Storie dell'altro mondo

Miti e leggende del volo spaziale umano

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© tomertu/iStock
La corsa allo spazio cominciata con il lancio dello Sputnik 1 nel 1957 è un’epopea straordinaria. I suoi successi hanno acceso l’entusiasmo e l’orgoglio dei popoli e i suoi tragici fallimenti hanno gettato nel lutto intere nazioni, ma un’avventura così ricca di connotazioni emotive non poteva che dar luogo a tante leggende. La più famosa è quella che considera lo sbarco sulla Luna un falso cinematografico, ma in queste pagine ci occuperemo di storie fantasiose legate all’astronautica meno note. Alcune presuppongono che le agenzie spaziali nascondano la verità sui propri obiettivi o addirittura sulla fattibilità del volo umano, mentre altre sopravvalutano per eccesso di entusiasmo il numero di invenzioni nate dalle missioni nello spazio. Ma hanno tutte una cosa in comune: l’attrazione per i viaggi spaziali.

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Un busto di Gagarin presso l’istituto di biomedicina (IBMP) dell’Accademia russa delle scienze a Mosca © Cortesia CDG

Sperduti nello spazio


Avete mai sentito dire che Yuri Gagarin non è stato il primo uomo ad andare nello spazio, ma solo il primo a tornare vivo? Secondo la leggenda dei cosmonauti perduti, infatti, prima di lui, l’Unione Sovietica avrebbe lanciato diverse missioni abitate che fallirono causando la morte dei loro equipaggi.

Le prime voci si diffusero già nel 1959, quasi due anni prima del volo di Gagarin – un’agenzia stampa riportò persino i nomi delle presunte vittime, tre uomini e una donna – e guadagnarono terreno grazie alla pubblicazione su una rivista russa della fotografia di alcuni uomini vestiti con tute spaziali, che in realtà erano paracadutisti d’alta quota scambiati per cosmonauti.

In Italia, le storie più famose e persistenti di cosmonauti perduti ebbero origine dai fratelli Achille e Giovanni Battista Judica Cordiglia, che dopo il lancio dello Sputnik 1 cominciarono a puntare verso il cielo antenne radio collegate a registratori per cercare di raccogliere i segnali lanciati dai primi satelliti artificiali. Nel maggio 1960, i due fratelli annunciarono di aver recepito i lamenti di un cosmonauta perduto nello spazio quando la sua capsula era finita fuori traiettoria. Nel novembre 1960 dissero di aver ricevuto addirittura un SOS in codice Morse da un veicolo in avaria, e tra il 1961 e il 1964 di aver intercettato numerosi altri presunti cosmonauti dispersi o morti durante le loro missioni.

Giornali, radio e televisione diedero molto risalto alle loro rivelazioni, ma i fratelli Judica Cordiglia non erano i soli a puntare le loro antenne verso lo spazio. Nel mondo erano moltissimi a farlo, e con attrezzature ben più sofisticate e potenti: a cominciare dalla NASA, che non si sarebbe certo fatta scappare l’occasione di denunciare un incidente mortale occorso ai loro avversari. Eppure nessun altro raccolse gli stessi messaggi sensazionali. Come mai?

Probabilmente in un primo tempo la suggestione portò i due fratelli a fraintendere comunicazioni vocali molto disturbate di origine terrestre; più avanti, la continua richiesta di nuovi scoop da parte dei giornalisti li spinse ad abbellire sempre di più i loro resoconti.

Per motivi diversi, tutte le intercettazioni di cosmonauti perduti che è stato possibile analizzare non sono credibili. Un’analisi molto approfondita è stata condotta da Luca Boschini, ingegnere spaziale con buone conoscenze di russo, nel libro Il mistero dei cosmonauti perduti. Leggende, bugie e segreti della cosmonautica sovietica (CICAP, 2013). Per fare solo qualche esempio, la voce di una cosmonauta che sarebbe morta durante il rientro nel maggio 1961, una volta fatta analizzare da madrelingua russi non risultò appartenere né a una cosmonauta, né a una russa, né, da quanto è possibile capire, a qualcuno che sta per morire. Altre presunte intercettazioni sarebbero state realizzate quando le navette russe erano fuori dalla portata di antenne poste in Italia e quindi non potevano materialmente avvenire. Nel caso di Luna 4, poi, sarebbe stata intercettata una fotografia fatta da un modulo orbitale, che si sa con certezza non avesse a bordo alcuna macchina fotografica: questo particolare episodio, tra l’altro, costò a Giovanni Battista l’espulsione dall’Associazione Radioamatori Italiani.

Dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’apertura degli archivi di Mosca, l’evoluzione del programma spaziale sovietico è ben nota, compresi i fallimenti effettivamente tenuti nascosti per decenni, e non ci sono tracce di missioni umane prima di quella di Gagarin. Al meglio delle nostre conoscenze, il primo cosmonauta morto durante una missione è stato Vladimir Komarov nel 1967. Oggi nessuno storico dello spazio crede alla leggenda dei cosmonauti perduti.
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La fantomatica missione Apollo 20 avrebbe indagato su un cratere lunare contenente i resti di un’astronave aliena © Paul Campbell/iStock


Una missione Apollo segreta a caccia di alieni


È noto che gli esseri umani hanno messo piede sulla Luna per l’ultima volta nel 1972, con la missione Apollo 17. Giusto? Assolutamente no, in base a una leggenda che circola da qualche anno, secondo cui dopo l’Apollo 17 ci sarebbero state altre tre missioni lunari umane, tenute segrete a causa del loro obiettivo: esplorare un cratere dove era stata avvistata un’astronave aliena.

La rivelazione arriva nel 2007 da un uomo che si identifica come William Rutledge, ex comandante dell’Apollo 20, intervistato dall’ufologo italiano Luca Scantamburlo.

Secondo Rutledge, Apollo 20 era una missione congiunta di Stati Uniti e Unione Sovietica, il cui equipaggio, oltre che da lui stesso, era costituito dall’americana Leona Snyder (che non risulta essere davvero esistita) e dal russo Alexei Leonov (un vero cosmonauta, protagonista della prima storica attività extraveicolare nel 1965).

Secondo Rutledge, durante la missione i tre astronauti avrebbero esaminato i resti di un’antica nave spaziale aliena lunga tre chilometri e le rovine di una città lunare, trovando il cadavere perfettamente conservato di un’extraterrestre femmina, che riportarono sulla Terra.

I primi video sull’Apollo 20 sono apparsi su YouTube il 1º aprile 2007, un chiaro indizio della natura burlesca dell’operazione. L’artista francese Thierry Speth si è dichiarato responsabile dello scherzo, ma altri utenti hanno continuato a diffonderlo.

Diversi particolari dimostrano che i video sono falsi. Per esempio, parte dell’audio è riciclata da una registrazione della missione Apollo 15. Le immagini di Leonov sono prese da video di repertorio e sovrapposte in modo imperfetto alle immagini dell’intero modulo lunare, tanto che in alcuni fotogrammi il corpo del cosmonauta appare trasparente. Le immagini della città lunare sono copiate da un libro di profezie di Nostradamus.

Lo scherzo prendeva spunto da alcuni fatti reali. Fotografie scattate dall’Apollo 15 mostrano un oggetto a forma di sigaro che nella realtà è una formazione naturale, ma diventa la prima prova dell’esistenza dell’astronave aliena. Le missioni Apollo 18, 19 e 20 erano davvero previste, ma furono cancellate nel 1970. Alexei Leonov partecipò davvero a una missione congiunta tra Unione Sovietica e Stati Uniti come comandante della Apollo-Soyuz del 1975. Il resto è inventato, ma la burla continua a essere presa sul serio anche ai giorni nostri.
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L’equipaggio del Challenger. Davanti, da sinistra, Michael J. Smith, Francis R. Scobee e Ronald E. McNair; dietro, Ellison S. Onizuka, Sharon Christa McAuliffe, Gregory B. Jarvis e Judith A. Resnik. © NASA


Gli astronauti dello shuttle Challenger sono vivi e vegeti?


