Ebrei e capitalismo; L'ultimo neanderthal racconta; La rivoluzione piumata; La disinformazione felice; Hype Machine

  • In Articoli
  • 01-03-2022
  • a cura di Fara di Maio

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Ebrei e capitalismo
di Francesca Trivellato
Laterza, 2021
pp. 384, € 25,00


Recensione di Roberto Paura

«Sia il capitalismo che il giudaismo esprimono la loro più intima essenza nel denaro»: così Werner Sombart scriveva nel suo influente saggio Gli ebrei e la vita economica (1911), accolto entusiasticamente nei circoli antisemiti tedeschi. L’opera era una sorta di risposta al celebre studio di Max Weber sull’Etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5), nel quale Weber prendeva le distanze dall’idea che si dovesse agli ebrei la nascita del capitalismo moderno, attribuendone invece la paternità alle conseguenze della riforma protestante e in particolare del calvinismo. Entrambi, tuttavia, condividevano un giudizio critico nei confronti del rapporto tra ebrei e denaro: per Weber si poteva parlare di “capitalismo dei paria”, di tipo avventuristico e speculativo, che contraddistinse l’azione dei commercianti e finanzieri ebrei rispetto all’etica puritana.

In Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata Francesca Trivellato, storica dell’età moderna oggi all’Institute for Advanced Study di Princeton, scava in profondità per ricostruire le origini di questa connessione tra ebraismo e capitalismo fino a imbattersi in una sorta di “mito fondativo”, o meglio una fake news: quella secondo cui le lettere di cambio sarebbero state inventate dagli ebrei come metodo per salvaguardare le loro ricchezze in seguito alla (provvisoria) espulsione dalla Francia durante il Medioevo, affidandole a banchieri italiani in cambio appunto di un documento attraverso il quale recuperare le proprietà una volta riparati all’estero. La prima menzione di questa fake news è in un libro pubblicato nel 1647 a Bordeaux, Us et costumes de la mer di Estienne Cleirac, avvocato di provincia, dedicato al diritto navale, che attribuiva agli ebrei tanto l’invenzione delle lettere di cambio quanto l’assicurazione marittima, citando come fonte il cronista fiorentino del XIV secolo Giovanni Villani (che invece non vi fa alcun cenno).

Si trattava di un’evoluzione del classico topos dell’ebreo usuraio. La teologia cristiana, sulla scorta di diversi passi biblici, condannava il prestito su interesse, assimilandolo all’usura; condanna che naturalmente non riguardava gli ebrei, in quanto non cristiani. Gradualmente esclusi, nel corso dei secoli, da quasi ogni altra professione a causa dell’antisemitismo delle gilde e delle corporazioni composte da cristiani, gli ebrei europei non avevano avuto molta altra scelta che impegnarsi in attività commerciali e finanziarie, tra cui appunto il prestito di denaro. A partire dal XVI secolo, con il graduale sviluppo del commercio internazionale, gli ebrei finirono per essere considerati concorrenti dei nuovi gruppi mercantili, attirandosi accuse di “slealtà”, con l’obiettivo di escluderli dagli affari. L’astrattezza e la complessità delle cambiali, spesso usate per fare speculazioni sul cambio valutario (“aggiotaggio”), suggeriva una naturale diffidenza, e l’idea che fossero stati gli ebrei stessi a inventarle appariva giustificata dalla tradizionale “doppiezza” loro attribuita da secoli di prediche cristiane. «Agli occhi dei cristiani, gli ebrei erano un gruppo di interesse coeso e dotato di un talento innato per il commercio, che disponeva di un indebito vantaggio sui propri concorrenti e prosperava ingannando clienti male informati», scrive Trivellato.

Non solo: in quanto strumenti che permettevano di spostare ricchezze in modo virtuale o “invisibile”, le lettere di cambio consolidavano il topos della cabala invisibile diffusa in tutta Europa, attraverso cui gli ebrei avrebbero controllato segretamente i destini delle nazioni. L’invisibilità riguardava anche il sospetto, perdurante per tutto il Medioevo, nei confronti dei battesimi con cui molti ebrei, forzatamente o spontaneamente, si convertirono alla fede cristiana: un modo, secondo la narrativa antigiudaica, di ottenere l’assimilazione nella società pur conservando segretamente i propri riti e la propria fede. «Lo spettro del cripto-giudaismo fa da sfondo al racconto di Cleirac sulle origini dell’assicurazione marittima e delle lettere di cambio. In questa narrazione, il Medioevo viene immaginato come un’epoca in cui gli ebrei avrebbero raggirato sovrani, mercanti e popolino cristiano con le loro astuzie finanziarie, ma anche come un’età perduta quando chiunque poteva distinguere un ebreo da un cristiano».

