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L’omeopatia è una pratica medica, non riconosciuta dalla comunità scientifica, nata tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Il suo fondatore, Samuel Hahnemann (Meissen, 1755-Parigi, 1843), ne ha esposto i capisaldi all’interno dell’Organon dell’arte di guarire (Dresda, 1810). I due pilastri fondamentali della medicina omeopatica sono rappresentati dal principio di similitudine (similia similibus curantur) e dal principio delle diluizioni infinitesimali.
Il primo afferma che per ottenere la guarigione del paziente occorre somministrargli una sostanza in grado di provocare nel soggetto sano sintomi analoghi a quelli della malattia che s’intende curare. Il secondo principio afferma che la sostanza curativa deve essere diluita in un rapporto di 1 a 100 con il solvente, per un massimo di trenta volte (limite ampiamente superato da Hahnemann negli ultimi anni della sua vita e da alcuni suoi seguaci).
La concezione di Hahnemann si radicava nel vitalismo, una corrente di pensiero nata in Francia nella seconda metà del Settecento, con l’intento di spiegare il funzionamento degli organismi viventi ricorrendo a un principio intermedio tra materia e anima: la forza vitale. Hahnemann riteneva, infatti, che salute e malattia corrispondessero rispettivamente a uno stato di equilibrio e di squilibrio della forza vitale immateriale, per agire sulla quale era indispensabile che le stesse sostanze curative assumessero una forma dinamica e immateriale, per mezzo delle diluizioni.
Per spiegare l’azione dei rimedi diluiti Hahnemann si rifaceva a fenomeni naturali come l’attrazione gravitazionale e il magnetismo, le cui azioni si dispiegavano senza bisogno di supporti materiali. Il medico tedesco riteneva inoltre che la patologia, espressa attraverso i sintomi, fosse unica per ogni individuo e che, di conseguenza, dovesse esserlo anche la cura.
Nonostante la medicina dell’epoca si caratterizzasse per alcuni avanzamenti, come la nascita della moderna patologia o l’invenzione dello stetoscopio nel 1816, difficilmente riusciva a curare: le indagini in campo clinico e patologico non avevano ancora ricadute terapeutiche. Questa era una delle critiche che Hahnemann muoveva alla medicina del tempo: riteneva infatti che il suo compito fosse curare i pazienti, non indagare le cause delle malattie dopo la loro morte. Così, la terapeutica continuava ad appoggiarsi al modello galenico dei quattro umori e all’uso di mezzi “eroici” come salassi, purganti, vomitivi e di sostanze debilitanti come oppio e mercurio.
L’omeopatia ebbe particolare successo e diffusione durante le epidemie di colera di metà Ottocento. Il colera era una malattia sconosciuta, giunta dall’India in Europa a inizio secolo. Se ne ignoravano le cause e, oltre ai mezzi preventivi dell’isolamento e della disinfezione, la medicina ricorreva a un ampio spettro di rimedi di tradizione galenica. Di fronte all’uso di clisteri, salassi, purganti ecc… il ricorso ai rimedi omeopatici appariva ben più allettante e sicuramente meno dannoso. Una curiosità è data dal fatto che il rimedio più diffuso in Italia, a base di canfora, non era diluito. Su questa evidente contraddizione rispetto ai principi fondamentali dell’omeopatia non mancarono le polemiche.
Ad ogni modo, l’idea che i successi dell’omeopatia fossero da ridimensionare rispetto a quelli vantati dai suoi sostenitori emerse già nella prima metà dell’Ottocento, in seguito ad alcuni rudimentali tentativi di sperimentazione controllata e all’impiego delle statistiche per confrontare la mortalità di alcune cliniche omeopatiche con altre di indirizzo convenzionale.
Tra le prime sperimentazioni controllate con esito negativo per l’omeopatia si possono citare quella di Napoli, di Lipsia e di Parigi, condotte tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta. Interessante anche la sperimentazione di San Pietroburgo (1829), che per la prima volta vide l’introduzione di più gruppi di controllo: un gruppo curato con la medicina convenzionale, uno con l’omeopatia e uno con il placebo. Il risultato migliore fu quello del gruppo curato con il placebo, cioè con pillole di pane, cacao e lattosio.