Il 28 gennaio 1986 a Cape Canaveral ci sono quattro gradi sotto zero, un clima insolito per le coste temperate della Florida. I serbatoi dello shuttle Challenger non sono progettati per una temperatura così bassa e due guarnizioni cedono, provocando una perdita di propellente che causerà la distruzione della navetta 73 secondi dopo il lancio e la morte dei sette componenti dell’equipaggio.

Questa è la versione ufficiale, ma da qualche anno si è diffusa una odiosa teoria del complotto secondo cui il disastro del Challenger sarebbe stata una finzione e sei dei suoi sette astronauti sarebbero ancora tranquillamente in giro per gli Stati Uniti.

Stando a questa teoria complottista, il comandante Dick Scobee è oggi l’amministratore delegato di un’azienda di Chicago; Michael Smith, Judith Resnik e Sharon Christa McAuliffe sono professori universitari; Ellison Onizuka è in realtà suo fratello Claude e Ronald McNair è suo fratello Carl. Solo Gregory Jarvis fu lasciato in pace e considerato davvero morto.

Perché mai la NASA si sarebbe inventata tutto? Per infliggere un trauma collettivo a milioni di giovani che videro il lancio in diretta e renderli più malleabili alla propaganda e all’indottrinamento! Una spiegazione piuttosto discutibile considerando che la tragedia del Challenger causò rallentamenti e cancellazioni nel programma spaziale, ma le teorie del complotto raramente reggono a un attento esame.

Il nucleo della leggenda è la scoperta che negli Stati Uniti esistono persone con lo stesso nome di alcuni astronauti del Challenger, più o meno la stessa età e una certa somiglianza fisica: un fatto non troppo sorprendente, in una nazione di 330 milioni di abitanti. C’è una Judith Resnik che insegna legge e che esisteva già negli anni Settanta e Ottanta, quando l'altra Judith Resnik studiava ingegneria elettrica e diventava astronauta. Negli stessi anni in cui McAuliffe l’astronauta (che si faceva chiamare col secondo nome Christa e non con il primo, Sharon) studiava storia all’università e poi iniziava a fare l’insegnante, Sharon McAuliffe la professoressa universitaria studiava legge in un altro ateneo e iniziava a lavorare per una società di contabilità. Lo stesso vale per Richard Scobee e Michael Smith e i loro omonimi. Per Ellison Onizuka e Ronald McNair, gli autori della teoria del complotto, non trovando nessuno con lo stesso nome, hanno dovuto ripiegare sui fratelli, i quali peraltro hanno una propria storia personale e non si sono materializzati solo dopo l’incidente del Challenger.

Come fa notare il sito di debunking Snopes, i due Richard Scobee si assomigliano abbastanza, ma sono chiaramente due persone diverse, mentre le somiglianze tra le due McAuliffe e le due Resnik sono davvero vaghe. Inoltre, se la NASA avesse davvero orchestrato un inganno così grande, i suoi protagonisti non avrebbero fatto almeno lo sforzo di scegliersi un nome falso?

Gli indizi a favore di questa teoria complottista sono davvero inconsistenti; il vero motivo per la sua diffusione è la difficoltà di accettare che le nostre vite sono governate dal caso e che possono essere spezzate in qualsiasi momento da tragedie crudeli. Ma la voce secondo cui gli astronauti del Challenger sono ancora vivi infanga la loro memoria e infligge ai loro cari una sofferenza ulteriore: non è un passatempo innocuo e non è un modo accettabile di gestire la difficoltà ad accettare la scomparsa accidentale di vittime innocenti.
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L’Astral Challenger, il monumento eretto nella Antelope Valley, in California, in memoria della navicella e del suo equipaggio © NASA/Courtesy of Eric Minh Swenson


Gli esperimenti di sesso nello spazio


Negli anni Novanta si diffuse su Internet un falso rapporto della NASA su come fare sesso nello spazio: il documento, che imita lo stile formale e un po’ ingessato dei veri rapporti dell’agenzia, riportava i risultati di un esperimento che si sarebbe svolto sulla missione STS-75 (all’epoca non ancora avvenuta). Seguendo un programma prestabilito, i soggetti del test avrebbero messo alla prova la fattibilità di dieci posizioni diverse, riscontrando che solo quattro di esse sarebbero possibili senza “assistenza meccanica” che impedisca ai partner di allontanarsi, come bande elastiche o una sorta di sacco a pelo aperto.

