I mille volti della vampira

L'origine del mito, i casi documentati, l'evoluzione letteraria della donna più letale di tutti i tempi

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©Claudio Marinangeli Flickr.
«Un nosferatu non muore come un’ape dopo che ha punto. Diviene solo più forte, e così più forte, ha ancora più potere per operare male» affermava Bram Stoker, nel suo Dracula. Il vampiro, o “nosferatu”, così descritto dall’autore irlandese ha contribuito a diffondere l’immagine della creatura notturna, diabolicamente crudele e seducente che ancora oggi la fa da padrone nell’immaginario collettivo, sostituendo quella originaria ben lontana da tale descrizione.

Il termine “nosferat” emerge dalla cultura folklorica rumena ed indica un essere mostruoso che, uscendo dalla propria tomba, di notte si reca nelle abitazioni per nutrirsi del sangue delle persone addormentate, ma che è anche in grado di avvicinare i vivi assumendo le sembianze di un gatto o di un cane nero. Inoltre, secondo la tradizione, spingerebbe le proprie vittime a compiere riti orgiastici con lui per generare figli dall’aspetto terribile, ricoperti di peli e destinati inevitabilmente a diventare streghe o stregoni, i cosiddetti “moroiu”. La parola nosferat, identificando il “non morto”, diviene sinonimo di vampiro, termine di incerta derivazione etimologica: alcuni la rendono diretta discendente del magiaro “vampyr”, altri del serbo “vàmpir”, altri ancora del turco “ueber”, che significa “strega” (soluzione probabilmente più attendibile).

Se ad oggi la figura del vampiro è associata a quella del tenebroso e affascinante nobile, in lotta con la sua natura immortale, nell’Europa balcanica del XVI e XVII secolo essa coincideva perlopiù con quella di un “demone della peste”. È questo, infatti, il periodo in cui il Vecchio Continente, specie nelle regioni dell’Est, viene colpito da gravissime epidemie di peste e morie di bestiame, la cui causa viene spesso individuata proprio nei “non morti”: secondo la tradizione questi, aggirandosi tra i vivi dopo aver abbandonato le proprie tombe, spargevano la pestilenza attraverso i miasmi che il loro corpo non decomposto emanava. Fino al XIX secolo in Romania si riteneva, dunque, che per interrompere le disgrazie causate dal vampiro fosse necessario ricorrere a soluzioni drastiche: piantare dei paletti di legno nel terreno nelle zone in cui si credeva che il nosferat si aggirasse.

Se questa soluzione non si fosse rivelata in grado di fermarlo, gli abitanti del luogo infestato avrebbero dovuto conficcare pali di legno nei pressi delle sepolture recenti, in modo da ancorare il vampiro al luogo in cui avrebbe dovuto trovare riposo. Nei casi di siccità prolungata, era consigliata una variante del rituale: una volta identificata la tomba del sospetto vampiro e scavato intorno ad essa, si doveva riempire d’acqua la buca creata, per poi fissare per tutto il perimetro della sepoltura pali di legno, come simbolica misura di prevenzione.

Solo in caso di insuccesso dei precedenti interventi, sarebbe stato inevitabile ricorrere all’ultima modalità la quale, tuttavia, veniva presa in considerazione con molta riluttanza, dato che prevedeva lo stretto contatto con il presunto vampiro e la profanazione del cimitero, luogo consacrato. Si sceglievano generalmente le sepolture più recenti, si scavava e, una volta aperta la bara, prima di intervenire era valutata la presenza di quelli che, al tempo, si consideravano inconfutabili segni di vampirismo: gonfiore del cadavere, interpretato come aumento di peso, colorito roseo e apparentemente sano e vivido, flessibilità degli arti e posizione del corpo leggermente spostata di fianco, invece che con il volto rivolto al cielo come prevede la tradizione cristiano – ortodossa. Se gli elementi ora indicati erano presenti, il rito poteva essere eseguito: il corpo veniva trafitto con un palo di ferro arroventato, o semplicemente con un palo di legno in modo da ancorarlo alla cassa oppure, in alcuni casi, bruciato.

Ben presto, tuttavia, la paura della diffusione di malattie lasciò spazio ad un’altra psicosi, radicata nella superstizione popolare. «Dal 1730 al 1735 non si sentì parlare d’altro che di vampiri; si spiavano, gli si strappava il cuore, si bruciavano: a somiglianza degli antichi martiri, più se ne bruciavano e più ce n’erano» scriveva Voltaire nel suo Dictionnaire philosophique.