Si dovette attendere il 1690 perché, nel suo trattato Art des lettres de change, Jacques Dupuis de la Serra mettesse in dubbio la leggenda di Cleirac, respingendola sulla base di due argomentazioni: che le invenzioni si sviluppano velocemente, non certo nei seicento anni trascorsi dal primo decreto di espulsione degli ebrei dalla Francia all’apparizione delle lettere di cambio nel XIV secolo; e che assai difficilmente mercanti cristiani avrebbero accettato di acquistare le proprietà degli ebrei a prezzo adeguato e a rimetterle loro una volta all’estero, considerato il diffuso clima antigiudaico. Ma il debunking di Dupuis de la Serra non impedì alla fake news di Cleirac di continuare a diffondersi: la riprese Montesquieu nello Spirito delle leggi (1748), in cui riconobbe agli ebrei un ruolo di apripista del commercio moderno grazie proprio all’invenzione delle lettere di cambio; si ritrova nell’Encyclopédie, dove il passo che richiama la fake news (all’interno della voce “Ebrei”) fu in seguito attribuito a Voltaire essendo stato incluso in numerose edizioni postume del suo Dictionnaire philosophique; fu ancora ripresa dagli autori del Codice di commercio napoleonico, nonostante la Rivoluzione avesse finalmente avviato il processo di emancipazione degli ebrei.

Francesca Trivellato non si spinge oltre nella sua trattazione, se non facendo scorgere l’effetto che questo mito ebbe nella costruzione della macchia antisemita nazista. Interessante è osservarne i richiami nei Protocolli dei Savi di Sion (a cui l’autrice non accenna), dove – nel Protocollo V – si legge che «il capitale, per avere il campo libero, deve ottenere l’assoluto monopolio dell’industria e del commercio (...) già raggiunto da una mano invisibile in tutte le parti del mondo [e che] farà sì che tutta la forza politica sarà nelle mani dei commercianti, i quali col profitto abusivo opprimeranno la popolazione». Ritorna qui tanto l’aspetto dell’invisibilità, associato all’immagine del mercato come “mano invisibile” di Adam Smith, quanto il richiamo al “profitto abusivo” che veniva attribuito alla macchinosità delle lettere di cambio.

Oltre a essere uno studio di raro rigore storico, Ebraismo e capitalismo porta a riflettere su come le fake news siano riuscite a diffondersi con successo anche prima dell’avvento della comunicazione di massa e quanta influenza abbiano avuto nella formazione della mentalità moderna.

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L'ultimo neanderthal racconta - Storie prima della storia
di Giorgio Manzi
Il Mulino Bologna, 2021
pp.221, € 15,00


Recensione a cura di Giuseppe Ardito

Questo interessante libro scritto dal nostro Socio Onorario Giorgio Manzi, paleontologo, professore ordinario all’Università La Sapienza di Roma, Direttore del locale Museo di Antropologia nonché apprezzato divulgatore scientifico grazie ai suoi libri, articoli, comparse tv, contribuisce a far luce su questo nostro lontano parente con il quale abbiamo convissuto nel passato per migliaia e migliaia di anni.

Grazie anche ai suoi studi sul campo, Giorgio Manzi è uno dei maggiori esperti del fenomeno Neanderthal. Il libro inizia con uno stratagemma dell’autore che finge di intervistare, seppur oniricamente, l’ultimo Neanderthal. Questi racconta come siano andate veramente le cose, dalla comparsa dei primi neandertaliani sino alla loro estinzione. Su quest’ultimo aspetto esiste già un’abbondante letteratura, ma il libro di Manzi ce ne offre una versione aggiornata prendendo in considerazione, tra l’altro, gli importanti cambiamenti climatici, con l’alternarsi delle glaciazioni a periodi interglaciali nonché la possibile competizione legata all’arrivo dei primi Homo sapiens.

Nel succedersi dei capitoli l'autore ci racconta di come si sia passati nel tempo dalla considerazione dei Neanderthal come brute creature ottuse, dovuta anche all’errata ricostruzione dei primi reperti ossei da parte degli antropologi del tempo, a una visione molto più realistica che considera questi nostri lontani parenti come esseri dotati di uno psichismo elevato. Questo sarebbe dimostrato dall’uso di penne per decorare i copricapi, dalla comparsa delle prime manifestazioni artistiche, sculture e pitture rupestri, seppur meno sofisticate di quelle che caratterizzeranno l’Homo sapiens, dalla presenza di un barlume di pensiero trascendente, come testimonia l’uso, anche se sporadico e non ancora definitivamente provato, di sepolture intenzionali.

Lo stile narrativo dell’autore, pur non trascurando il rigore scientifico, favorisce una facile comprensione anche ai non addetti ai lavori e a chi non ha dimestichezza con la ricerca preistorica.

Capitolo dopo capitolo Giorgio Manzi ci illustra come questo popolo di cacciatori-raccoglitori fosse in grado non solo di spostarsi sul territorio con forme di nomadismo a ciclo annuale ma anche di emigrare in modo permanente da un’area all’altra.

Nel capitolo intitolato “Una rivoluzione” l’autore ci racconta la storia degli studi sul DNA antico, dai primi lavori condotti sul DNA mitocondriale che escludevano qualsiasi rapporto tra Neanderthal e Homo sapiens agli studi più recenti condotti sul DNA nucleare che invece comprovano una avvenuta commistione tra le due specie, tanto è vero che ancora attualmente tracce di DNA neandertaliano sono presenti nel nostro genoma, con frequenze variabili tra l’1% e il 4% nelle popolazioni non africane.