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Jan Davis e Mark Lee, l’unica coppia sposata a volare insieme nello spazio ©JPL/NASA (elaborazione Query)
Purtroppo, questo documento chiaramente parodistico fu preso sul serio dall’astronomo e divulgatore scientifico francese Pierre Kohler, che nel 2000 pubblicò il libro La Dernière mission: Mir, l’aventure humaine (L’ultima missione: Mir, l’avventura umana) in cui citava estratti del rapporto affermando che sia i russi sia gli americani avevano condotto esperimenti di “accoppiamenti cosmici”. NASA e Roscosmos smentirono, ma ormai la storia viveva di vita propria e continuerà a circolare fino ai nostri giorni.

Ma qualcuno ha fatto davvero sesso nello spazio? Non abbiamo nessuna conferma in proposito e possiamo solo fare speculazioni. I maggiori indiziati sono gli americani Jan Davis e Mark Lee, che sono andati in missione insieme sullo Shuttle nel 1992 subito dopo essersi sposati, in un’eccezione al regolamento NASA che proibisce alle coppie sposate di volare insieme poiché la dinamica di gruppo ne potrebbe risentire. Sono circolati pettegolezzi anche sui cosmonauti Elena Kondakova e Valerij Poljakov, che negli anni Novanta sono stati insieme sulla stazione spaziale russa Mir.

Di sicuro l’ambiente spaziale non è dei più favorevoli all’intimità, perché altera i ritmi circadiani e la produzione di ormoni e riduce la libido, favorendo la nausea e l’abbassamento della pressione sanguigna. Tuttavia, se prenderanno corpo i programmi di esplorazione umana di Marte ci si può aspettare che le missioni avranno durate sempre maggiori ed è ragionevole pensare che prima o poi la sessualità entrerà a far parte delle missioni degli astronauti.
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Illustrazione della stazione spaziale cinese Tiangong © Wikipedia/Shujianyang /CC BY-SA 4.0


La Stazione spaziale internazionale è un falso?


Non c’è alcuna Stazione spaziale internazionale in orbita e gli astronauti che vediamo in innumerevoli foto e video sono attori pagati per interpretare quel ruolo.

È quanto sostiene una teoria del complotto che ha ricevuto nuovo impulso a maggio 2021, quando è stato diffuso un video in cui un mappamondo gonfiabile sfugge di mano all’astronauta Mike Hopkins e sembra cadere a terra, anziché continuare a fluttuare in aria.

Questo piccolo particolare, secondo alcuni, basta a dimostrare che la International space station (ISS), che loro chiamano “International fake station”, sarebbe una colossale montatura, con buona pace delle decine di migliaia di persone (incluso il sottoscritto) che negli ultimi 25 anni e oltre hanno lavorato a progetto, costruzione e manutenzione di una delle infrastrutture scientifiche e tecnologiche più imponenti nella storia dell’umanità.

Il video del mappamondo che è circolato sui social network è molto breve e manca di contesto. In quello completo, che dura oltre 20 minuti ed è disponibile sul canale YouTube della NASA, si può notare che il mappamondo gonfiabile inizialmente va verso il basso perché riceve una piccola spinta involontaria dal braccio di Hopkins, ma qualche secondo più tardi torna a fluttuare nell’angolo di visione della telecamera. In altri momenti del video si vede chiaramente che lo stesso pallone e altri oggetti, come un microfono e le magliette e i capelli degli astronauti, non sono affetti dalla gravità come accadrebbe sulla Terra.

Anche i cinesi mentono?


