Il cielo a parole

Il rapporto tra astronomia e letteratura nei grandi classici italiani

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  • 05-01-2024
  • di Emiliano Ricci
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© tomertu/iStock
L'astronomia e la letteratura sono due discipline che hanno intrattenuto una relazione di lunga data, con profonde influenze reciproche. Fin dai tempi antichi, l’osservazione del cielo ha ispirato autori e poeti, offrendo una fonte inesauribile di meraviglia e mistero. Le stelle, i pianeti e i fenomeni celesti sono stati spesso utilizzati come metafore e simboli nella letteratura, riflettendo su temi come l’infinito, il destino e la conoscenza. Attraverso alcuni esempi significativi, limitati per motivi di spazio ad alcuni autori italiani di particolare importanza, in queste pagine getteremo uno sguardo sul modo in cui la scoperta dell’universo ha ispirato autori, poeti e scrittori a esplorare temi come il cosmo, l’infinito e l’umano e a riflettere sulle strette relazioni e le profonde connessioni tra cielo e terra.

I poeti e la Luna: Giacomo Leopardi


Come per pittori e musicisti, la Luna è stata fonte di ispirazione anche per molti scrittori, e per i poeti in particolare. In questo ambito, una citazione particolare la merita sicuramente Giacomo Leopardi, che inizia il suo “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” proprio con una serie di domande retoriche alla Luna:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.


Composta a cavallo fra il 1829 e il 1830 e poi pubblicata nella prima edizione della raccolta intitolata Canti, del 1831, la poesia è appunto un dialogo (o, meglio, uno pseudo-dialogo, dato che l’interlocutore non risponde) tra il pastore errante – l’alter-ego del poeta – e la Luna, e affronta temi profondi come la solitudine, la bellezza della natura e la sua indifferenza nei confronti della condizione umana, di cui il pastore errante è un simbolo, un individuo solitario e smarrito nella vastità del mondo.

Il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” è una delle opere più famose di Leopardi e riflette il suo pensiero pessimista sulla vita umana e la sua ricerca di significato nell’universo, offrendo un’importante riflessione sulla relazione tra l’uomo e la natura. Alcuni anni prima, nel 1819, Leopardi aveva invece affrontato un altro tema a lui caro, quello del ricordo, con un’altra lirica, intitolata proprio “Alla Luna” (nella prima versione il titolo della poesia era “La ricordanza”), anche questa pubblicata nei Canti , che si apre con queste righe:

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.


Qui la Luna è ritratta come un’amica intima del poeta, a cui può confidare le proprie sofferenze e nella cui contemplazione può trovare sollievo. Con questa poesia siamo di fronte a un “notturno”, e in particolare a un “chiaro di Luna”, non dissimile come intenzione poetica da quelli noti in ambito musicale.

Ma il tema del cielo, della Luna e delle stelle è sempre presente nella poesia di Leopardi, che, appassionato di astronomia sin dall’adolescenza, appena quindicenne, nel 1813, scrisse una Storia dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, in cui l’autore definisce l’astronomia come «la più nobile, la più sublime fra le fisiche scienze». Lasciando per un attimo il tema della Luna, fra le poesie leopardiane celebri per contenere riferimenti al cielo è “Le ricordanze”, composta nel 1829 e pubblicata poi nell’edizione dei Canti del 1831. L’incipit è il seguente:

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.


Anche qui, come nella poesia “Alla Luna”, il tema principale è quello del ricordo, ovvero del continuo confronto fra il passato e il presente, che si apre con un’invocazione alle brillanti stelle dell’Orsa Maggiore, oggetto di osservazioni del poeta sin da quando era ragazzo. Come in altri suoi celebri componimenti, Leopardi indugia sulle illusioni della giovinezza, piena di speranza e di sogni, per paragonarle tristemente con la disillusione dell’amara realtà dell’età adulta, segnata dal dolore e dalla sofferenza.

I poeti e il cielo notturno: Pascoli e Ungaretti


Oltre alla Luna, naturalmente, anche le stelle sono fonte di ispirazione per la creatività umana. Come abbiamo appena visto con Leopardi, i poeti non si affidano solo al nostro satellite, ma spesso utilizzano le stelle come metafore per esprimere emozioni profonde, desideri, speranze, o anche per riflettere sulla natura dell’universo e del destino umano. Le stelle possono rappresentare la bellezza, la luce, la guida, ma anche la lontananza e l’inaccessibilità. In generale, poeti e scrittori impiegano il cielo stellato per evocare una vastità e una bellezza che spesso servono a mettere in prospettiva la piccolezza dell’essere umano di fronte all’immensità dell’universo.