Proprio in questo periodo, in cui pare che i nosferat si diffondano a macchia d’olio, specie nell’area slava, il termine “vampiro” viene ufficializzato per la prima volta e inserito, nel 1745, nel dizionario italiano di G.P. Bergantini Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca come «spettro che, nelle credenze popolari, abbandona di notte la tomba e assale i viventi, per succiarne il sangue». In realtà, però, il termine “vampiro” sembra fare la sua prima comparsa nell’Europa occidentale e in tedesco nel 1732.

Sarà, però, il frate benedettino Augustin Calmet a definire in modo abbastanza specifico le caratteristiche del vampiro, nel suo primo trattato sull’argomento pubblicato nel 1749, Dissertation sur les apparitions des esprits et sur le vampires et revenants de Hongrie et de Moravie: il non morto è descritto come una creatura ematofaga, letale per le sue vittime. Inoltre, Giuseppe Davanzati, nel 1744 riporta nella Dissertazione sopra i vampiri quella che ritiene essere l’unica modalità efficiente per annientarli: la pubblica esecuzione, mediante decapitazione del cadavere all’interno del suo sepolcro ed estrazione del cuore.

Insomma, la figura del vampiro diviene parte integrante della cultura e delle paure degli europei.

Senza inoltrarci in particolari che richiederebbero una trattazione decisamente lunga per essere ben spiegati, in questa sede è sufficiente ricordare che la tradizione prevede l’esistenza di due diverse vie per fare ingresso nel mondo dei vampiri: una di diretta derivazione dal cristianesimo bizantino, che sosteneva che i corpi non corrotti fossero indice di eresia, ovvero che si trattasse di persone lontane da Dio, scomunicate e incapaci di trovare pace; l’altra prevedeva una forma di patto malefico tra il Diavolo e il non morto che avrebbe dovuto cedere la propria anima, in cambio del potere di compiere malefici, dell’immortalità fisica e del potere di trasferire la propria condizione ad altre vittime.

È questa seconda via di trasformazione che entra a far parte delle caratteristiche classiche del revenant gotico, non più demone della peste dai folkloristici natali, ma creatura ambigua, carismatica e sensuale. L’immagine del vampiro si evolve e muta, senza perdere gli elementi tipici del suo essere, ma raffinandoli e perfezionandoli, rendendoli iconici. Proprio tra il XVIII e il XIX secolo emerge con prepotenza e si afferma nell’immaginario collettivo anche la controparte femminile del nosferat, la vampira, personaggio portante della letteratura gotica e proiezione immaginaria e lasciva di un femminile represso e costretto in un limitato ruolo sociale.
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La donna vampiro di Edvard Munch.


L’evoluzione mitologica della donna vampiro


L’origine della “vampira” risale ad epoche arcaiche. Se le caratteristiche generali del non morto come le abbiamo descritte persistono anche nel mondo del vampirismo al femminile, dobbiamo tuttavia ammettere che il percorso seguito da queste creature per entrare nella leggenda si discosta in parte da quello dei propri colleghi maschi.

Di fondamentale importanza allo sviluppo del personaggio è stata certamente la mitologia greca. È possibile infatti riscontrare un primo accenno di quelli che sono divenuti elementi caratteristici della vampira in alcuni esseri di natura mitica e bestiale: la Lamia, l’Empusa e la Mormò.

Nel mito Lamia fu una fanciulla libica, figlia di Belo (a sua volta figlio di Poseidone e Libia), che per sua sfortuna divenne una delle tanti amanti di Zeus, fatto che la sottopose all’ira della gelosa Era, consorte del dio: resa folle dall’intervento della dea tradita, Lamia uccise i suoi figli (tranne Scilla, che si salvò); abbrutita e deformata dall’orrore che ciò provocò in lei, da allora vagherebbe rapendo e uccidendo i bambini altrui. L’iconografia della lamia si discosta apparentemente da quella classica della vampira: è per l’appunto raffigurata negli antichi bestiari con un corpo simile a quello di un grosso felino, ricoperto di squame, con testa e seni femminili (ma ermafrodita), zampe anteriori dotate di artigli e posteriori di zoccoli.

John Lemprière, autore nel 1788 del dizionario mitologico Bibliotheca Classica, ne dava una descrizione simile, ma la collocava in Africa ad ammaliare gli stranieri con il suo intrigante sibilo, o prendendo le sembianze di affascinanti fanciulle, in modo da attrarli a sé e farne il proprio pasto. Anche il poeta inglese John Keats, letta la descrizione di Lemprière, fu stregato dalla lamia e le dedicò l’omonimo poema.