Tutto il mondo è paese: la stazione spaziale cinese Tiangong è vittima delle stesse teorie del complotto di quella internazionale. Per ora, l’ultimo esempio è del dicembre 2021, quando i tre taikonauti a bordo, Zhai Zhigang, Wang Yaping e Ye Guangfu, hanno tenuto in collegamento video con la Terra una lezione di scienze che comprendeva alcuni esperimenti con un barattolo di vetro, un po’ d’acqua e una pallina da ping pong. In un fermo immagine tratto dal video si vede il barattolo appoggiato su un tavolo e l’acqua a riposo al suo interno. Perché il bicchiere non fluttua e l’acqua non si raccoglie in una bolla? Anche in questo caso il mistero si svela guardando il video completo, ma quello che succede è un po’ più interessante e controintutivo che nel video della NASA.

Il fenomeno per cui l’acqua rimane dentro il barattolo non è la gravità, ma l’adesione, la stessa per cui d’estate le gocce di rugiada rimangono attaccate alle foglie. Normalmente la tensione superficiale farebbe sì che l’acqua si raccogliesse in una bolla, ma iniettandola nel barattolo con un po’ di attenzione è possibile farla aderire alle pareti, e una volta che l’acqua si trova in quella posizione non ha più motivo di spostarsi, perché l’adesione (la forza che spinge le molecole d’acqua ad aderire al vetro) è più forte della coesione (la forza che tiene le molecole d’acqua unite tra loro). E perché il barattolo rimane fermo sul tavolo? La risposta in questo caso è banale: come molti altri oggetti sulle stazioni spaziali è fissato con un po’ di velcro, il miglior amico degli astronauti.

L’esperimento prosegue con gli studenti sulla Terra che provano a immergere una pallina da ping pong in un barattolo pieno d’acqua uguale a quello usato dagli astronauti, ma la pallina, come ci aspettiamo, galleggia. Al contrario, sulla stazione spaziale, una volta immersa nell’acqua con una bacchetta, la pallina rimane ferma e non torna a galla, perché in assenza di peso non c’è la spinta di Archimede. Non solo: quando il barattolo viene staccato dal tavolo e fatto ruotare lentamente su sé stesso, l’acqua non esce e la sua superficie rimane parallela al fondo del barattolo: ironicamente, proprio l’oggetto che, secondo la teoria del complotto, dovrebbe dimostrare che il video non è girato nello spazio, è quello che dimostra il contrario nel modo più spettacolare!

Un altro esperimento condotto nello stesso video mostra come creare una pellicola d’acqua su un anello come se fosse una bolla di sapone, di nuovo grazie alla tensione superficiale e all’adesione. Poi Wang si mette dietro una bolla d’acqua e mostra che la propria immagine nell’acqua è rovesciata perché la bolla si comporta come una lente convergente: ma quando Ye inietta dentro la bolla d’acqua una bolla d’aria più piccola, l’immagine di Wang dentro l’aria si capovolge di nuovo e torna diritta. La realtà non è più affascinante di una banale teoria del complotto?

Velcro e teflon non sono stati inventati dalla NASA


Al contrario di quanto viene spesso ripetuto, né il velcro né il teflon sono prodotti dell’esplorazione spaziale. Il velcro è adoperato fin dalle missioni Apollo per impedire agli oggetti di fluttuare in giro per la cabina, mentre il teflon è molto usato all’interno di tute spaziali e scudi termici. Ma il teflon è stato inventato nel 1938 e il velcro nel 1941, entrambi molto prima che qualsiasi missione spaziale fosse anche solo immaginata.

La NASA non ha inventato nemmeno la risonanza magnetica, ideata negli anni Settanta dal chimico americano Paul Lauterbur, anche se gli algoritmi software usati per migliorare la qualità delle immagini sono nati in origine per le missioni spaziali.

Molte altre tecnologie però sono davvero nate dall’esplorazione spaziale. Se ne contano a migliaia ed è impossibile elencarle tutte, ma si possono citare a titolo di esempio i pannelli solari fotovoltaici, i termometri a infrarossi, le lenti antigraffio, vari sistemi di filtrazione dell’acqua, oltre naturalmente alla tv via satellite e ai navigatori satellitari. Inoltre, le tecnologie mediche nate dallo spazio hanno permesso di salvare decine di migliaia di vite umane. La NASA pubblica ogni anno un rapporto sugli ultimi spin-off che dallo spazio arrivano nella vita di tutti i giorni: molti di essi riguardano il software e sono a disposizione di tutti senza copyright.

