che base si può denunciare, stante che la donna ha potere di decidere sul proprio corpo?

Perché ci sarebbe già un’altra vita sufficientemente formata, come dimostra la presenza del battito cardiaco, e questa nuova vita va tutelata. Non interessa dire che va tutelata perché si tratta di una persona.

Torniamo qui al problema metafisico: quand’è che comincia la persona? Dire che inizia al momento della fecondazione, quando si forma lo zigote con 46 cromosomi, significa dire che già quella è una persona con anima spirituale? Nella costruzione aristotelica e tomista questo era un assurdo, perché l’anima è la perfezione della complessità corporea, la quale cresce con l’evoluzione dell’organismo. Cito adesso il filosofo Jacques Maritain, che studiò questi argomenti negli anni '50 e ’60: l’anima, come perfezione dell’essere, può arrivare solo quando l’essere è [sufficientemente complesso] e in grado di recepirla. Nel canto XXV del Purgatorio Dante scrive:

“sì tosto come al feto / l’articular del cerebro è perfetto, / lo motor primo a lui si volge lieto [...] e spira [...] e fassi un’alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira”.

Oggi noi diamo un’interpretazione scientifica alla questione, ma attenzione: non è questa la posizione della Chiesa cattolica. La Chiesa è rimasta al dire che il problema dell’animazione ha carattere filosofico, non scientifico; la filosofia stabilisce quando si crea la persona, mentre la biologia parla dei corpi. La Chiesa vieta l’aborto perché sostiene che la vita vada tutelata in ogni caso, non che si tratti dell’uccisione di una persona; l’embrione va rispettato come se fosse una persona, non perché lo è. Analogamente, la legge del Texas prende le sei settimane per dire che da allora l’embrione va rispettato come se fosse una persona, ma non necessariamente dice che lo è.

D’altra parte, diverse legislazioni stabiliscono diversi criteri. Il Texas dice sei settimane, la nostra dice tre mesi...

La nostra legge è ancora più complicata. Un tempo non c’erano le rianimazioni neonatali, e il criterio per sapere se un feto era nato vivo o morto era sapere se i polmoni fossero stati aerati. Lo troviamo nella sentenza di un giudice inglese intorno al 1670, secondo cui quando l’aria penetra nei polmoni l’anima pervade il corpo, e quello sarebbe il momento in cui l’individuo diventa persona: un criterio secco.

Il limite dei tre mesi in Italia oggi è solo legato al fatto che fino a quel momento l’aborto è molto più facile dal punto di vista tecnico; fino al primo trimestre, a decidere è la donna, senza nessuna giustificazione. Nel secondo trimestre, invece, per procedere serve un certificato firmato da due medici; in certi contesti questo non è difficile, in altri sì. Ma con le due firme, l’aborto fino al settimo mese era perfettamente lecito.

Adesso è ancora più complicato, perché anche a venti settimane sono possibili le rianimazioni neonatali; dunque, alcuni chiedono fino a che termine si possa abortire, perché si pensa che il feto si potrebbe ancora salvare. Su questo c’è ancora uno stato di confusione radicale, tanto che come associazione di Bioetica Onlus, NdR stiamo pensando di proporre una riforma della 194 per riportarla alle origini, o al principio di sovranità della donna fino a fase molto avanzata della gravidanza, com’è adesso nello Stato di New York.

Prima dicevi che per la Chiesa è un problema medico stabilire quando c’è un corpo. Dal punto di vista medico, per esempio, qual è il termine in cui si dice che questa è una persona, mentre quelli sono due gemelli?

Dal punto di vista biologico (userei questa parola invece di “medico”, visto che la medicina è una disciplina più complessa) è abbastanza chiaro: i gemelli si stabiliscono nelle prime due settimane dal concepimento, una volta che si sono divisi e annidati nell’utero. Le persone hanno bisogno di idee secche, ma basta questo per dire che allora una persona comincia trascorsi i 14 giorni?

Nel dibattito odierno sull’inizio della persona, l’opinione prevalente nei pro-life è che cominci al momento della fecondazione. Non solo in ambito cristiano: per alcuni ha carattere scientifico, e i 46 cromosomi [dello zigote] ne sarebbero la prova. A questo proposito c’è il problema della pillola dei 5 giorni dopo, che per i pro-life è già abortifacente, mentre invece non lo è; infatti impedisce la fecondazione dell’ovulo. Ne abbiamo parlato in un numero recente della rivista Bioetica, e su questo il TAR del Lazio ha scritto una sentenza abbastanza ben fatta confermando che la contraccezione di emergenza non è un farmaco abortivo e può essere venduta senza ricetta anche a minorenni.