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Ricostruzione di donna neanderthal. ©Wikipedia
Altro interessante capitolo è quello dedicato ai Denisoviani vissuti al confine tra Siberia e Mongolia tra i 50.000 ed i 70.000 anni fa: il ritrovamento di una falange nel 2008 che si pensava appartenesse o ad un Neanderthal o ad un Homo sapiens, in seguito all’estrazione del DNA si rivelerà appartenere a una terza specie, appunto denominata “Uomo di Denisova” in attesa di potergli attribuire la denominazione latina riservata a tutti gli organismi viventi. Ritrovamenti successivi hanno poi complicato ulteriormente il quadro facendo ipotizzare un avvenuto incontro tra una madre neandertaliana e un padre denisoviano che avrebbe generato un ibrido denominato Denisova 11.

Per finire, viene affrontato il tema dell'estinzione del Neanderthal: con la comparsa in Europa di una nuova specie (l’Homo sapiens), proveniente dall’Africa Orientale, il destino dei neanderthal è segnato. Ciò avviene non tanto per l’eventuale guerra che i nuovi arrivati fanno alle popolazioni locali quanto per una competizione nello sfruttare le risorse ambientali, fenomeno noto come “esclusione competitiva”. Quando in natura coesistono specie simili, che si nutrono delle stesse risorse in uno stesso territorio, inevitabilmente una delle due avrà il sopravvento. È questo il caso dell’Homo sapiens che con le sue armi più sofisticate e funzionali ridurrà sempre più le prede disponibili per le popolazioni neandertaliane.

Il libro termina con un interessante capitolo che riguarda le ultime ricerche sul campo portate avanti dall’autore e da altri ricercatori all’interno della Grotta Guattari al Circeo, dove di recente sono venuti alla luce diverse parti di cranio tra cui anche un calvario (parte superiore del cranio senza la faccia) ben conservato, un femore, un metacarpale e diversi denti per un totale di ben 25 resti fossili il cui esame contribuirà certamente ad arricchire le conoscenze sinora acquisite sui Neanderthal. Nello stesso capitolo si parla anche dello scheletro di un neanderthal rinvenuto nel 1993 nella Grotta di Altamura (Bari), tuttora inglobato nella sua matrice calcarea che lo circonda, e degli studi che è stato possibile sinora effettuare, in attesa di poterlo liberare definitivamente dalla matrice.

In conclusione, è un libro di piacevole lettura che ci permette di soddisfare molte curiosità nate attorno al mito dell’Uomo di Neanderthal.

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'La rivoluzione piumata’
di Andrea Cau
Volume 1: I nuovi dinosauri e l’origine degli uccelli
Dicembre 2019
159 pagine, € 13,00
Volume 2: Dai tirannosauroidi agli uccelli moderni
Maggio 2020
128 pagine, € 20,00


Recensione di Mattia Papàro

La rivoluzione piumata è una vera e propria rivoluzione nel campo della divulgazione paleontologica, un progetto serio e ambizioso frutto del lavoro del paleontologo Andrea Cau, uno dei massimi esponenti della paleontologia italiana ed estera, specializzato sull’evoluzione dei dinosauri e degli uccelli. È autore di innumerevoli pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e tra le sue ricerche figurano il “dinosauro cigno”(Halszkaraptor) o l’italiano Saltriovenator.

Questo progetto è una collana che prevede l’uscita di molti altri libri (oltre a questi recensiti qui, ne sono usciti altri due di recente), e sostanzialmente è il prosieguo del lavoro di grande impegno divulgativo partito nel 2008, con un blog chiamato “Theropoda”, in riferimento proprio al sottordine che comprende grandi dinosauri, come Tyrannosaurus rex, e la classe aves (gli uccelli). Chi segue il blog, sa che questi libri sono lo specchio del modo di comunicare dell’autore, un’ottima via di mezzo tra la pura divulgazione e una rivista scientifica: non annoia, rende le letture piacevoli e allo stesso tempo riesce a comunicare facilmente e in modo efficace nomi, termini e concetti che soltanto una piccola nicchia di studenti ricercatori in genere riuscirebbero a capire.

Suddivide i vari libri in base a un determinato contenuto proprio per approfondire certi discorsi che in genere vengono solo accennati nei vari testi divulgativi, come la comparsa degli uccelli e la relazione che questi hanno con gli altri dinosauri teropodi, rimarcando che essi stessi sono dinosauri sopravvissuti alla grande estinzione di massa alla fine del Cretacico, 65 milioni di anni fa. Il primo libro si concentra sulla comparsa dei dinosauri fino all’arrivo dei grandi carnosauri, trattandone i vari aspetti (paleo)biologici, come per esempio la struttura degli arti posteriori che si diversificano per vari aspetti, sia morfologici che funzionali, da quelli degli altri “rettili” per poi spiegare nel dettaglio i vari gruppi, come gli arcosauri, che in un modo o nell’altro anticipano la comparsa dei primi dinosauri. È molto interessante anche vedere come si soffermi ad analizzare e spiegare i vari aspetti anatomici dei dinosauri, riepilogando un po’ la filogenesi (“chi è imparentato con chi”) mettendo in evidenza caratteri tipici di ogni gruppo. Insomma, in ogni capitolo troviamo una breve introduzione sulla filogenesi del gruppo o dell’individuo trattato, la descrizione, le varie osservazioni oggettive e un breve riassunto finale. In questo modo il lettore è agevolato nella lettura. Inoltre, i capitoli sono pieni di citazioni e anche di brevi racconti di scoperte o di curiosità che di certo non annoiano.