Fra gli autori più importanti della letteratura italiana, una particolare predilezione per il cielo e i fenomeni celesti si nota in Giovanni Pascoli, che nelle proprie poesie usa spesso riferimenti astronomici. Una delle opere più note è “X agosto”, composta nel 1896 e pubblicata nella raccolta Myricae, in cui il poeta piange la morte del padre, ucciso in circostanze misteriose appunto il 10 agosto 1867, e i cui versi iniziali recitano così:

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.


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A una distanza media di 420 anni luce, il complesso di nebulose di Rho Ophiuchi è la regione di formazione stellare più vicina alla Terra © NASA, ESA, CSA, STScI, Klaus Pontoppidan (STScI)
Qui il poeta definisce il fenomeno delle stelle cadenti un “pianto del cielo” e lo associa alla tragedia familiare. In effetti, quelle che chiamiamo “stelle cadenti” sono piccoli grani di polvere che, penetrando nell’atmosfera terrestre, bruciano tracciando una scia luminosa, definita meteora. Molti di questi grani orbitano attorno al Sole in sciami: quando la Terra ne incrocia uno, si origina una pioggia meteorica. Lo sciame più famoso è proprio quello delle Perseidi, che genera una pioggia attorno al 10 agosto, la notte di San Lorenzo.

Nella sua opera Pascoli torna spesso a descrivere il cielo, anche con grande dettaglio. Ebbe anche la fortuna di assistere al penultimo, spettacolare, passaggio della cometa di Halley, quello del 1910, e ne rimase così colpito da dedicarle un componimento, intitolato appunto “La cometa di Halley” e datato 10 gennaio 1910, che inizia con questi versi:

O tu stella randagia, astro disperso,
che forse cerchi, nel tuo folle andare,
la porta onde fuggir dall’universo!


Mentre Pascoli dialoga con una cometa, a parlare con una stella, la cui luce è l’unico simbolo di speranza in un mare di solitudine, è Giuseppe Ungaretti, che nel 1966 compone “Stella”, appunto, inserita nella raccolta Dialogo:

Stella, mia unica stella,
nella povertà della notte, sola,
per me, solo, rifulgi,
ma, per me, stella
che mai non finirai d’illuminare,
un tempo ti è concesso troppo breve,
mi elargisci una luce
che la disperazione in me
non fa che acuire.


Per il poeta, anche se la luce della stella è eterna (in realtà non è così, come sappiamo dallo studio dell’evoluzione stellare, ma questo non è rilevante per il senso della poesia: dopo tutto i milioni e i miliardi di anni di vita di una stella sono comunque un’eternità rispetto alla vita di un essere umano), il tempo che la stella può brillare per lui è limitato, e questo aumenta il suo dolore, invece di alleviarlo. “Stella” è il riconoscimento che anche la bellezza della natura è illusoria, perché comunque di breve durata per noi umani, destinati a morire e quindi condannati a godere della splendida luce di una stella solo per un breve intervallo di tempo rispetto al tempo infinito in cui la stella stessa continuerà a brillare.

I poeti e la conquista dello spazio: Quasimodo, Montale e Landolfi


I quasi 12 anni che vanno dal lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik 1, nel 1957, all’arrivo dell’uomo sulla Luna con la missione Apollo 11, nel 1969, hanno lasciato un segno indelebile nella cultura e nella società. Nemmeno la letteratura è rimasta immune da questa influenza, e molti autori hanno affrontato in varie maniere e con molteplici significati questo passaggio fondamentale nella storia dell’umanità. Fra i vari autori, naturalmente i poeti hanno sviluppato il tema con diverse sensibilità, chi vedendolo in maniera positiva, come un importante segno di progresso, chi, invece, commentandolo in maniera critica, come un momento di alienazione e disumanizzazione. In questo contesto, la letteratura si è rivelata un terreno fertile per esplorare le sfaccettature della conquista dello spazio e i suoi impatti sulla psiche umana. Qui ci limitiamo a citare alcuni dei più celebri poeti italiani del XX secolo che hanno affrontato, ciascuno con il proprio stile e la propria sensibilità, il tema della conquista dello spazio.