Due sono gli elementi che accomunano questo essere alla tradizionale vampira: si credeva che la lamia non solo divorasse il cuore delle sue vittime, ma che si nutrisse del loro sangue; in più, per raggirare le sue prede, era in grado di mutare il proprio aspetto in quello di giovani e sensuali donne. Ecco che la caratteristica vena erotica e tentatrice delle antenate della non morta inizia a divenire parte integrante della sua rappresentazione.

Vicina alla lamia è l’empusa, altra creatura mostruosa che con la prima condivide l’appartenenza al seguito di Ecate, dea greca, considerata signora delle ombre, dei fantasmi e degli incantesimi; come la lamia ha la capacità di assumere la forma di giovani e lascive fanciulle (oltre che di animali). Anche l’empusa, grazie a questa facoltà, era solita attrarre le proprie vittime per divorarne le carni e succhiarne il sangue, di notte o nel tardo pomeriggio. Interessante, al fine di sottolineare la connotazione fortemente sessuale e negativa di questo essere, è aggiungere che il termine “empusa” era utilizzato in qualità di parola ingiuriosa contro donne ritenute dissolute. Infine, di empuse (ma anche di lamie) si parla al plurale come demoni succubi associati alle “lilim” (“figlie di Lilith”) palestinesi, dalle natiche d’asino, simbolo di crudeltà e lussuria.

Il mito dell’empusa, dall’antica Grecia sopravvive fino all’età imperiale romana, spartendo la propria fama con il mito contemporaneo delle Strigi (da Stryx o Strix) nucleo etimologico del termine “strega” odierno. Anche in questo caso si tratta di demoni notturni, alati, somiglianti a barbagianni, dediti a nutrirsi del sangue di neonati e puerpere. Simile nelle sue connotazioni anche la Mormò, spettro femminile anch’esso uso a nutrirsi di sangue di infanti.

Tuttavia, se lamie, empuse et similia sono indubbiamente un essenziale punto di partenza per la costruzione dell’immagine della vampira, indiscutibile è il contributo della mitologia mesopotamica, ebraica e babilonese.

È, del resto, innegabile il ruolo assegnato dalla tradizione alla Lilith ebraica, sovrapponibile al demone femminile babilonese Lilitu, incarnazione della lussuria. La Lilith dell’Antico Testamento e della letteratura ebraica post – biblica è in origine la prima consorte di Adamo, creata da Dio su richiesta di quest’ultimo, dalla terra (quindi alla pari di Adamo). Ma cosa ha condotto questa figura di origine divina a divenire una delle più celebri progenitrici delle moderne vampire? Come nella più classica consuetudine, tutto ha avuto inizio da un atto di ribellione. L’unione tra Adamo e Lilith non ebbe successo per il rifiuto della donna di sottomettersi al marito; l’atteggiamento ben poco accomodante di lui condusse Lilith allo stremo, tanto da arrivare ad invocare il nome del Diavolo, che accolse la sua preghiera e le concesse un paio di ali con cui fuggì dall’Eden. Adamo, accortosi della fuga, chiese a Dio l’invio di tre angeli, tramite i quali ricondurre a sé la sua sposa; quando questi la rintracciarono, scoprirono che la donna era ormai divenuta un demone e che, accoppiandosi con i suoi diabolici simili, aveva oramai generato centinaia di lilim. Lilith divenne dunque l’emblema del rifiuto della supremazia maschile e della sessualità sfrenata, elementi che nella cultura maschilista del tempo non poterono che tramutarsi in una demonizzazione della prima donna del paradiso terrestre.

Nella tradizione popolare ebraica, dunque, Lilith è annoverata tra i demoni, classificazione che le ha fatto guadagnare una pessima fama: quella di divoratrice di neonati (in particolare dei bambini maschi non circoncisi) e di subdola seduttrice di giovani uomini con cui generare nuovi demoni (si riteneva la causa della loro eiaculazione notturna). Lilith diventa, pertanto, la personificazione diabolica della donna tentatrice, libera e indipendente, elementi spaventosi nell’epoca androcentrica in cui la sua figura emerse.

È alquanto probabile che il personaggio di Lilith abbia raccolto l’eredità di un’altra spaventosa creatura, appartenente alla mitologia mesopotamica: Lamashtu, figlia di Anu o Enlil, tradizionalmente raffigurata con testa di leone e denti d’asino, mentre tiene serpenti nelle mani e le sue mammelle sono morse da un cane nero e da un maiale. Come Lilith, Lamashtu rapisce e divora i bambini piccoli, oltre a causare un’influenza nefasta per tutto il ciclo della gravidanza; nonostante l’orrido aspetto, mantiene una forte connotazione erotica dal momento che, secondo il mito, il demone è uso bere il sangue maschile durante gli amplessi e, talvolta, persino mangiare i malcapitati.