Il secondo volume mantiene lo stesso “ritmo” e la stessa impostazione di base: breve filogenesi e descrizione dell’individuo o del gruppo, osservazioni oggettive e riassunto finale. Risulta essere diverso per il contenuto, naturalmente, in quanto si concentra sui tirannosauroidi e sugli uccelli moderni. Infatti, questo volume è caratterizzato da una serie di capitoli che descrivono i vari adattamenti dei due gruppi citati, concentrandosi su due caratteri anatomici molto importanti e noti: le piume e gli arti anteriori (l’ala). Mi sembra di esser tornato indietro di qualche anno e di aver assistito a una grande lezione di Anatomia Comparata, ma molto meno noiosa, infatti questi volumi risultano essere adatti anche a studenti che sono alle prese con alcuni esami che trattano i dinosauri e gli uccelli, o anche adatti a ricercatori specializzati in altri campi e che desiderano un “aggiornamento”. Purtroppo, il campo della paleontologia presenta ogni mese diverse scoperte che in qualche modo potrebbero “compromettere” ciò che c’è scritto in un libro antecedente alla scoperta, ma ritorneremo più tardi su quest’argomento. Una novità per quanto riguarda la divulgazione in questo campo, che caratterizza entrambi i volumi, è un riassunto iconografico, una sorta di grande riassunto finale basato su una grande immagine che mostra le varie relazioni tra gli organismi/gruppi trattati, numerati e brevemente descritti. Questo è anche un ottimo metodo per memorizzare i vari rapporti filogenetici e le varie caratteristiche tipiche di un gruppo o che sono eventualmente condivise con altre. L’unica pecca è che mi aspettavo molte più immagini, ma non è necessariamente un difetto del libro quanto un mio personale gusto.

La lettura di ogni capitolo risulta essere piacevole, scorrevole e l’unica delusione è quella di scoprire che il capitolo è finito perché si vorrebbero conoscere tante altre informazioni e curiosità su questo grandioso gruppo. È un progetto molto ambizioso che ha finora raggiunto il suo obiettivo: fare corretta informazione paleontologica, senza annoiare e senza trattare in modo superficiale argomenti che possono risultare un po’ ostici anche per gli addetti ai lavori. Senza ombra di dubbio, uno dei migliori progetti paleontologici degli ultimi anni, paragonabile per certi versi al famoso libro Il pianeta dei dinosauri di Piero e Alberto Angela.

È vero che la paleontologia è una scienza dinamica, ricca di scoperte continue che in un modo o nell’altro modificano le conoscenze precedenti alla scoperta, e quindi c’è il rischio che i libri possano apparire presto datati. Ma in un post su Facebook l’autore ha promesso che i libri di questa collana verranno aggiornati continuamente, e spero che mantenga la promessa perché necessitiamo di avere una fonte sicura, e sempre aggiornata, sull’intricato mondo dei dinosauri.

Nello scorso mese di febbraio, l’autore ha pubblicato il terzo volume della serie, intitolato I sauropodomorfi, che sarà oggetto di una futura recensione (ndR).

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La disinformazione felice
Cosa ci insegnano le bufale
di Fabio Paglieri
il Mulino, 2020
pp. 251, € 15,20


Recensione di Elena Cartellino

Le bufale sono intorno a noi.

Ammettetelo, quanti a questa affermazione hanno pensato a una improvvisa invasione bovina? Ben pochi, immagino, confidente che il termine “bufala” sia ormai entrato a far parte del linguaggio comune come sinonimo di notizia fasulla. Ma a cosa devono cotanta popolarità? Ed è davvero tutta colpa dei social media? E come contrastarle, se contrastarle?

L’autore introduce il lettore all’argomento mettendo subito in chiaro che la questione non è prerogativa dell’epoca moderna e che pertanto la sua nascita non è attribuibile alle nuove tecnologie, portando in modo chiaro ed esaustivo esempi che resteranno un riferimento ricorrente nelle successive digressioni.

Certo, i social media hanno reso possibile raggiungere con pochi click un pubblico molto ampio ma è responsabilità di ognuno di noi evitare di diffondere, anche se in buona fede, notizie fasulle.

In fondo, anche quando condividiamo una fake news per smentirla possiamo influire sul processo perché in qualche modo le diamo visibilità e le facciamo raggiungere un pubblico che potrebbe invece darle credito, contestualmente instillando, in chi è già predisposto, il dubbio che si tratti di un’azione mirata a salvaguardare un qualche interesse personale per nome o per conto di qualcun altro. Molti debunker si saranno sentiti dire almeno una volta nella vita l’ormai celebre frase: “chi ti paga?”!