La diffusione dell’omeopatia venne fortemente ridimensionata dalla nascita, sul finire dell’Ottocento, di una medicina scientifica, finalmente in grado di curare. D’altra parte, l’omeopatia si trasformò progressivamente da terapia alternativa e contrapposta alla medicina tradizionale a terapia complementare, caratterizzandosi sempre più per un atteggiamento eclettico, che vedeva l’utilizzo combinato di rimedi omeopatici e rimedi farmacologici di efficacia comprovata.
Nel corso del tempo, le idee alla base dell’omeopatia si sono rivelate in contraddizione con i principi della chimica e della fisica moderne: molti medicinali omeopatici sono diluiti a tal punto, da non presentare più alcuna molecola della sostanza di partenza. I casi di presunta efficacia dell’omeopatia vengono quindi spiegati con il cosiddetto effetto placebo.
La mancanza di efficacia emerge anche nelle modalità di immissione in commercio dei rimedi omeopatici che, a livello europeo, godono di una regolamentazione semplificata, grazie alla quale sono tenuti a presentare prove di sicurezza ma non di efficacia terapeutica.
Bibliografia:
S. Garattini, Acqua fresca? Tutto quello che bisogna sapere sull’omeopatia. Sironi, 2015.
P. Panciroli, 200 anni di omeopatia. Storia di un equivoco? C1V, 2017.
R. Burioni, Omeopatia. Bugie, leggende e verità. Rizzoli, 2019.
In breve:
- L’omeopatia ha dimostrato nel corso della storia di funzionare? NO.
- L’omeopatia è coerente con i principi della chimica e della fisica moderne? NO.
- L’omeopatia ha in parte modificato il proprio atteggiamento nei confronti della medicina scientifica? SI'.
L’omeopatia è una pratica medica, non riconosciuta dalla comunità scientifica, nata tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Il suo fondatore, Samuel Hahnemann (Meissen, 1755-Parigi, 1843), ne ha esposto i capisaldi all’interno dell’Organon dell’arte di guarire (Dresda, 1810). I due pilastri fondamentali della medicina omeopatica sono rappresentati dal principio di similitudine (similia similibus curantur) e dal principio delle diluizioni infinitesimali.
Il primo afferma che per ottenere la guarigione del paziente occorre somministrargli una sostanza in grado di provocare nel soggetto sano sintomi analoghi a quelli della malattia che s’intende curare. Il secondo principio afferma che la sostanza curativa deve essere diluita in un rapporto di 1 a 100 con il solvente, per un massimo di trenta volte (limite ampiamente superato da Hahnemann negli ultimi anni della sua vita e da alcuni suoi seguaci).
La concezione di Hahnemann si radicava nel vitalismo, una corrente di pensiero nata in Francia nella seconda metà del Settecento, con l’intento di spiegare il funzionamento degli organismi viventi ricorrendo a un principio intermedio tra materia e anima: la forza vitale. Hahnemann riteneva, infatti, che salute e malattia corrispondessero rispettivamente a uno stato di equilibrio e di squilibrio della forza vitale immateriale, per agire sulla quale era indispensabile che le stesse sostanze curative assumessero una forma dinamica e immateriale, per mezzo delle diluizioni.
Per spiegare l’azione dei rimedi diluiti Hahnemann si rifaceva a fenomeni naturali come l’attrazione gravitazionale e il magnetismo, le cui azioni si dispiegavano senza bisogno di supporti materiali. Il medico tedesco riteneva inoltre che la patologia, espressa attraverso i sintomi, fosse unica per ogni individuo e che, di conseguenza, dovesse esserlo anche la cura.