Spostandoci in India, è indubbiamente naturale annoverare anche la dea Kali tra le antiche progenitrici della vampira moderna. L’indole sanguinaria della divinità, moglie di Siva, è mostrata chiaramente in tutte le sue raffigurazioni: con quattro braccia, ricoperta di sangue, adorna di una collana di teschi e di una cintura di serpenti. Non c’è di certo da stupirsi se la dea della distruzione e della morte, venerata in passato nel Bengala anche con sacrifici umani, è nota per essere la dea bevitrice di sangue. Sicuramente curiosa è la teoria in base alla quale siano stati proprio i gitani, originari dell’India secondo una delle varie ricostruzioni storiche, ad importare nelle terre slave il mito del vampiro, attraverso il personaggio di Kali, o meglio mediante la loro personale trasposizione: Sara la Kali, cioè Sara-la-Nera.

Meno nota, ma comunque di grande interesse, è la figura della Cihuateteo nata in Messico e, in particolare, parte della mitologia azteca. Con tale nome si identificava la donna nobile morta al suo primo parto che, una volta tornata dall’oblio sotto forma di creatura pallida e dotata dell’abilità del volo, trovava nei bambini le sue prede preferite; si dice che apparisse ai viandanti di notte agli incroci delle strade e che uno dei modi più efficaci per placarla fosse appellarla con la parola “Ciua-pipiltin”, ovvero “principessa”.
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The Vampire di Philip Burne-Jones.


Vampire titolate: dalla contessa Báthory alla principessa boema che ispirò Bürger


A dire il vero, i casi riconosciuti di donne affette dal morbo del vampirismo non sono molti. Sicuramente, il primo pensiero va a Erzsébeth Báthory, la ormai famosissima Contessa sanguinaria, sposa nel maggio 1575 del conte ungherese Ferenc Nàdasdy. Introdotta alla magia nera e al sadismo dall’esperta di stregoneria Dorothea – detta Dorka – Szentes e dal suo servo Thorko, è solita sperimentare ogni forma di tortura e perversa sevizia sulle giovani serve del castello. Presto si convince, inoltre, che bere o fare lunghi bagni immersa nel sangue di fanciulle vergini (meglio se di nobile rango) sia l’unico modo per conservarla dall’invecchiamento, fenomeno da cui è terrorizzata; in breve tempo, perde ogni freno inibitore, lasciando libero sfogo alla sua furia assassina. Le si attribuiscono come minimo ottanta omicidi, anche se gli storici parlano di un numero di gran lunga superiore di vittime, tra le trecento e le seicentocinquanta, fatto che la rende una delle più prolifiche assassine della storia.

Senza indugiare oltre sulla Contessa Báthory, di cui notizie in merito sono facilmente reperibili, è sicuramente di maggiore curiosità introdurre casi meno conosciuti ai più.

Eleonore Von Lobkowicz, consorte del principe austriaco Adam Von Schwarzenberg dal 1701, è l’esempio più evidente di quanto la paura del morbo vampirico fosse dilagata anche tra la nobiltà del XVIII secolo. Colta e con una grande passione per la caccia, praticata personalmente molto spesso nella campagna boema, Eleonore diviene presto nota per le sue abitudini alquanto particolari: l’enorme desiderio (e la necessità) di dare alla luce un erede maschio si trasforma nel più profondo cruccio della principessa la quale più volte, senza successo, aveva cercato di rimanere incinta; pur di concretizzare la volontà di una gravidanza, si affida a un metodo antico e piuttosto “particolare” che prevedeva l’assunzione regolare di latte di lupa. Non c’è da meravigliarsi se la strana pratica, unita agli ululati delle lupe, catturate durante le battute di caccia e allevate in gabbie per procurare alla donna il loro latte, contribuì a diffondere voci tra gli abitanti del posto.

Dopo anni in cui Eleonore si sottopone a tale rimedio, finalmente i suoi sforzi sono premiati: alla tarda età, per l’epoca, di 41 anni partorisce un figlio maschio. Tuttavia, la gioia ben presto lascia spazio ad una tragedia da cui è fortemente segnata: il marito rimane ucciso, nel 1732, in una battuta di caccia nei pressi di Praga e, a seguito dell’accaduto, il tanto desiderato figlio le viene portato via, per essere allevato alla corte dell’imperatore a Vienna. Questi due fatti incrementano l’ossessione della principessa per l’occulto, per i simboli magici e gli incantesimi. Dulcis in fundo, come si suol dire, a rendere ancora più solide le convinzioni del popolo sull’ambiguità di Eleonore è l’intenso, quanto veloce, decadimento fisico che subisce, apparentemente immotivato e dai sintomi incurabili, nonostante le frequenti visite dei medici. Sovente la medicina del tempo non offriva soluzioni definitive e inevitabilmente ciò creò un ampio bacino in cui la superstizione ebbe modo di attecchire saldamente e tra i contemporanei della Von Schwarzenberg si insinuò il sospetto del vampirismo.

