Contro l’indignazione

Lo sdegno morale ci fa sentire migliori, ma non aiuta ad affrontare le controversie scientifiche

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©Dr STClaire da Pixabay
La rabbia è una delle emozioni dominanti su internet. Una ricerca condotta nel 2013 sul social network cinese Weibo mostra che la rabbia si diffonde più velocemente di ogni altra emozione[1]. Uno studio svolto nel 2021 su Twitter riporta che le espressioni di sdegno morale ottengono più “mi piace” e condivisioni della media e che questo rinforzo positivo spinge gli utenti a mantenere lo stesso atteggiamento indignato anche in successivi tweet[2]. Nel 2021 il Global Emotions Report presentato ogni anno dall’istituto di ricerca Gallup ha riscontrato i livelli più alti di rabbia da quando viene pubblicato: quasi una persona su quattro riferisce di aver provato rabbia nel giorno precedente all’intervista[3]. Gli strali dell’indignazione pervadono anche la discussione scientifica: che si parli di esitazione vaccinale o di agricoltura biodinamica, lo sdegno morale è sempre in agguato e gli sforzi di argomentare in modo pacato e analitico possono essere visti come un tradimento e un cedimento alla pseudoscienza.

«Un ruolo importante è giocato dai mass media, che provocano nel pubblico risposte emotive come rabbia, paura e indignazione per affermarsi nell’affollato panorama dell’informazione politica», spiega la sociologa Sarah Sobieraj della Tufts University, autrice con il politologo Jeffrey Berry del saggio The Outrage Industry (L’industria dello sdegno)[4]. La narrativa che guida l’informazione politica è la contrapposizione tra buoni e cattivi. Gli opinionisti non si limitano a essere in disaccordo con le politiche dei loro avversari, ma li presentano come persone malvagie, manipolatrici, pericolose[5].

Ne risultano discussioni infuocate su internet, dove tendiamo a perdere le inibizioni che abbiamo nella vita reale: questo fenomeno è noto ai ricercatori e le motivazioni pratiche che lo alimentano sono ben conosciute[6]. Online ci basta un clic per imbatterci in opinioni politiche radicalmente diverse dalle nostre o in notizie che ci offendono. Chi commenta su internet è spesso anonimo e di conseguenza non deve rendere conto dei propri comportamenti. Inoltre, la distanza tra gli interlocutori e la mancanza della comunicazione non verbale aumentano la probabilità di incomprensioni. Online è più facile scrivere lunghi monologhi che ci danno il tempo di trincerarci ancora di più nel nostro punto di vista, mentre quando si parla di persona si viene interrotti dagli altri, si deve ascoltare il loro punto di vista e si hanno più occasioni per cambiare idea. Le persone possono vedere le discussioni online come un gioco, dove non si applicano le stesse regole della vita reale. Infine, le discussioni online tendono a portare tutti allo stesso livello e ad abbattere il rispetto nei confronti dell’autorità: sui social network capita sovente di vedere professori universitari lamentarsi di essere contestati da persone incompetenti.

L’indignazione viene spesso considerata uno strumento necessario per combattere l’ingiustizia, soprattutto nella tradizione filosofica occidentale: attraverso l’indignazione ci convinciamo che la nostra causa è giusta, resistiamo alle avversità e rendiamo più persuasiva la nostra comunicazione. «Immaginate come sarebbe stato il movimento delle suffragette[7] se le donne avessero detto: “Ragazzi, è davvero così ingiusto, siamo brave persone e siamo anche noi esseri umani. Perché non ci ascoltate e non ci date il voto?”» si chiede la psicologa sociale Carol Tavris, autrice di Anger: The Misunderstood Emotion (Rabbia: l’emozione fraintesa)[8].

Quando ci indigniamo sui social network, ci sentiamo anche noi come guerrieri per la giustizia: al proposito, una citazione abusata e spesso erroneamente attribuita a Edmund Burke è «La sola cosa necessaria per il trionfo del male è che le brave persone non facciano niente[9]». In altre parole, mobilitarci contro le azioni che suscitano il nostro sdegno è moralmente doveroso, per evitare di diventarne complici. Ma è scomodo andare a combattere il male per strada rischiando di prendersi la pioggia (o qualche manganellata): l’attivismo da tastiera è molto più comodo e sicuro e può fornire l’illusione di essere altrettanto attivi socialmente.

