L’appello all’ignoranza e la fallacia ad ignorantiam

  • In Articoli
  • 18-10-2011
  • di Manuele De Conti
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John Locke
Lo sapevate che anche la logica si è interessata ai fantasmi? No? Ebbene, l'interesse della logica per i fantasmi non riguarda la loro esistenza o non esistenza; la logica si è dedicata piuttosto allo studio dei ragionamenti che spesso compaiono nei discorsi sul paranormale. A questo riguardo, leggendario e ripreso da numerosi altri autori è l’esempio di ragionamento fallace presentato da Irving Copi: «I fantasmi esistono perché nessuno è mai stato capace di dimostrare che non ci sono». È l’appello all’ignoranza, il cui impiego, in alcune condizioni, risulta fallace. Tale argomento consiste nel sostenere che una proposizione è vera perché non è stata provata falsa o, viceversa, falsa perché non è stata provata vera. Ma procediamo per gradi e cerchiamo di capire, partendo da un esempio, perché tale argomento è stato così denominato e perché in alcune circostanze è problematico: c’è un uomo in uno chalet di montagna che non può vedere se fuori piove o meno; se fuori piovesse lo saprebbe perché gli è noto che il tetto amplifica il rumore della pioggia; non essendoci però alcun rumore, conclude che non piove. Semplificando, l’argomento si potrebbe riassumere in: siccome non c’è prova che fuori piova, allora non piove.

Questo ragionamento, un esempio di appello all’ignoranza, è apparentemente convincente, ma presenta due punti deboli: il primo è il suo essere fondato, come rivela il nome, sull’ignoranza o su prove negative; il nostro uomo, cioè, non sente il rumore che normalmente indicherebbe che sta piovendo. Ciò è problematico perché altre cause potrebbero non renderlo consapevole del rumore. Il secondo punto debole è quello di essere un argomento indiretto: il nostro uomo non vede la pioggia o la sua assenza guardando direttamente fuori casa, ma deriva le sue conclusioni solo in base a ciò che sente, o non sente, da dentro. Fuori casa, infatti, potrebbe piovere solo leggermente.

Nonostante il suo fondarsi sull’ignoranza e il suo carattere indiretto, alcuni impieghi di appello all’ignoranza risultano validi e molto importanti. Esso è infatti funzionale per ragionare all’interno di quadri concettuali definiti, come, ad esempio, nel caso degli orari ferroviari: se nel tabellone dei treni della nostra stazione non compare alcun treno per Venezia tra le 13:00 e le 14:00, possiamo correttamente concludere, senza bisogno di altre prove, che in quell’ora non ci sono treni verso la destinazione prescelta. Altro valido impiego lo fornisce la medicina, dove grazie a metodologie consolidate e apparati teorici collaudati, risultati negativi su nuove medicine o trattamenti possono essere considerati conoscenza. Ragionando in base al presupposto che, in queste circostanze, se l’evento o l’effetto si fosse manifestato, sarebbe stato còlto, è perfettamente ragionevole considerare l’assenza di prove, o di effetti, garanzia della non efficacia del medicamento o del trattamento in questione.

Gli ambiti in cui l’appello all’ignoranza ha largo impiego, ma scarso valore probatorio, ed è quindi debole, sono quelli in cui la verificabilità delle affermazioni è dubbia o quegli ambiti per i quali non esiste alcuna prova assoluta a favore o contro le affermazioni stesse. Ciò avviene, ad esempio, nelle pseudoscienze e per i fenomeni metapsichici. Argomentando infatti che la percezione extrasensoriale è possibile perché nessuno l’ha mai dimostrata impossibile o che Nessie, ossia il mostro di Loch Ness, esiste perché nessuno ha mai dimostrato il contrario, si commette un desolante errore. All’infuori di quadri concettuali definiti o solidamente fondati, la verità di una tesi non è garantita dalla semplice assenza di prove per la tesi opposta.

