Il Siero di Bonifacio

L’incredibile storia del veterinario che aveva scoperto la cura per i tumori osservando le capre. Una vicenda solo italiana? Una storia del passato? Forse no...

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  • 13-04-2012
  • di Salvo di Grazia
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©"Serum" by Rogervd, deviantart
Il miraggio della cura definitiva del cancro ha radici antiche e popolari. In Italia uno dei casi più rilevanti è stato quello del siero di Bonifacio, che si è prodotto in un contesto caratterizzato da un basso livello culturale medio, nel quale la medicina, soprattutto nei piccoli centri, risentiva ancora moltissimo della tradizione popolare e della superstizione. Liborio Bonifacio era un veterinario di origine siciliana che esercitava la sua professione ad Agropoli, in provincia di Salerno. La sua fu una carriera “ordinaria” che cambiò radicalmente attorno agli anni ’50, quando cominciarono a diffondersi voci su una presunta cura per il cancro da lui scoperta. Bonifacio racconta di aver avuto un’intuizione in seguito ad un esperimento eseguito nel suo allevamento. Espose per 20 giorni delle capre ad una sostanza cancerogena (il benzopirene) e queste non svilupparono mai il tumore che ci si aspettava. Da questo il veterinario concluse che le capre fossero immuni dal cancro e che somministrare un “estratto biologico di capra” potesse proteggere anche gli uomini dalla malattia (non sperimentò comunque in alcun modo la veridicità della sua ipotesi). Ideò quindi un composto a base di feci ed urine di capra mescolate ad acqua: secondo il tipo istologico di tumore le capre dal quale si “estraeva” il siero dovevano essere di sesso differente.
L’idea (sicuramente bizzarra) del veterinario campano inizialmente si diffuse solo a livello locale: in quegli anni non esisteva internet, le comunicazioni erano particolarmente difficoltose e le uniche fonti di “novità” erano i giornali. Furono proprio questi che svelarono quello che stava accadendo ad Agropoli. File di persone, incidenti, tafferugli, interventi delle forze dell’ordine e perfino l’interesse della malavita per ottenere le poche dosi di “siero” che il veterinario riusciva a produrre. Iniziò pure un mercato nero della pozione e si sparsero false copie del siero miracoloso. Tutto questo non fece che aumentare l’aura di interesse attorno al prodotto che si estese oltre i confini nazionali. Bonifacio chiese ad alcuni suoi amici medici dell’istituto Pascale di Napoli di sperimentare (in quegli anni le “regole” sulla sperimentazione umana erano piuttosto vaghe se non inesistenti) su dei malati di tumore il suo siero: i risultati furono del tutto negativi, ma i giornali dell’epoca continuavano ad elencare casi felicemente risolti e testimonianze emozionanti, proprio ciò che accade oggi con altre pseudo cure. Bonifacio rilevava che la maggioranza dei malati era in stato terminale, il siero quindi poteva fare ben poco, ma anche in questi casi sosteneva che “qualcosa” [sic] riusciva ad ottenere; in stadi iniziali invece, il siero, sempre a detta del suo inventore, era efficace nell’80% dei casi. Fu quello il momento della “sollevazione popolare”. Furono inviate petizioni al Papa ed al governo, richieste di sperimentazione, di somministrazione controllata e anche alcuni medici si esprimevano a favore del veterinario. Il ministro della sanità dell’epoca diede l’autorizzazione (per “volontà popolare”) ad eseguire uno studio. L’analisi dei flaconi ricevuti mostrava un’assoluta superficialità nella preparazione delle fiale: dosi differenti da una all’altra, conservazione inadeguata (le fiale erano chiuse manualmente e molte risultavano contaminate) e nessun componente “sconosciuto” o segreto. Erano vitamine e proteine disciolte in glucosio.
Questo non impedì di proseguire nella sperimentazione, che avvenne da marzo 1970 al maggio successivo. Il risultato sugli esseri umani fu assolutamente inconsistente: nessuna guarigione, nessun miglioramento, qualche “miglioramento della qualità di vita” che non era necessariamente da imputare all’effetto della preparazione.
Il trattamento durò dai 23 ai 75 giorni con somministrazione da 14 fino a 44 iniezioni di siero. Un paziente fu ricoverato per 25 giorni subendo 13 iniezioni ed “avendo riferito un peggioramento delle condizioni locali e generali, il trattamento fu sospeso”. Quattro pazienti morirono durante la sperimentazione.