Senza la ricerca spaziale le nostre vite sarebbero molto diverse, ma gli spin-off non dovrebbero essere visti come la giustificazione principale dei programmi spaziali: sono benefici collaterali che emergono in maniera non prevedibile e non programmabile, ma non possono sostituire gli obiettivi di migliorare le nostre conoscenze scientifiche, favorire la cooperazione internazionale ed esplorare il cosmo.

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Il modello AG7 della Fisher Space Pen fu usato per la prima volta dalla NASA nella missione Apollo 7 © Wikipedia/Cp100/CC BY-SA 3.0

No, la NASA non ha speso miliardi per sviluppare una penna spaziale


Torna periodicamente a galla una vecchia leggenda secondo cui, all’epoca delle prime missioni spaziali, la NASA impiegò dieci anni e centinaia di milioni di dollari, se non miliardi, per sviluppare una penna antigravitazionale che potesse funzionare nello spazio, mentre i russi avrebbero trovato una soluzione elegante ed economica al problema… portandosi dietro delle matite!

Questa leggenda è una classica “idea zombie” che continua a resuscitare da più di vent’anni, nonostante sia stata smentita un sacco di volte. Esaminarla di nuovo non servirà certamente a metterla a riposo una volta per tutte, ma ci potrà insegnare qualcosa sulla corsa allo spazio.

Per cominciare, è vero che le normali penne a sfera funzionano male senza l’aiuto della gravità, come sa chiunque abbia provato a fare le parole crociate da sdraiato.

A causa di questo inconveniente, nelle prime missioni spaziali tanto gli americani quanto i sovietici si portarono delle matite. Gli americani usavano normali matite meccaniche con una micromina in grafite, che però si rompeva spesso e poteva finire negli occhi degli astronauti o nelle apparecchiature elettroniche. I sovietici invece usavano pastelli a cera, che non si rompevano facilmente, ma scrivevano male e lasciavano comunque detriti fastidiosi. Inoltre, entrambi gli oggetti erano infiammabili e quindi fonte di gravi rischi.

Nel 1965 l’ingegnere americano Paul Fisher brevettò una “penna spaziale”, sviluppata di propria iniziativa e con fondi privati (circa un milione di dollari), dotata di una cartuccia pressurizzata che permetteva di scrivere da qualunque angolazione e nello spazio, di un inchiostro resistente all’evaporazione e poco infiammabile, e di una sfera di precisione in carburo di tungsteno che evitava le perdite di inchiostro. Ne consegnò alcuni campioni alla NASA, che li collaudò per l’uso spaziale e ne approvò una versione migliorata nel 1967.

Alla fine del 1967 la NASA ordinò 400 penne spaziali al prezzo scontato di 2,95 dollari ciascuna, e presto anche l’agenzia spaziale russa ne acquistò 100. Nel 1969 entrambe le agenzie avevano iniziato a usarle, e Fisher sfruttò questo successo commerciale nella pubblicità della penna spaziale, che continua ancora oggi (chiunque ne può acquistare una versione attuale a partire da 16 dollari). Come ha spiegato recentemente il cosmonauta Sergei Kud-Sverchkov, non solo gli americani ma anche i russi continuano a usare tuttora la penna spaziale, oltre a matite automatiche con la mina spessa e pennarelli.

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La capsula Vostok 1 in cui volò Gagarin. Rispetto a quelle della NASA, le capsule russe avevano una forma sferica che facilitava l’assetto in fase di rientro © Cortesia CDG

Necessità, madre dell’invenzione


Non c’è dubbio che anche questa leggenda sia falsa. Ma come è nata e perché continua a essere diffusa? Probabilmente hanno contribuito diversi fattori.