Questo argomento si può presentare anche nelle teorie del complotto. Sebbene alcune di queste siano state riconosciute attendibili e ben fondate, come ad esempio quella relativa alla Propaganda Due, o P2, altre, più lacunose o totalmente infondate, attribuiscono, all'assenza di prove in grado di smentirle, il valore di garanzia della loro verità. È il caso, ad esempio, dei Protocolli dei savi di Sion, documento che per taluni comproverebbe il mito del complotto ebraico. Secondo costoro il testo è autentico per assenza di prove della sua falsità: se c’è una prova della falsità, allora il testo è un falso, ma la prova non c’è, dunque il testo è autentico[1]. Sulla base di ciò, parafrasando e adattando al nostro contesto le parole di Tom Gaskin, l’appello all’ignoranza viene impiegato come potente strategia per gettare profondo sospetto su tutte le forme di autorità, funzionando come sostituto per una reale indagine scientifica della questione[2].

I pericoli dell’impiego inconsapevole di questo argomento sono diversi: da un lato, considerato come argomento conclusivo, può scoraggiare la ricerca di prove positive per confermare le proprie ipotesi; dall’altro può essere usato invece per deviare le critiche relative al fallimento nel fornire prove positive per quanto asserito. Dire infatti che la pranoterapia è efficace poiché nessuno l’ha dimostrata inefficace può far apparire tale posizione solida anziché lacunosa. È questo preciso caso che rende l’appello all’ignoranza una fallacia pragmatica, ossia una violazione delle regole della discussione critica, fallacia chiamata anche argomento ad ignorantiam da John Locke nel suo Saggio sull’intelligenza umana. Come sappiamo infatti dai precedenti numeri di questa rubrica, il soddisfacimento dell’onere della prova è un principio fondamentale nella discussione critica, ossia in quel tipo di dialogo in cui due interlocutori ragionano insieme nel tentativo di risolvere il disaccordo su una questione. La fallacia ad ignorantiam è un tentativo di evadere tale onere, spostandolo ingiustamente sull'interlocutore. Sarà appunto l’interlocutore ad apparire in obbligo di presentare prove contro l’efficacia della pranoterapia, e non chi ne sostiene l’efficacia.

Come fare allora a districarsi dai tranelli orditi da questa fallacia? Innanzitutto, si deve argomentare che il fatto che un’affermazione non sia stata provata falsa non significa che sia vera o, viceversa, il fatto che un’affermazione non sia stata provata vera non significa che sia falsa. Infatti, la nostra incapacità di provare o confutare un’affermazione non dimostra la verità o falsità dell’affermazione stessa. In secondo luogo è importante chiedere, a chi si è impegnato a sostenere una tesi, di presentare le prove a suo favore, invece di spostare l’obbligo sull’interlocutore. Infine, quando la discussione è correttamente impostata, si può valutare se la posizione sostenuta è in sé contraddittoria, se riesce a spiegare completamente il fenomeno che pretende spiegare e se c’è qualche test per determinarne la verità o falsità. Rispettati questi criteri, la tesi può essere sottoposta ai dovuti test e, in caso, confrontata con altre e più consolidate teorie.

È importante sottolineare che, comunque, commettere errori di ragionamento come la fallacia ad ignorantiam, non è una prerogativa del discorso pseudoscientifico. Ciò può accadere anche agli scettici: affermando infatti che i fenomeni paranormali non esistono perché non sono mai state trovate prove a loro favore, cadiamo in questo stesso tranello. Ciononostante alla luce di teorie sempre più collaudate e dopo numerose e accurate indagini in cui non viene provato ciò che si valuta, sostenere che la probabilità e la fiducia verso l’esistenza di tali fenomeni siano ridotte risulta quantomeno ragionevole.

Note

1) Gilardoni, A., Il mito del complotto ebraico, in Cattani, A. et al, La svolta Argomentativa, Loffredo, Casoria, 2009.
2) Gaskin, R. H., Burden of Proof in Modern Discourse, Yale University Press, New Haven, 1992.


Bibliografia

  • Copi, I., Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna, 1964.
  • Vaughn, L., The Power of Critical Thinking, Oxford University Press, New York, 2008.
  • Walton, D., Arguments from Ignorance, Pennsylvania State University Press, University Park, 1996.
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