Quindi secondo la posizione pro-life, all’atto della fecondazione si stabilisce già una futura nascita che va preservata.

Per loro va preservata perché è l’uccisione di una persona. Ma lo è davvero, oppure si dice che l’aborto è grave tanto quanto l’uccisione di una persona per far capire la gravità dell’atto, dato che riteniamo l’omicidio il più grave reato o peccato?

L’altra idea è che la persona comincia più tardi, o comunque alla nascita. E qualcuno, come hanno fatto dieci anni fa i miei due lontani allievi Giubilini e Minerva, ha proposto anche l’aborto dopo la nascita, suscitando un clamore terribile.

In che senso dopo la nascita?

Si sono chiesti se la nascita sia poi così importante per stabilire se si parla di una persona. È l’uscita dal corpo della donna a rendere il feto tale per cui prima non pensa, e dopo sì? Al tempo Giubilini e Minerva vivevano nello stato di Victoria, Australia, dove l’aborto è lecito fino al giorno prima della nascita. Supponi di aver fatto un test per rilevare una malformazione: se fai il test il giorno prima della nascita e scopri che c’è qualcosa, puoi ancora abortire; se non lo fai (o se il test è un falso negativo), partorisci un neonato malformato, ma è una persona e non puoi più far nulla. L’uscita dal corpo è dunque ragione sufficiente per stabilire che si tratta di una persona, o dobbiamo invece studiare che cosa succede nel nuovo organismo? L’idea è che forse lo sviluppo intellettuale nel nuovo organismo avviene progressivamente: non si diviene persone in un istante, ma ci vuole del tempo. Quindi per i primi quindici giorni bisogna vedere com’è l’organismo, che pure è già nato, e decidere. In modo molto radicale, Giubilini e Minerva hanno detto che il nato è nella disponibilità totale della donna, anche se fosse sano. L’articolo è del febbraio 2012, e ha causato dibattiti vivacissimi sul piano internazionale; tanto per dare un’idea, nel 2013 il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, per tre volte in tre discorsi ufficiali si lamentò che studiosi italiani erano arrivati a pensare all’aborto post-nascita.

Insomma, le legislazioni sull’aborto non fissano dei criteri sulla base del momento in cui inizierebbe una persona.

No, esatto. Pensa che il famoso Titolo X del Codice penale italiano del 1930, puniva l’aborto tra i reati contro l’integrità della stirpe, che negli anni ’20, prima di assumere connotazione razzista, era termine biologico per indicare la specie. Nel codice Zanardelli, 1889, l’aborto era registrato nei reati contro la persona insieme all’omicidio e alle mutilazioni corporali per non andare al fronte. Poi il guardasigilli Alfredo Rocco trovò la nuova categoria contro l’integrità della stirpe, per dargli una classificazione propria.

I pro-life scelgono la fecondazione come momento di inizio della persona, e la legge del Texas stabilisce le 6 settimane perché allora il ginecologo avverte il battito cardiaco. Paradossalmente, è come se queste due posizioni che fanno riferimento al mondo cristiano si appoggiassero a indicatori di ordine biologico, piuttosto che teologico o filosofico, ricorrendo alla scienza o a una parvenza di essa per giustificare la propria posizione.

Da una parte questo succede per via della percezione del reato. Per considerarlo un reato davvero serio e avere presa sociale devi dire che si tratta di un omicidio; da qui l’insistenza dei pro-life sulla questione della persona, e non sulla trasmissione della vita.

Dall’altra parte è cresciuta enormemente l’autorità della scienza, quindi la teologia si è rivolta di là. I pro-life sostengono che è la scienza a dirci quando ha inizio la persona, il che li porta, in qualche forma, a un tipo di materialismo estremo. Ma queste sono contraddizioni filosofiche che diventa complicato trasformare in opinioni di massa.

Colpisce il fatto che il movimento religioso ricorra a un indicatore scientifico per giustificare le proprie posizioni; vuol dire che non ha all’interno del proprio sistema la sufficienza della verità, tanto che deve ricorrere a un sistema esterno.

Un sistema competitor, per di più. Il crollo delle ideologie ha portato con sé una confusione radicale. Mi ha sempre colpito molto vedere che i gruppi più conservatori sono spesso i più avanzati nell’uso delle nuove tecnologie. Per esempio, gli ebrei ortodossi in America hanno comperato interi quartieri di città, separati dal mondo esterno e schermati contro internet; e poi questi stessi che sono contro le tecnologie le usano in modo abile per diffondere le proprie opinioni. E questo capita per i pro-life.
accessToken: '2206040148.1677ed0.0fda6df7e8ad4d22abe321c59edeb25f',