Iniziamo con Salvatore Quasimodo, che, con la poesia “Alla nuova Luna”, pubblicata nel 1958 nella raccolta La terra impareggiabile e dedicata appunto al lancio dello Sputnik, scrive quella che può essere interpretata come una sorta di preghiera laica dedicata all’umanità, capace di progredire e di sfidare Dio nel suo slancio verso il cielo, ma anche come una presa d’atto – non si capisce se critica – dell’ineluttabilità del progresso umano, puntualizzata da quell’“amen” alla conclusione:

In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò
Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.


Alcuni anni dopo, nel gennaio 1969 – quindi alcuni mesi prima che l’uomo arrivi a camminare sulla Luna – Eugenio Montale scrive una poesia dal titolo “Fine del '68”, apparsa prima sul Corriere della Sera e poi pubblicata nella raccolta Satura nel 1971, in cui celebra in maniera ironica la fine dell’anno immaginando di essere sulla Luna e di guardare la Terra da lassù, per scoprire che è solo un «modesto pianeta» e confermare la sua totale estraneità al mondo:

Ho contemplato dalla luna, o quasi,
il modesto pianeta che contiene
filosofia, teologia, politica,
pornografia, letteratura, scienze
palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo,
ed io tra questi. E tutto è molto strano.
Tra poche ore sarà notte e l’anno
finirà tra esplosioni di spumanti
e di petardi. Forse di bombe o peggio,
ma non qui dove sto. Se uno muore
non importa a nessuno purché sia
sconosciuto e lontano.


Pure contraddistinto da un profondo senso di pessimismo è il componimento di Tommaso Landolfi, “Quando, intenti al declino delle stelle”, pubblicato nel 1972 nella raccolta Viola di morte:

Quando, intenti al declino delle stelle
Cerchiamo in cielo traccia della morte,
Ivi scorgiamo errare umane celle
Alla conquista d’altri mondi volte.
Non il vitale spazio ci è conteso,
Ma il mortale: dovrà la nostra morte
Non aver, dunque, a specchio l’infinito
E consumarsi sordida e meschina
Su questa terra che ci fu matrigna?
Astronauti, ridateci uno spazio
(Almeno) vuoto d’uomo.


In sostanza, Landolfi attribuisce alla conquista dello spazio da parte dell’umanità la responsabilità della perdita di quella indifferenza e purezza della natura e del cielo stellato, ormai “abitato” dagli astronauti. Questa prospettiva critica nei confronti del progresso rappresenta un’interessante riflessione sulla trasformazione del rapporto tra l’uomo e l’universo circostante. Così, per Landolfi, come per molti altri scrittori, mentre l’umanità ha fatto passi da gigante nell’esplorazione e nella colonizzazione dello spazio, questo progresso ha avuto un prezzo. La conquista dello spazio ha comportato una perdita di quella sensazione di fascinazione e di mistero che una volta si provava guardando il cielo stellato. La natura, prima indifferente e inaccessibile, è stata sottomessa dall’intervento umano, e il cielo, una volta incontaminato, è stato invaso dagli uomini che vi si sono spinti per esplorarlo e colonizzarlo.

Visto da questa prospettiva, viene da pensare che questo cambiamento non riguardi solo l’ambiente circostante, ma anche la psiche umana. La Luna non è più quella descritta da Leopardi, ma è diventata terreno di conquista, assieme allo spazio che ci circonda. L’umanità potrebbe quindi aver perso un senso di umiltà e di connessione con la natura e l’universo, sostituendolo con una visione più pragmatica e utilitaristica. Questa critica al progresso invita a riflettere sulle implicazioni filosofiche e culturali della nostra conquista dello spazio, portando ancora una volta a interrogarsi sull’evoluzione del nostro rapporto con la natura e il cielo stellato e a comprendere il valore di questo cambiamento.

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Formata da una stella morente che espelle i suoi strati esterni quando esaurisce il carburante, la Nebulosa Anello è a circa 2500 anni luce di distanza dalla Terra © ESA/Webb, NASA, CSA, M. Barlow (UCL), N. Cox (ACRIST), R. Wesson (Cardiff University)

Il cosmo “comico” di Italo Calvino


Finora abbiamo citato solo poesie, ma in tutta la letteratura, compresi racconti e romanzi, possiamo incontrare riferimenti a concetti e fenomeni astronomici che possono assumere diverse sfumature e significati. In molte opere letterarie, infatti, l’astronomia è stata utilizzata come metafora o simbolo per esplorare temi profondi e complessi. Per esempio, per citare temi e significati che abbiamo già incontrato, la notte stellata può rappresentare la bellezza e la meraviglia del mondo, ma anche la solitudine e l’insignificanza dell’individuo di fronte all’immensità dell’universo. Allo stesso modo, l’osservazione dei pianeti e delle stelle può essere un mezzo per riflettere sul destino umano, sulla ricerca di significato nella vita o sulla comprensione del tempo e dello spazio.