Anche il debunking stesso è ritenuto pericoloso dall’autore, soprattutto perché è orientato al convincimento altrui piuttosto che al discernimento personale, cosa che mi trova parzialmente in disaccordo. A proposito, volete sapere da dove deriva il termine debunking? Andate al capitolo 3.

Insomma, gli untori siamo noi e per quanto il fenomeno si possa mitigare, esso è comunque connesso con qualcosa di radicato nei nostri processi cognitivi. Eppure questo non deve affatto turbarci, così come non deve spaventarci il confronto: lo zio complottista va affrontato con rispetto ma senza paura, privilegiando sempre uno scambio comunicativo reale senza tramutare il dialogo in uno scontro tra tifoserie. Persino il debunking può risultare controproducente se usato a scopo persuasivo, generando una forte polarizzazione, ancor più se sostenuto con toni aspri.

Decisamente più complicato quando le fake news sfociano nel cospirazionismo, che sussurra il dubbio senza fornire teorie o prove da smontare: qui anche il fact checking è destinato a naufragare. Meglio verificare in proprio, coltivando lo spirito critico e arginando la diffusione per quanto possibile, tenuto conto che siamo circondati in ogni caso da grandi quantità di informazioni, ben maggiori di quante ne possiamo umanamente gestire. Certamente alcune caratteristiche nelle bufale sono ricorrenti e in caso di dubbio è sempre buona norma accertarsi che siano citate le fonti; quanto poi al poterle e al saperle consultare, non è affare da tutti (ecco perché sono parzialmente in disaccordo sull’utilità del debunking).

Due sono in particolar modo le osservazioni che porterò con me di questo testo.

La prima, è il punto di vista interessante ed originale relativo all’idea che anche una notizia fasulla abbia in qualche modo un valore informativo che richiede tuttavia un impegno, talvolta non banale, per essere colto.

La seconda è che «[...] La disinformazione crea inesistenti fenomeni da spiegare, e poi li spiega [...]»: un concetto di una semplicità disarmante ma allo stesso tempo di una efficacia che mira dritto al cuore del problema.

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Hype Machine
Come i social media sconvolgono le elezioni, l’economia, la salute e come dobbiamo adattarci
Edizione italiana a cura di Luca Serafini
Guerini Scientifica, luglio 2021
350 pagine, € 25,00


Recensione di Renato Serafini e Bruno Intreccialagli

Volenti o nolenti siamo circondati dai social media (Facebook, Twitter, Linkedin, Youtube, Whatsapp, etc.) e interagiamo con essi, spesso più volte al giorno.

Che tipo di relazione si stabilisce tra noi e i social media? In che misura i social media ci condizionano e come influiamo noi su di essi? Come possiamo sfruttare le potenzialità dei social media ed evitarne i pericoli?

Sinan Aral, professore di Management al MIT, capo del Social Analytics Lab ed esperto di digital marketing, analizza il funzionamento dei social media e cerca di rispondere a queste domande.

Come ci ricorda Luca Serafini nell’introduzione all’edizione italiana, il termine inglese Hype si riferisce a una campagna pubblicitaria sensazionalistica, a una comunicazione martellante. Col termine di Hype Machine (HM), quindi, l’autore intende riferirsi in primo luogo ai meccanismi di persuasione che guidano l’ecosistema del marketing e della propaganda politica sui social media.

La HM, secondo l’autore, è l’insieme delle tre tecnologie che ne costituiscono la struttura portante: la progettazione e lo sviluppo dei social media, le funzioni di intelligenza artificiale (gli algoritmi) che “decidono” come trattare gli input ricevuti e quali output produrre e lo smartphone che risulta attualmente il principale (anche se non esclusivo) mezzo con cui gli umani interagiscono con la HM.

Il libro che il lettore ha tra le mani non è un testo semplice, che possa essere sfogliato rapidamente per trovare contenuti immediati e stimolanti tali da soddisfare una facile comprensione. La HM, secondo Aral, viene incontro al naturale bisogno umano di socialità, nel momento in cui esso è oggettivamente ostacolato o compromesso non soltanto da fattori contestuali, ma anche da aspetti interni del modo di funzionare dell’individuo. Si genera quindi un paradosso: da un lato la HM facilita il superamento di una oggettiva condizione di solitudine (pensiamo al lockdown dovuto alla pandemia), dall’altro rende l’individuo ancora più isolato nella illusoria convinzione di far parte di qualcosa. L’autore ha una solida conoscenza dei meccanismi neuropsicologici alla base delle strategie di condizionamento sociali e individuali; non a caso cita classici esperimenti in tal senso, autentiche pietre miliari della storia della neuropsicologia. Ma la HM è l’illusione della socialità per mezzo dei media, i quali, come afferma l’autore, sembrano progettati per il nostro cervello. Concordiamo appieno con questa affermazione, dissentiamo solo per una parola: non “sembrano”, “sono” progettati per il nostro cervello, e un progetto per definizione non è una operazione casuale, cosa che l’autore sa bene visto che negli ultimi anni ha prodotto fortunate startup.