La principessa muore il 5 maggio 1741 a Vienna. È immediatamente eseguita un’autopsia sul cadavere, fatto non frequente al tempo, la quale rileva la presenza di quella che oggi noi definiamo “neoplasia della cervice uterina”. Ciò che appare, però, decisamente strano è che nei documenti trascritti a seguito dell’intervento è sì presente una diagnosi, ma non è specificata la causa della morte. Quale utilità, dunque, di un’autopsia (allora raramente effettuata) senza trascriverne il risultato ultimo? La spiegazione potrebbe trovarsi, ancora una volta, nella credenza popolare: probabilmente non si trattò di un vero esame autoptico, ma di un classico rituale anti – vampiro mascherato da autopsia. Ciò è confermato in primo luogo dalle misure di sicurezza assunte tempestivamente a Krumlov, luogo in cui si svolge la vicenda, a seguito della dipartita di Eleonore: è incrementata, infatti, la sorveglianza al castello ed è istituito un servizio di vigilanza dislocato su tutto il territorio. È chiaro che l’obiettivo fosse proprio quello di impedire al feroce vampiro, tanto forte da aver contagiato persino una principessa, di mietere altre vittime.

Il funerale si svolge nella chiesa di San Vito a Krumlov il 10 maggio, dopo che nessuno tra la nobiltà, nemmeno il figlio, va a porgere l’ultimo saluto alla salma. È sepolta di notte, nella cappella laterale della chiesa di San Vito, con una lapide su cui non troviamo scritto né il nome, né lo stemma di famiglia, né il titolo nobiliare, ma soltanto «Qui giace Eleonore, povera peccatrice».

La sepoltura, recentemente analizzata prima con georadar e poi concretamente, ha chiarito tutti i dubbi circa la fama che la principessa si era guadagnata tra nobili e sudditi: si scopre, infatti, che la sua bara è murata al di sotto di una spessa armatura di cemento, a sua volta ricoperta da terra proveniente da un camposanto e sigillata sotto la pesante pietra tombale. Insomma, ci si volle assicurare che l’aristocratica vampira non tornasse più indietro.

È estremamente interessante notare quanto la storia della principessa Eleonore sia stata in grado di influenzare la cultura dell’epoca. Lo stesso Bram Stoker ne fu presumibilmente affascinato: l’intenzione originaria dell’autore era quella di avviare il suo più celebre romanzo descrivendo l’attacco notturno al giovane Jonathan Harker da parte di una vampira, nei pressi della tomba di una principessa austriaca. La narrazione avrebbe inoltre previsto che, dopo aver perso i sensi, Harker si sarebbe risvegliato, trovando su di lui un lupo a tenere in caldo il sangue per la diabolica creatura, evidente riferimento all’abitudine della nobile. Da sottolineare, infine, la citazione che Stoker avrebbe inserito se avesse scelto tale incipit, sotto forma di iscrizione posta sul retro della tomba principesca: «I morti cavalcano in furia».

La frase «I morti cavalcano in furia» è tratta da un’antica ballata composta dal poeta sassone Gottfried Augustus Bürger del 1773 intitolata Lenore. Se il titolo non appare casuale, ancor meno casuale è il suo contenuto: la ballata, considerata uno dei primi riferimenti letterari ai revenant, narra la vicenda di una sposa, appunto Lenore che, disperata per la morte in guerra del marito Guglielmo, maledicendo il Cielo ne invoca il ritorno…e Guglielmo ritorna, ma come non morto: «Noi non mettiamo sella che verso mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a questa volta, fino dalla Boemia. Tardi ho preso il cammino, tardi: e voglio condurti meco».

Il revenant, che qui fa la sua comparsa a seguito dell’invocazione della sua amata (introducendo così la nuova visione gotico – romantica del non morto), afferma di provenire dalla Boemia, elemento che nuovamente ci conduce alla terra natia della Lenore storica.
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The Premature Burial di Antoine Wiertz.


Altri casi di vampirismo femminile


Allontanandoci dalle terre balcaniche e dalla realtà aristocratica, è di particolare rilevanza riportare vicende legate al vampirismo svoltesi in località meno “canoniche”.