Nonostante la medicina dell’epoca si caratterizzasse per alcuni avanzamenti, come la nascita della moderna patologia o l’invenzione dello stetoscopio nel 1816, difficilmente riusciva a curare: le indagini in campo clinico e patologico non avevano ancora ricadute terapeutiche. Questa era una delle critiche che Hahnemann muoveva alla medicina del tempo: riteneva infatti che il suo compito fosse curare i pazienti, non indagare le cause delle malattie dopo la loro morte. Così, la terapeutica continuava ad appoggiarsi al modello galenico dei quattro umori e all’uso di mezzi “eroici” come salassi, purganti, vomitivi e di sostanze debilitanti come oppio e mercurio.
L’omeopatia ebbe particolare successo e diffusione durante le epidemie di colera di metà Ottocento. Il colera era una malattia sconosciuta, giunta dall’India in Europa a inizio secolo. Se ne ignoravano le cause e, oltre ai mezzi preventivi dell’isolamento e della disinfezione, la medicina ricorreva a un ampio spettro di rimedi di tradizione galenica. Di fronte all’uso di clisteri, salassi, purganti ecc… il ricorso ai rimedi omeopatici appariva ben più allettante e sicuramente meno dannoso. Una curiosità è data dal fatto che il rimedio più diffuso in Italia, a base di canfora, non era diluito. Su questa evidente contraddizione rispetto ai principi fondamentali dell’omeopatia non mancarono le polemiche.
Ad ogni modo, l’idea che i successi dell’omeopatia fossero da ridimensionare rispetto a quelli vantati dai suoi sostenitori emerse già nella prima metà dell’Ottocento, in seguito ad alcuni rudimentali tentativi di sperimentazione controllata e all’impiego delle statistiche per confrontare la mortalità di alcune cliniche omeopatiche con altre di indirizzo convenzionale.
Tra le prime sperimentazioni controllate con esito negativo per l’omeopatia si possono citare quella di Napoli, di Lipsia e di Parigi, condotte tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta. Interessante anche la sperimentazione di San Pietroburgo (1829), che per la prima volta vide l’introduzione di più gruppi di controllo: un gruppo curato con la medicina convenzionale, uno con l’omeopatia e uno con il placebo. Il risultato migliore fu quello del gruppo curato con il placebo, cioè con pillole di pane, cacao e lattosio.
La diffusione dell’omeopatia venne fortemente ridimensionata dalla nascita, sul finire dell’Ottocento, di una medicina scientifica, finalmente in grado di curare. D’altra parte, l’omeopatia si trasformò progressivamente da terapia alternativa e contrapposta alla medicina tradizionale a terapia complementare, caratterizzandosi sempre più per un atteggiamento eclettico, che vedeva l’utilizzo combinato di rimedi omeopatici e rimedi farmacologici di efficacia comprovata.
Nel corso del tempo, le idee alla base dell’omeopatia si sono rivelate in contraddizione con i principi della chimica e della fisica moderne: molti medicinali omeopatici sono diluiti a tal punto, da non presentare più alcuna molecola della sostanza di partenza. I casi di presunta efficacia dell’omeopatia vengono quindi spiegati con il cosiddetto effetto placebo.
La mancanza di efficacia emerge anche nelle modalità di immissione in commercio dei rimedi omeopatici che, a livello europeo, godono di una regolamentazione semplificata, grazie alla quale sono tenuti a presentare prove di sicurezza ma non di efficacia terapeutica.
Bibliografia:
S. Garattini, Acqua fresca? Tutto quello che bisogna sapere sull’omeopatia. Sironi, 2015.
P. Panciroli, 200 anni di omeopatia. Storia di un equivoco? C1V, 2017.
R. Burioni, Omeopatia. Bugie, leggende e verità. Rizzoli, 2019.
In breve:
- L’omeopatia ha dimostrato nel corso della storia di funzionare? NO.
- L’omeopatia è coerente con i principi della chimica e della fisica moderne? NO.
- L’omeopatia ha in parte modificato il proprio atteggiamento nei confronti della medicina scientifica? SI'.