In perfetta correlazione con una articolata visione neuropsicologica, Aral identifica nel sistema trasmettitoriale dopaminergico il campo d’azione della HM. Lo stesso delle dipendenze dalle sostanze, del gioco d’azzardo, della dipendenza dal cibo. Ed è probabilmente la solitudine, come ci stimola Aral ad osservare, la condizione più frustrante che richiede un tentativo di gratificazione.

L’interazione tra gli umani e la HM viene definita dall’autore un Hype loop. La HM osserva le nostre decisioni quando clicchiamo e impara cosa ci piace, chi ci piace e come la pensiamo. Così la volta successiva i suoi consigli saranno diversi e più personalizzati. È quindi uno schema circolare di azione e reazione, in cui gli algoritmi ci suggeriscono delle scelte (di amici, di prodotti, di posizioni politiche, etc.) sulla base di quanto noi stessi comunichiamo alla HM. L’HM ci lega quindi in una rete mondiale di comunicazioni, in cui vengono scambiati trilioni di messaggi ogni giorno, i quali vengono gestiti da algoritmi progettati per informarci, persuaderci, intrattenerci e manipolarci.

Come tutte le “relazioni”, anche quella tra l’uomo e la HM ha dimensioni sia razionali che emotive. L’autore evidenzia che le caratteristiche specifiche della HM tendono però a privilegiare la dimensione emotiva su quella razionale e riflessiva. Come ci ricorda il premio Nobel Daniel Kahneman nel suo bellissimo libro Pensieri lenti e veloci, il nostro cervello ha due modalità di funzionamento; una modalità veloce e intuitiva (sistema 1) e una più lenta ma anche più logica e riflessiva (sistema 2). Il sistema 1 presiede all’attività cognitiva automatica e involontaria, mentre il sistema 2 entra in funzione quando dobbiamo svolgere attività complesse che richiedono concentrazione e autocontrollo. In particolare la modalità veloce (utilissima per molti aspetti) ha, secondo Kahneman, scarsa comprensione della logica e della statistica. Per fare un esempio, supponiamo di voler rispondere a questo semplice quesito: “una mazza da baseball e una palla costano in tutto 1 dollaro e 10 centesimi. Se la mazza costa un dollaro in più della palla, quanto costa la palla?”. La modalità di pensiero veloce ci può suggerire che la risposta sia 10 centesimi, ma una verifica più attenta ci suggerisce che la risposta è sbagliata e ci induce a passare nella modalità lenta per trovare la risposta corretta.

Più un contenuto è emotivamente stimolante (indipendentemente dalla sua verità), maggiore è la spinta a cliccarlo, a mettere un like o a condividerlo. Questa spinta della HM ad una interazione veloce tende quindi a portare in primo piano una sfera emozionale, sempre più priva di “freni” riflessivi. In altre parole, per usare la classificazione di Kahneman, i pensieri lenti vengono spesso “sacrificati” nella HM a favore dei pensieri veloci ed emozionalmente stimolanti.

Per fare un esempio di come ci può influenzare la HM, pensiamo a Facebook, che ci suggerisce dei possibili amici e dei possibili prodotti. È stato verificato dall’autore che nella stragrande maggioranza dei casi noi scegliamo i nuovi amici e i nuovi prodotti nell’ambito di quelli suggeriti, piuttosto che nel contesto di una nostra libera ricerca; questo vuol dire in sostanza che tendiamo a rimanere dentro la “bolla” di amici e prodotti che ci presenta la HM. Attenzione, qui non vi è alcuna costrizione, ma solo un metodo che sfrutta la naturale tendenza umana a risparmiare energie, visto che rimanere nella bolla è più economico che ricercare al di fuori di essa.

L’autore spiega inoltre in dettaglio i meccanismi per i quali le fake news si propagano sui social media con una velocità e un'ampiezza ben superiori alle notizie vere.

Aral mostra anche i meccanismi tramite i quali si può costruire una campagna di disinformazione, utilizzando ad esempio i social bot, cioè profili sui social controllati da software automatici. Nel libro sono descritti in dettaglio alcuni esempi, quali la campagna di disinformazione portata avanti dall’IRA (Internet Research Agency), un’agenzia russa, con sede a San Pietroburgo, impegnata in operazioni di propaganda online per conto di aziende russe e a difesa degli interessi politici del Cremlino. L’IRA, fondata nel 2013, ha creato centinaia di falsi profili sui social media, rendendoli degli opinion leader con l’obiettivo di influenzare le elezioni americane del 2016; alcuni di questi profili pubblicavano post, altri ne promuovevano i contenuti tramite like e condivisioni.

Ma possiamo costruire una HM migliore?

Si potrebbero usare ad esempio, sostiene l’autore, modalità più creative per etichettare i contenuti utilizzando dei pulsanti “verità” o “fiducia” invece dei “like”.

Luca Serafini, curatore del volume, ci ricorda in un articolo pubblicato su The Post Internazionale che Frances Haugen (ex product manager di Facebook e whistleblower dalle cui rivelazioni è nato lo scandalo dei Facebook Papers) ha suggerito alcuni cambiamenti negli algoritmi.