Fra coloro che, forse più di altri, hanno riflettuto maggiormente sul senso del rapporto tra umanità e cosmo troviamo uno dei più grandi autori italiani del Novecento: Italo Calvino. In particolare, la sua raccolta di racconti fantastici Cosmicomiche, la cui prima edizione è del 1965, rappresenta un’eccezionale esplorazione dell’astronomia e della cosmologia attraverso una narrazione fantastica e spesso surreale.

L’opera si presenta come un connubio tra la fantasia creativa dell’autore e il rigore scientifico dell’astronomia, fondendo realtà e immaginazione in un viaggio senza tempo attraverso il cosmo. Le Cosmicomiche si caratterizzano infatti per l’originalità dell’approccio narrativo. Calvino si spinge oltre i confini della realtà con uno stile unico che mescola mito, scienza e immaginazione; parte da fatti scientifici accertati, come l’espansione dell’universo o la formazione delle galassie, e li trasforma in spunti per racconti fantastici. Questa combinazione di fantasia e scienza mostra come l’arte e la conoscenza possono interagire, fornendo una prospettiva diversa sull’universo e sul nostro ruolo in esso.

Nelle Cosmicomiche, Calvino immagina il cosmo come un palcoscenico per raccontare storie che coinvolgono personaggi fantastici come Qfwfq, il narratore delle storie, un essere che esiste addirittura dall’inizio del tempo. Ecco come viene presentato nella quarta di copertina della raccolta:

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All’interno di un giovane sistema stellare nella nebulosa di Orione è stato rilevato un composto del carbonio che favorisce la formazione di molecole più complesse © ESA/Webb, NASA, CSA, M. Zamani (ESA/Webb), PDRs4ALL ERS Team
«Il protagonista di questo libro si chiama Qfwfq. Altro non si sa, non è nemmeno detto che sia un uomo: probabilmente possiamo considerarlo tale dal momento in cui il genere umano comincia a esserci. … Quanti anni ha? Dato che non c’è avvenimento di milioni o miliardi di anni fa cui non abbia assistito, si deve calcolare che ha più o meno l’età dell’universo. Basta che il discorso tocchi di sfuggita l’accensione delle galassie o l’estinzione dei dinosauri, la formazione del sistema solare o i cataclismi geologici, ed eccolo saltar su a raccontare che c’era anche lui. Le varie teorie cosmogoniche trovano nel vecchio Qfwfq un testimone fin troppo volenteroso: pronto di volta in volta ad avallare con le sue memorie d’infanzia o di giovinezza ipotesi contraddittorie o addirittura opposte. Ognuna delle sue avventure è chiusa in sé: non è nemmeno personaggio, Qfwfq, è una voce, un punto di vista, un occhio (o un ammicco) umano proiettato sulla realtà d’un mondo che pare sempre più refrattario alla parola e all’immagine».

Attraverso questi racconti, Calvino esplora le teorie scientifiche, le leggi fisiche e gli eventi astronomici in modo poetico e filosofico, offrendo un punto di vista unico sul rapporto tra l’umanità e l’universo. I personaggi di Calvino viaggiano attraverso l’evoluzione cosmica, partecipando a eventi come la formazione della Terra, l’estinzione dei dinosauri e la nascita delle stelle. Queste storie giocano con i concetti di tempo, spazio e identità, ponendo domande profonde sulla nostra esistenza e il nostro posto nell’universo.

Così, attraverso la sua prosa visionaria e poetica, l’autore ci invita in maniera ironica a riflettere sulla bellezza, la complessità e l’inesauribile mistero dell’universo, in cui si riflettono i dilemmi e le peculiarità dell’esperienza umana. L’approfondimento dell’infinitamente grande e remoto si trasforma in un’attenta osservazione dei dettagli della vita quotidiana, in cui il cosmo diventa un mezzo per comprendere e interpretare la nostra esistenza di tutti i giorni. Questi racconti comici ci ricordano che, anche di fronte alla grandezza dell’astronomia e alla vastità del cosmo, l’umanità può trovare connessioni significative e significati personali, dando vita a una profonda riflessione sul nostro ruolo nel grande dramma cosmico.