Il primo caso, non molto noto in Europa, è quello di Mercy Lena Brown. Ci troviamo nel Rhode Island, in una cittadina della Contea di Washington chiamata Exeter, alla fine del XIX secolo, epoca in cui il New England vede il propagarsi di un terribile male: la tubercolosi, denominata anche “consunzione” per l’effetto di consumare il corpo di chi la contrae; era questa la più grave causa di mortalità del tempo. La famiglia Brown, numerosa e dedita all’agricoltura come la maggior parte delle famiglie del luogo, non ebbe scampo: le prime ad esserne colpite furono la madre Mary Eliza e la figlia Mary Olive; 10 anni dopo, nel 1892, anche la seconda figlia Mercy Lena dipartì. Il padre George, temendo di essere emarginato, rischio che rappresentava una triste realtà al tempo quando si sospettava che qualcuno fosse stato contagiato, diffuse la voce che la causa della morte della figlia 19enne Mercy fosse stato un vampiro, un membro della famiglia divenuto un revenant. La situazione si aggravò quando anche il figlio minore Edwin, unico maschio, iniziò a presentare i primi segni di consunzione. Anche in questo caso, George Brown affermò che Edwin fosse solo l’ultima vittima di un parente ritornato come vampiro; in più, per avvalorare la sua tesi e fugare ogni dubbio dei concittadini sul fatto che nessuno dei suoi figli si fosse a sua volta trasformato in una creatura ematofaga, acconsentì all’esumazione dei cadaveri. Aperta la cripta di famiglia, furono rivelate le salme della moglie e di Mary Olive, che apparvero in decomposizione, mentre sorprendentemente quella di Mercy Lena presentava tutto un altro aspetto: il corpo della fanciulla apparve ancora fresco e con abbondanti tracce ematiche nel cuore e nel fegato; in più, un rivolo di sangue rappreso si faceva strada dalla sua bocca.

Gli abitanti del posto, ormai convinti della natura diabolica e immortale di Mercy, riservarono al suo cadavere il trattamento previsto per i vampiri: cuore e fegato vennero estratti dal corpo e furono bruciati su una roccia vicina. In un ultimo, estremo tentativo di guarire il fratello Edwin, le cui condizioni nel frattempo si erano fortemente aggravate, ci si affidò ad un macabro rimedio: dopo essere stato sottoposto a varie benedizioni, al bambino fu fatto assumere un intruglio contenente le ceneri del cuore della sorella. Ovviamente, Edwin morì all’incirca due mesi dopo.

In realtà, non è difficile dare una probabile spiegazione al buono stato della salma della ragazza: la sua recente sepoltura, avvenuta solo due mesi prima dell’esumazione, era stata effettuata durante l’inverno, per cui le rigide temperature raggiunte avevano sicuramente favorito la conservazione dei tessuti.

Del caso di Mercy Brown si occupò il Providence Journal, che seguì gli sviluppi della curiosa vicenda fino al suo epilogo, contribuendo così alla diffusione della storia della “vampira del Rhode Island”. Pare che anche Bram Stoker ne fosse a conoscenza, giacché un ritaglio dell’articolo è stato rinvenuto proprio tra i suoi appunti.

Un caso che ha molti punti in comune con quello di Mercy Brown, a partire dal luogo che fa da sfondo alla vicenda (ci troviamo sempre ad Exeter, Rhode Island), ma di circa un secolo precedente è quello di Sarah Tillinghast. Pare che una premonizione avesse avvertito in sogno il padre di famiglia, il contadino Stukeley, della tragedia che presto lo avrebbe colpito: l’immagine della metà dei suoi alberi di mele oramai secchi si rivelò la metafora di una serie di decessi che avrebbero di lì a poco colpito i suoi cari. Sesta di quattordici figli, Sarah morì nel 1799, ancora una volta di “consunzione”. Anche se due fratelli l’avevano preceduta, la sua morte scatenò una sorta di psicosi tra gli altri familiari: uno per uno i fratelli superstiti di Sarah si ammalarono, affermando che fosse proprio la sorella defunta ad essere causa della loro condizione; essi riferivano che Sarah faceva loro visita durante la notte, per poi posarsi su di loro bloccandoli e fissandoli con un sorriso diabolico. La morte dei tre fratelli scatenò il terrore nella comunità di Exeter. Gli abitanti in preda al panico chiesero allora al padre Stukeley di riaprire le bare dei figli per verificare che non ci fossero, nei loro corpi, tracce di vampirismo.