L’indignazione è collegata a un bias cognitivo molto noto e studiato, l’illusione di superiorità, cioè la tendenza a sopravvalutare le nostre capacità quando confrontate con quelle degli altri[10]. L’illusione di superiorità produce risultati piuttosto buffi: la maggioranza delle persone si considera un guidatore al di sopra della maggioranza[11].

Nel campo morale l’illusione di superiorità è particolarmente forte: gli studi mostrano che consideriamo noi stessi più morali della media e contemporaneamente troviamo che la moralità altrui lasci molto a desiderare. Persino i detenuti si sentono moralmente superiori alla media, secondo uno studio pubblicato sul British Journal of Social Psychology[12]. L’illusione di superiorità contribuisce alla nostra intolleranza nei confronti delle idee altrui. Se siamo erroneamente convinti che la nostra moralità e la nostra capacità di giudizio siano superiori a quelle degli altri, non accettiamo che le loro opinioni abbiano la stessa legittimità delle nostre, ma le condanniamo senza riserve perché non le consideriamo solo sbagliate, ma anche malvagie e pericolose per la società.

L’indignazione è elettrizzante, anche se siamo restii ad ammetterlo. Lo sdegno morale, pur essendo una sensazione negativa, ha qualcosa di piacevole: ci fornisce un senso di appartenenza e coinvolgimento e ci fa sentire importanti e migliori degli altri. Le sensazioni forti indotte dallo sdegno morale possono diventare un’abitudine a cui è difficile sfuggire, in maniera simile a quanto accade con il gioco d’azzardo. A questo proposito l’astronomo e scrittore di fantascienza americano David Brin ha scritto una lettera aperta in cui chiede ai ricercatori che si occupano di dipendenze, neurochimica e psicologia sociale di indagare la possibilità che l’indignazione e altri stati mentali producano forme di dipendenza paragonabili a quelle indotte dalle droghe[13].

Uno dei malintesi più diffusi sull’espressione della rabbia è il mito freudiano della catarsi, secondo il quale la rabbia si accumula negli individui come la pressione idraulica all'interno di un contenitore sigillato e rischia di farli esplodere se non viene rilasciata. Molte persone credono che sfogare la rabbia attraverso le urla, le azioni fisiche o la scrittura sia un comportamento sano e vantaggioso, nonostante un’ampia letteratura affermi il contrario[14]. Esprimere la rabbia non serve ad alleviare l’emozione, come suggerirebbe la metafora del contenitore esplosivo, ma tende invece a rafforzarla e ad amplificarla. La ricerca suggerisce che un modo migliore per ridurre la rabbia è rivalutare l’evento che l’ha innescata, reinterpretandolo con maggiore distanza e obiettività[15].

Il filosofo e neurobiologo Owen Flanagan esamina la visione occidentale della rabbia nel libro The Geography of Morals (La geografia della morale), mettendola a confronto con la visione buddista e quella stoica, che promuovono l’eliminazione della rabbia, per capire che cosa le diverse tradizioni morali possono imparare l’una dall’altra[16]. Flanagan argomenta che la rabbia non è necessaria per riconoscere l’ingiustizia e reagire a essa. Per illustrare questo concetto Flanagan prende in esame il movimento di Nelson Mandela nel Sudafrica del post-apartheid. Mandela e gli altri leader del suo movimento non hanno negato alle persone il diritto di essere arrabbiate per i precedenti decenni di discriminazione, ma hanno lavorato duramente per impedire che la rabbia avesse un ruolo fondamentale nella ricerca della verità e della riconciliazione. Sapevano che la rabbia poteva essere distruttiva e che era necessario metterla da parte se si voleva dare alla società una possibilità di guarire e progredire.

Flanagan sostiene che, come Nelson Mandela, dovremmo prendere ispirazione dai buddisti e dagli stoici e fare attenzione al rischio che la rabbia diventi distruttiva e controproducente. La semplificazione promossa dai mass media e alimentata dall’indignazione crea l’illusione che tutti i problemi si potrebbero risolvere se solo gli altri la pensassero come noi. Affrontare questioni complesse richiede invece la capacità di mettere da parte le proprie emozioni, mettersi nei panni degli altri e osservare con distacco il quadro generale. Arrivare al tavolo delle trattative così arrabbiati da non concedere alcuna legittimità al punto di vista altrui non permette di risolvere alcuna controversia. Incanalare la rabbia in azioni costruttive richiede un’attenta riflessione, non solo una reazione, il che significa che le nostre decisioni migliori arrivano quando abbiamo messo da parte la rabbia e siamo più lucidi.