Galileo e la divulgazione scientifica


La “popolarizzazione” della scienza e, in particolare, dell’astronomia in forma scritta è sempre esistita, almeno da quando esiste la scienza moderna. Già Galileo Galilei, infatti, passando dal latino accademico del Sidereus Nuncius (1610) all’italiano volgare dei testi successivi, e all’uso della forma dialogata, come nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), evidenzia la necessità di una diffusione maggiore delle conoscenze scientifiche, che non devono rimanere limitate entro la ristretta cerchia di “iniziati”. Per questo motivo Galilei può essere considerato, oltre che il primo scienziato moderno, anche il primo divulgatore scientifico: noto principalmente per i suoi contributi fondamentali alla scienza e all’astronomia, è stato anche un letterato e divulgatore scientifico di grande importanza nel suo tempo.

Fra i suoi scritti e contributi come letterato e divulgatore spiccano due opere. La prima è Il Saggiatore, pubblicato nel 1623, un trattato scientifico scritto da Galileo in forma di lettera aperta a un amico, nelle cui pagine Galileo difende il metodo di indagine scientifica basato sulla ricerca di prove sperimentali e critica le opinioni errate dei suoi contemporanei. Questo lavoro è considerato uno dei capolavori della prosa scientifica e contribuì in modo significativo alla promozione del metodo scientifico. L’altra, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, è uno dei lavori più significativi di Galileo e rappresenta un importante esempio di divulgazione scientifica del periodo. In questo testo, scritto sotto forma di dialogo tra tre personaggi, Simplicio, Salviati e Sagredo, Galileo presenta argomenti a favore del sistema eliocentrico di Copernico e critica il modello geocentrico tradizionale (quello tolemaico) sostenuto dalla Chiesa cattolica. Galileo scelse di scrivere il suo trattato in questa forma per poter presentare argomenti complessi in un modo più accessibile, rendendo il testo più interessante e coinvolgente per il lettore. I tre personaggi discutono di vari argomenti astronomici, e l’uso del dialogo è un veicolo ideale per presentare in modo chiaro e convincente le prove a favore del modello eliocentrico e confutare il modello geocentrico.

Nonostante la condanna del testo e del suo autore da parte dell’Inquisizione, il Dialogo ottenne subito un grande successo. Fu presto tradotto in diverse lingue (la prima volta in francese, nel 1634) ed ebbe una vasta circolazione in Europa, contribuendo così a diffondere le idee eliocentriche e promuovendo l’uso del metodo scientifico. Vediamo un passaggio emblematico della capacità di scrittura di Galileo, quello in cui Salviati propone un esperimento mentale ai suoi interlocutori per spiegare loro come funziona il principio di relatività:

«Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non piú gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder cosí, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma [...]».

Qui Galileo utilizza l’esempio del «gran navilio», un grande vascello, per illustrare il principio della relatività del moto (relatività galileiana), che è uno dei concetti chiave dell’opera. In assenza di un riferimento esterno, ovvero senza guardare da oblò o finestrini, per i passeggeri al suo interno non è possibile determinare se la nave è ferma o si muove di moto rettilineo uniforme (ovvero a velocità costante). Tutto ciò che possono osservare, infatti, sono solo i movimenti relativi tra gli oggetti all’interno della nave, ma nessun esperimento di meccanica è in grado di evidenziare se questa sia effettivamente in movimento o sia ferma rispetto alla terra. Per questa loro caratteristica, i sistemi di riferimenti in quiete o in moto rettilineo uniforme vengono chiamati sistemi di riferimento inerziali.

Ma questo è solo un esempio, tra i più celebri, che mostra come Galileo sia riuscito a realizzare, proprio usando un linguaggio chiaro e comprensibile anche a un pubblico più ampio, un importante lavoro di divulgazione, contribuendo con la sua opera a diffondere le idee eliocentriche durante un periodo di grande tensione tra scienza e religione. La sua scelta di presentare le sue argomentazioni sotto forma di dialogo e il suo stile accessibile hanno reso questo testo una pietra miliare nella comunicazione della scienza al pubblico generale, da cui poi molti scienziati e divulgatori successivi hanno tratto insegnamento.

EMILIANO RICCI è giornalista scientifico freelance e docente a contratto di media digitali presso l’Università di Firenze. Si occupa di astrofisica, cosmologia, esplorazione dello spazio. È autore di vari saggi divulgativi, tra cui Guida turistica dell’universo (Giunti, 2021) e Astronomia Pop. Un viaggio fra scienza e immaginario (Odoya, 2023), da cui è stato adattato questo articolo.


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