Le tombe furono aperte. Se i corpi dei figli minori si mostravano in corso di decomposizione, quello di Sarah aveva i segni tipici del morbo demoniaco: occhi aperti, unghie allungate e cuore con ancora del sangue al suo interno. Il responso fu quello che oramai conosciamo, ed anche le conseguenze: come quello di Mercy Brown, anche il cuore di Sarah fu estratto e ridotto in cenere.

È evidente come, nel New England, la caccia ai vampiri si fosse sostituita alla caccia alle streghe del secolo precedente.

Una scoperta abbastanza recente apre un nuovo scenario anche sul vampirismo in Italia. Scavi archeologici condotti dall’antropologo e archeologo forense Matteo Borrini nel camposanto dell’isola del Lazzaretto Nuovo, nei pressi di Venezia, hanno fatto riemergere una sepoltura risalente al XVII secolo. Lì erano stati tumulati i resti di una donna e non una donna qualunque, ma una presunta vampira: ciò si evince dalla modalità in cui si è inferto sul corpo, tra le cui mandibole è presente un grosso mattone, infilatovi forzatamente post mortem e introdotto tanto violentemente da rompere denti e mascelle. Secondo Borrini, alla defunta era stato riservato il trattamento generalmente previsto per i “nachzehrer” – letteralmente “masticatore di sudari” o “divoratore della notte” – non morti apparsi originariamente nella Polonia del ‘300, usi a masticare il proprio velo funebre per poi nutrirsi del sangue dei cadaveri vicini, in particolare degli appestati, in modo da riemergere dalla propria tomba e diffondere l’epidemia tra i vivi.

Questo spiega, dunque, il mattone spinto nella bocca della donna sepolta, estremo tentativo di impedirle di cibarsi e di spargere l’epidemia. La vampira di Venezia è pertanto la testimonianza di quanto l’idea del “demone della peste”, nata nelle terre dell’Europa dell’Est, sia stata in grado di farsi strada nelle altre culture, tra cui quella italiana.

La revenant letteraria tra orrore e sensualità


Era inevitabile che una figura affascinante come quella della vampira riuscisse a sedurre le menti di poeti e romanzieri, guadagnandosi un posto d’onore nel Pantheon dei protagonisti della letteratura gotica, ben prima dei propri “colleghi” maschi.

Uno dei primi ad inserire in un poema incompiuto un personaggio di questo tipo fu Samuel Taylor Coleridge all’interno di Christabel. Il poemetto, diviso in due parti e pubblicato nel 1816, narra l’incontro in un bosco tra la virtuosa Christabel, figlia di Sir Leonine e la misteriosa e bellissima Geraldine. Christabel finisce per ospitare la magnetica Geraldine, che afferma di essere la figlia di Sir Roland de Vaux (un tempo amico di Sir Leonine) e di essere in fuga dai suoi rapitori. L’ospite presto mostra tutta la sua ambiguità attraverso svariati segni sempre più evidenti e instaura con Christabel un rapporto che da morboso e velatamente sensuale si trasforma in quello tra vittima e carnefice: la fanciulla, infatti, si rivela una diabolica creatura sovrannaturale che, attraverso la magia, impedisce a Christabel di rivelare la sua identità demoniaca al padre. È chiaro che il personaggio di Geraldine non ricalca completamente le caratteristiche classiche della vampira della letteratura gotica, ma in qualche modo ne anticipa alcuni degli aspetti tipici: la natura sovrannaturale celata, la forte capacità di persuasione, gli indizi che gradualmente emergono ad annunciare la sua identità. Tuttavia, l’aspetto che più connette Geraldine alle revenant che verranno dopo di lei è l’intenso erotismo che trasmette, che le conferisce un carisma tale da ingannare la dolce Christabel, formando così quella che diverrà la classica dicotomia tentatrice/tentata, sensualità/purezza.

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Un'illustrazione tratta dal libro Carmilla.
Tale dualismo si ripresenterà con impeto nel racconto Carmilla, pubblicato nel 1872 dallo scrittore irlandese Joseph Sheridan Le Fanu. La Stiria austriaca fa da sfondo alla vicenda, che inizia con un incidente apparentemente casuale: durante una notte di luna piena una carrozza esce di strada di fronte al castello in cui vive la giovane Laura insieme al padre; i passeggeri della carrozza sono due donne, una signora dall’aria nobile e la bella figlia, svenuta a seguito dell’accaduto. Mentre la madre riprende velocemente la strada, affermando di avere delle faccende da sbrigare con urgenza, la ragazza, di nome Carmilla, rimane ospite presso il castello, in attesa del ritorno della madre. È proprio durante tale permanenza che Carmilla sviluppa un rapporto quasi morboso con Laura, affascinata a sua volta da quella fanciulla così intrigante, dai lunghi capelli scuri, dal pallido incarnato e dall’atteggiamento carismatico e sensuale. Tuttavia, l’avvenente ospite inizia presto a mostrare abitudini alquanto strane: Carmilla, infatti, prova un’inusuale avversione alla preghiera e ai canti religiosi, mal sopporta la luce del giorno a cui predilige il crepuscolo e il buio ed è spesso introvabile durante la notte. Contestualmente, mentre uno strano quanto improvviso morbo sta uccidendo un gran numero di fanciulle nel villaggio, Laura sembra manifestare i primi sintomi di malattia a cui si accompagnano terribili incubi notturni, la cui protagonista spesso è proprio Carmilla.