Ad esempio, si potrebbero far comparire sul News Feed i post in un ordine meramente cronologico, superando quindi il filtro algoritmico che premia i contenuti maggiormente virali (che hanno ottenuto quindi più interazioni), nonché quelli in linea con le preferenze che abbiamo manifestato in passato. Ciò permetterebbe di rompere il meccanismo alla base della formazione delle bolle ideologiche: se sono di un certo partito, vedrò comparirmi in bacheca anche post di altri partiti; in tal modo si amplierebbe la possibilità di imbattersi in esperienze inattese, in qualcosa che non stavamo cercando e che, di conseguenza, può mettere in discussione le nostre convinzioni e spingerci a ragionare su punti di vista che non avevamo mai preso in considerazione.

I social media, continua l’autore, sono stati progettati per diventare una nostra abitudine, per produrre piccole gratificazioni in una desolazione, aggiungiamo noi, in cui l’altro è sempre più lontano e non accessibile, quando invece dovrebbe e potrebbe essere lì, a portata di mano per condividere e costruire significati congiunti. È questo l’augurio che condividiamo con l’autore: che i social media diventino un insostituibile strumento di comunicazione e conoscenza, non riducendosi a narcotici anestetici alla solitudine e produttori di inaccettabili falsità.

Questi sono solo piccoli spunti di riflessione, ma il problema di come costruire una HM migliore e di come combattere le fake news è tutt’altro che semplice, perché coinvolge aspetti tecnologici, normativi, legali, economici, questioni di privacy, di autonomia delle aziende nella implementazione del software (tra cui gli algoritmi), nonché aspetti culturali e psicologici legati al modo con cui gli utenti interagiscono con i social media. Capire più a fondo la struttura della HM è comunque un passo indispensabile per tentare di migliorarla, e il contributo di questo libro sul punto è di grande qualità.

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Don’t Look Up
Anno: 2021
Regia: Adam McKay
Principali interpreti: Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett


Recensione di Maria Rosa Pagni

Il regista Adam McKay, già autore de La grande scommessa, ci presenta una satira sul mondo attuale e su come gli allarmi degli scienziati vengano disattesi dal resto della popolazione. Ovviamente il suo scopo non è la precisione scientifica, ma un’analisi caustica di come la scienza venga ignorata dalla politica, dall’economia, dai media e dalla società in genere, con esiti molto drammatici.

Infatti una dottoranda di una università statale scopre che una gigantesca cometa sta puntando diritta verso la Terra con conseguenze devastanti e quindi, insieme al suo professore, cerca di informare tutte le autorità, dalla NASA al Presidente degli Stati Uniti, ma nessuno sembra particolarmente interessato alla questione. Neppure i media tradizionali e i social media sembrano recepire l’allarme dei due scienziati, poco avvezzi alla comunicazione con il grande pubblico, i quali si trovano così trascinati in un bailamme privo di senso e di controllo, in cui si assiste alla fiera di tutti i bias cognitivi, insieme agli effetti di bolle mediatiche, polarizzazione, complottismi, negazionismi e scontri ideologici.

Straordinaria Meryl Streep in un ruolo che ne fa la perfetta caricatura di Donald Trump (sebbene nel film non si faccia riferimento a partiti o schieramenti politici ben precisi): inguainata nel suo tailleur scarlatto è ottusa, affida ruoli chiave a figli o a finanziatori senza che questi ne abbiano le competenze e tira spesso in ballo fantomatici team di “esperti della Casa Bianca”, perché si preoccupa più del consenso elettorale che di una minaccia globale. Prenderà in considerazione l’allarme solo quando diventerà una distrazione per l’opinione pubblica da uno scandalo sessuale in cui è coinvolta.

Accanto a lei l’informatico Peter Isherwell (che è un concentrato di Steve Jobs, Elon Musk e Mark Zuckerberg), il quale è convinto che la cometa sia un evento benefico e che tecnologia, algoritmi e accumulo di dati su qualunque persona potranno permettergli di gestire ogni situazione e persino di prevedere il futuro.

In questo contesto l’umanità riuscirà a reagire oppure verrà cancellata mentre si preoccupa solo di commentare ogni cosa sui social? Ce lo dirà solo il finale (che potrebbe essere degno delle opere di Douglas Adams).

Un’ultima nota: le scene iniziali ci mostrano una miniatura di Carl Sagan, grande scienziato, certo, ma anche autore de Il Mondo infestato dai demoni.

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Ghostbusters: Legacy
Anno: 2021
Regia: Jason Reitman
Principali interpreti: Mckenna Grace, Finn Wolfhard, Paul Rudd


Recensione di Maria Rosa Pagni

Tornano al cinema gli acchiappafantasmi che avevano spopolato nel lontano 1984; o meglio, arrivano il loro nipotini, visto che i due personaggi principali sono proprio i nipoti di quell’Egon Spengler che 37 anni prima, a New York, aveva creato il gruppo di disinfestazione da spettri ed ectoplasmi vari, per poi salvare il mondo da un’antica divinità sumera.