Qualsiasi prodotto “qualificato per lo spazio”, cioè estesamente collaudato per dimostrare di poter sopravvivere nel difficile ambiente spaziale, costa molto di più del suo equivalente terrestre. Nel 1965 la notizia che la NASA aveva pagato 34 matite qualificate per lo spazio al prezzo di circa 130 dollari l’una provocò l’accusa di avere sprecato denaro pubblico. Gli investimenti degli americani per recuperare lo svantaggio iniziale nei confronti dei sovietici furono ingenti, e al culmine della corsa allo spazio il peso della NASA sul bilancio federale era molto più alto di oggi (anche se sempre minuscolo rispetto a quello delle spese militari).

Dall’altra parte i russi, al netto della propaganda sovietica, sapevano effettivamente compensare l’arretratezza tecnologica e le minori risorse economiche con l’inventiva e il pragmatismo. A differenza degli americani, i russi non potevano contare sull’aiuto dell’inventore delle V-2 Wernher Von Braun e dei suoi più stretti collaboratori. Avevano però bravissimi matematici e ingegneri, ottimamente guidati da Sergei Korolëv, il “costruttore capo”, un genio non solo nel trovare soluzioni alla portata dell’industria russa, ma anche nel destreggiarsi tra le idiosincrasie e i rischi mortali dell’ambiente politico sovietico.

Ironicamente, il vantaggio iniziale dell’Unione Sovietica nella corsa allo spazio fu favorito dall’arretratezza della sua tecnologia militare. La prima bomba atomica russa pesava oltre cinque tonnellate e i russi, grazie a Korolëv, dovettero sviluppare un razzo in grado di trasportare quel carico a distanze intercontinentali, l’R-7.

Gli scienziati di Los Alamos riuscirono invece a sviluppare una bomba all’idrogeno “miniaturizzata”, molto più leggera, e il loro primo missile balistico, l’Atlas, pronto due anni dopo l’R-7, era quattro volte meno potente. Quando americani e sovietici iniziarono a usare i loro missili per mandare esseri umani nello spazio, l’URSS aveva un vantaggio sostanziale che durò fino a metà degli anni Sessanta.

Un altro esempio del pragmatismo russo è la forma delle capsule per il rientro in atmosfera degli equipaggi. Le capsule americane avevano la forma di un tronco di cono con la protezione termica posta sotto la base. Questa scelta aveva alcuni vantaggi, ma richiedeva un complicato sistema di controllo di assetto con piccoli motori a razzo per garantire che la base del veicolo fosse sempre orientata verso la direzione del moto. In caso contrario la capsula sarebbe stata incenerita dal calore infernale sviluppato dall’attrito con l’aria durante il rientro. Le capsule russe avevano invece la forma di una sfera e, avendo la maggior parte del peso collocata sotto l’astronauta, si orientavano automaticamente nella posizione corretta, senza bisogno di controllo di assetto.

I successi iniziali dei russi nella corsa allo spazio, nonostante la supremazia tecnologica e i grandi investimenti degli Stati Uniti, furono uno shock per l’opinione pubblica americana e prepararono il terreno per la diffusione della storia delle penne spaziali, favorita, come spesso accade nelle leggende metropolitane, da un messaggio morale di fondo. In questo caso, si tratta della superiorità del buon senso rispetto all’ottusità della burocrazia: forse anche noi, con un po’ di saggezza contadina, potremmo avere un’idea migliore dei cervelloni della NASA, con tutti i loro soldi! Infine la leggenda offriva ai sostenitori del sistema sovietico una piccola occasione di rivincita nei confronti dei loro avversari ideologici. Forse non è un caso se la leggenda è ricomparsa nell’epoca in cui la guerra in Ucraina è tornata a contrapporre la Russia ai paesi occidentali.

Riferimenti bibliografici

  • Luca Boschini, Il mistero dei cosmonauti perduti. Leggende, bugie e segreti della cosmonautica sovietica, CICAP: Padova, 2013.
  • Bob King, Urban Legends from Space: The Biggest Myths About Space Demystified, Page Street Publishing: Boston, 2019.
  • Luca Perri, Astrobufale. Tutto ciò che sappiamo (ma non dovremmo sapere) sullo spazio, Rizzoli: Milano, 2022.
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