«Per qualche notte dormii profondamente, ma, ogni mattina provavo la stessa spossatezza e, per tutto il giorno, ero oppressa dal languore. Mi sentivo cambiata: si andava insinuando in me una malinconia che non facevo nulla per scacciare; cominciarono a presentarsi davanti a me vaghi pensieri di morte e, con dolcezza e quasi piacevolmente, la convinzione di spegnermi lentamente si impossessò di me» scrive Laura, ormai indebolita e fragile, nel suo diario.

La storia si conclude con la scoperta della vera identità di Carmilla, il cui vero nome è Mircalla, sanguinaria contessa della famiglia Karnstein e duecento anni prima signora di quelle terre. Carmilla è, dunque, senza alcun dubbio uno spietato vampiro e come tale viene annientato: individuata la sua tomba, il corpo di Carmilla/Mircalla viene trafitto al cuore con un paletto acuminato, per poi essere decapitato e bruciato e le sue ceneri sparse in un fiume.

Non è complesso rinvenire le somiglianze tra la Geraldine di Coleridge e il personaggio di Carmilla (il tema dell’ospitalità, il rapporto tra la giovane pura e la fanciulla misteriosa e sensuale) ma è doveroso affermare che Le Fanu muove un grande passo avanti rispetto al primo autore: non solo arricchisce la trama di numerosi particolari creando un contesto più completo, non solo osa maggiormente nel descrivere un’evidente attrazione di tipo erotico da parte di Carmilla nei confronti di Laura, ma definisce la protagonista per la prima volta, senza alcuna reticenza, come “vampira”.

La natura ambigua, mostruosa e seducente della vampira si conferma, grazie all’opera di Le Fanu, l’elemento caratteristico e tipico della figura della revenant: la vampira non si limita a nutrirsi del sangue altrui, ma sadicamente corteggia le proprie prede, quasi a volerle fare sue emotivamente prima che fisicamente.

Sebbene Carmilla sia la prima vampira “dichiarata” della letteratura, è necessario menzionare anche altre due opere che hanno fornito un notevole apporto alla materia.

La prima è un racconto breve intitolato Vampirismo di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, ritenuto uno dei principali esponenti del Romanticismo tedesco. L’opera, che risale al 1821, si concentra sulle figure del conte Ippolito e della sua sposa Aurelia la quale, dopo la morte della madre, baronessa di turpe fama, subisce un inspiegabile decadimento fisico; nonostante lo stato di malattia, la donna assume l’abitudine che era stata della madre, ovvero quella di fare visite notturne al cimitero. Il marito, insospettito da un tale comportamento, decide di seguirla nell’oscurità scoprendo che Aurelia si trova nel camposanto tra «vecchie seminude coi capelli arruffati, accucciate per terra intorno al cadavere d’un uomo che divoravano con avidità belluina». Hoffmann richiama quindi l’immagine della lamia e dell’empusa, inserendola però nel contesto culturale ottocentesco.

Sicuramente Théophile Gautier subì l’ispirazione di Hoffmann durante la stesura de La morta innamorata, racconto conosciuto anche come Clarimonde ed edito nel 1836. Si narra qui della passione irresistibile del giovane sacerdote Romualdo per la cortigiana Clarimonde, una passione così intensa da non frenarsi nemmeno di fronte al cadavere della donna: Romualdo infatti, chiamato ad assisterla in punto di morte e giunto oramai a decesso avvenuto, non riesce a trattenersi dal baciare le fredde labbra dell’amata. Da questo momento in poi il sacerdote vivrà una storia d’amore onirica con Clarimonde, quasi come se si trattasse di una seconda vita del tutto fantastica. L’ossessione di Romualdo per la cortigiana non cessa nemmeno quando scopre che la stessa si nutre del suo sangue durante il sonno. Solo l’intervento dell’abate Serapione, che mostra il corpo oramai decomposto della donna all’innamorato, riesce a farlo rinsavire dal suo delirio.

Riferimenti bibliografici

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