Furono inoltre analizzate migliaia di cartelle cliniche in possesso di Bonifacio. Dopo tale verifica le cartelle furono definite prive di consistenza per mancanza di diagnosi e di documentazione specifica. Il ministero dichiarò: «In conclusione risulta chiaro che il prodotto in sperimentazione non presenta nessuna azione curativa sul cancro, non cambia la sintomatologia e non esercita effetti benefici sulle condizioni del paziente. Questo verdetto automaticamente esclude la possibilità di sperimentare il prodotto su un gruppo più vasto di pazienti». La pratica fu quindi archiviata ma, nonostante questo, Bonifacio ed il suo staff continuarono a somministrare e vendere il loro siero, il veterinario inoltre pubblicò un libro che però ebbe scarsa diffusione. In realtà sin dall’inizio era abbastanza evidente che l’idea di Bonifacio non potesse avere alcuna possibilità di essere corretta. Non solo non esisteva alcuna evidenza di effetto del siero sui tumori, ma la stessa ipotesi di partenza, che le capre cioè fossero “immuni” dal cancro, era del tutto errata. Le capre contraggono tumori maligni come qualsiasi altro animale. Bonifacio, come veterinario, probabilmente ne avrà anche visto qualcuno, ma questo non gli impedì di formulare la sua strana teoria.
L’eco della vicenda arrivò anche negli Stati Uniti, dove l’American Cancer Society, che stava preparando un dossier sulle cure alternative per il cancro, incluse nella lista anche il siero di Bonifacio, definendolo inefficace e frutto di illazioni.
Quando il clamore sembrava ormai un ricordo, nel 1981 si ricominciò a parlare del metodo: alcune riviste a larga diffusione pubblicarono delle interviste a presunti “guariti” e la polemica ricominciò come se niente fosse successo. Nuove polemiche, “testimoni” che spuntavano come funghi e persino attività commerciali che proponevano varianti “potenziate” del beverone. Alla fine il veterinario di Agropoli richiese una nuova sperimentazione dicendosi in possesso di altri dati e di cartelle che dimostravano l’efficacia del suo preparato. Un gruppo di medici americani si dichiararono disposti a sperimentare il siero direttamente su malati delle loro strutture: nuove polemiche, schieramenti da una parte e dall’altra, movimenti politici di solito interessati ai voti più che alla salute, costrinsero il ministero della sanità ad accettare un “tavolo di discussione” per decidere come dovesse avvenire la nuova sperimentazione fissata per l’inizio del 1982. Tutto si finì con un colpo di scena: in una conferenza stampa convocata d’urgenza Liborio Bonifacio annunciò il suo rifiuto di partecipare alla sperimentazione ed il suo ritiro definitivo dalla scena pubblica italiana. Morì poco dopo nel 1983.
Dopo un periodo di silenzio fu il figlio del veterinario che ripropose la vendita della sostanza (inizialmente solo nei luoghi di venerazione di Padre Pio perché, a suo dire, lo faceva “soprattutto per le mamme dei bambini malati”). Egli brevettò il preparato con il nome di “Oncoclasina” e cedette i diritti di fabbricazione ad un’azienda chimica. Leonardo Bonifacio, questo il suo nome, raccomandava comunque di non abbandonare le cure standard. Alla fine degli anni novanta un gruppo di Messina ripropose l’Oncoclasina sostenendo che si erano ottenute le prove scientifiche del suo funzionamento, prove che non diventarono mai di dominio pubblico. Oggi il siero di Bonifacio è praticamente sconosciuto e non si ha notizia di malati che lo assumono.
Per molti tutta la vicenda è “all’italiana” (tanto da ricordare molto da vicino un’altra simile, quella relativa al “metodo Di Bella”): un’idea indimostrata ed implausibile si trasforma per “volontà popolare” in un dato meritevole di interesse scientifico, l’ideatore diventa un paladino della povera gente (i malati) e la scienza si trasforma in “ottusa” agli occhi del popolo. Non ci è servito da lezione però, e poi la vicenda sarà pure “all’italiana”, ma anche in altre parti del mondo sono accaduti e continuano a ripetersi casi simili, come abbiamo mostrato anche in questa rubrica.
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