Ciò non significa diventare indifferenti alle ingiustizie o rimanere passivi. Al contrario, mantenere una distanza emotiva dagli eventi che alimentano lo sdegno del nostro gruppo sociale ci rende più capaci di analizzare la realtà in tutti i suoi aspetti e di mettere in pratica strategie efficaci. Questo suggerimento non vale solo per la difesa dei diritti umani, ma anche per la critica alle pseudoscienze.

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Nelson Mandela a Johannesburg, il 13 Maggio 2008. ©South Africa The Good News Wikimedia Commons

Note

1) Fan, Rui & Zhao, Jichang & Chen, Yan & Xu, Ke. (2013). Anger is More Influential Than Joy: Sentiment Correlation in Weibo. PLOS One 9(10): e110184.
2) Brady, W. J., McLoughlin, K., Doan, T. N., & Crockett, M. J. (2021). How social learning amplifies moral outrage expression in online social networks. Science advances, 7(33), eabe5641.
3) Gallup's Latest Global Emotions Report. Consultato in data 4 aprile 2022, da https://www.gallup.com/analytics/349280/gallup-global-emotions-report.aspx
4) Berry, J. M., Sobieraj, S. (2014). The outrage industry: political opinion media and the new incivility. Oxford, New York: Oxford University Press.
5) Tam, R. (2016, febbraio 28). “Wrath of the talking heads: How the 'Outrage Industry’ affects politics”, PBS News Hour. Consultato in data 4 aprile 2022, da https://tinyurl.com/4tekcfm5 .
6) Suler, John. (2004). The Online Disinhibition Effect. Cyberpsychology & behavior: the impact of the Internet, multimedia and virtual reality on behavior and society. 7 (3).
7) L’organizzazione che all’inizio del Novecento si batteva per il diritto di voto alle donne nel Regno Unito con azioni dimostrative che includevano incatenarsi a ringhiere, dare fuoco alle cassette postali e intraprendere scioperi della fame.
8) De Angelis, T. (2003). When anger's a plus, Monitor on Psychology, 34 (3). Consultato in data 4 aprile 2022, da https://tinyurl.com/3mvtuenw
9) La citazione circola dall’inizio del Novecento e riprende concetti espressi da Edmund Burke e da John Stuart Mill, ma non è chiaro chi l’abbia espressa per primo nella forma attuale.
10) Vedere anche: Della Sala, S., McIntosh, R., L’effetto Dunning-Kruger, Query n. 47, autunno 2021. Consultato in data 4 aprile 2022, da https://tinyurl.com/mwuhc82v
11) Vedere Svenson, O. (1981) Are we all less risky and more skillful than our fellow drivers? Acta Psychologica, 47 (2), e McCormick, I. A., Walkey, F. H. Green, D. E., (1986). Comparative perceptions of driver ability - A confirmation and expansion, Accident Analysis & Prevention, 18 (3).
12) Sedikides, C., Meek, R., Alicke, M.D. Taylor, S. (2014), “Behind bars but above the bar: Prisoners consider themselves more prosocial than non-prisoners”. British Journal of Social Psychology, 53: 396-403.
13) Brin, D. (2017). Addicted to Self-Righteousness? An Open Letter to Researchers In the Fields of Addiction, Brain Chemistry, and Social Psychology — and anyone else who will listen. Consultato in data 4 aprile 2022, da https://tinyurl.com/395hckjw
14) Si veda per esempio Gentile, D. (2013). Catharsis and Media Violence: A Conceptual Analysis. Societies. 3 (4).
15) Fabiansson E. C., Denson T. F. (2012) The Effects of Intrapersonal Anger and Its Regulation in Economic Bargaining. PLOS One 7(12): e51595.
16) Flanagan, O. (2016). The Geography of Morals: Varieties of Moral Possibility. Oxford, New York: Oxford University Press.
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