Il film non è un mero copia-incolla di tanti elementi e situazioni già visti; anzi, pure se ricco di doverosi omaggi e citazioni del suo predecessore, è una storia originale e spassosa, con un gruppo di nuovi personaggi molto singolari e divertenti. Sicuramente il fatto di passare il testimone a un gruppo di ragazzi deriva dalla serie tv Stranger Things (anzi Paul Rudd è senza dubbio utilizzato al di sotto delle sue potenzialità), ma è anche un segno dei tempi e forse una metafora ecologista (qualche idea ambientalista fa capolino in alcuni dialoghi, anche se in maniera superficiale e approssimativa): così come i ragazzi di Fridays For Future, anche ai giovani protagonisti spetterà l’onere di salvare il mondo (coadiuvati dai nonni acchiappafantasmi che riappariranno prima del gran finale), mentre tutti gli altri adulti saranno distratti e impegnati dietro alle loro beghe esistenziali. Il film è anche un racconto di formazione e di scoperta (o riscoperta) di sé stessi, del proprio posto nel mondo e delle proprie origini.

C’è pure un posticino per la scienza: il professor Grooberson, che è un po’ il tramite tra il mondo degli adulti e quello dei ragazzi, esalta quanto la scienza sia rock e spericolata, ma nel suo discorso magnifica sia gli acceleratori di particelle sia le bombe all’idrogeno, che non sono proprio equivalenti tra loro, almeno dal punto di vista etico. Inoltre c’è un continuo accostamento di scienza, pseudoscienza e paranormale. Nulla di nuovo, certo, lo avevamo già visto nel 1984 e la cosa ci aveva sorpreso e divertito così come continua a farlo oggi. Però potrebbe anche diventare una pubblicità gratuita per troppi sedicenti acchiappafantasmi del mondo reale che, muniti di apparecchiature elettromagnetiche (naturalmente utilizzate a sproposito), pretendono di dimostrare ed esorcizzare presunte infestazioni ectoplasmatiche e di ricevere un adeguato compenso in denaro per la loro opera.

Sarebbe auspicabile che anche questo, come altri film, diventi strumento di qualche divulgatore per parlare di scienza e fare le giuste distinzioni dalla fuffa.

Un ultimo consiglio per tutti gli altri: aspettate sino alla fine dei titoli di coda, perché ci sono ben due imperdibili scene.

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Ultima notte a Soho
Anno: 2021
Regia: Edgar Wright
Principali interpreti: Thomasin McKenzie, Anya Taylor-Joy, Matt Smith


Recensione di Maria Rosa Pagni

Ellie è una ragazza che ama la musica e la moda degli anni ’60 e che possiede il “dono” di poter vedere persone decedute o eventi del passato. Ha anche il sogno di diventare una stilista e per questo si reca a Londra dalla natia Cornovaglia per poter frequentare il prestigioso London College of Fashion. Però non si trova bene nello studentato che la ospita, per cui prende una stanza in affitto presso un’anziana signora.

La prima notte che trascorre nella sua nuova residenza ha una delle sue visioni che la porta nel cuore degli anni ’60, dove ha un contatto con una sua coetanea di quel periodo, Sandie, che sogna di diventare una cantante. Ma, dopo l’iniziale incontro pieno di luci, colori ed entusiasmo, nelle notti successive arriva anche l’oscurità, quando Sandie entra in un mondo fatto di degrado e prostituzione, fino a che Ellie non vede un delitto: Sandie è stata uccisa dal suo fidanzato e protettore? Costui è ancora a piede libero nei quartieri di Londra?

Edgar Wright scrive, produce e dirige un film molto audace, in cui mette in primo piano un omaggio agli anni ’60 e alla Swinging London, ma sottolinea pure le ombre di quel periodo (primo fra tutti il fatto che dietro alle luci e ai colori fossero gli uomini a detenere il potere e a servirsene anche in maniera gretta). La musica di Cilla Black, Sandie Shaw, Petula Clark, dei Kinks, degli Who e di tanti altri costituisce un sottofondo continuo che, sebbene appaia spensierato, arriva a introdurre eventi drammatici, mentre lo spettatore assiste a una doppia storia di formazione (quella di Ellie e quella di Sandie) che si trasforma in un thriller psicologico con risvolti horror, specie quando frotte di uomini senza volto sembrano circondare la povera Ellie, che pare ormai sull’orlo della follia.

Troppa carne al fuoco? Forse. In effetti il personaggio di Sandie risulta tratteggiato in maniera sommaria e superficiale, e pure lo sdoppiamento della personalità di Ellie, che inizia a trasformarsi in Sandie, viene schiacciato da tutti gli altri eventi. Però il regista riesce a creare la giusta sospensione dell’incredulità (necessaria per qualunque film fantastico e soprattutto per gli horror), tanto che lo spettatore è sicuro che Ellie abbia capacità paranormali (neppure l’ipotesi di schizofrenia ventilata da un poliziotto lederà tale certezza) e si appassiona alle sue vicende e al suo dramma legato a doppio filo con quello di Sandie.

Insomma, non un capolavoro, ma un buon film in cui il paranormale diventa un trucco per raccontare molto altro e coinvolgere lo spettatore.
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