L’onere della prova: di chi è?

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©johnheat.com
Dopo le digressioni degli scorsi numeri sul mandato del CICAP, torniamo finalmente a occuparci di metodolo scettico e lo facciamo con uno degli autori preferiti di questa rubrica, il filosofo italoamericano Massimo Pigliucci. In un articolo originariamente apparso sullo Skeptical Inquirer, Pigliucci esamina le insidie di uno degli argomenti più usati dagli scettici, l’onere della prova.

Le discussioni su scienza e pseudoscienza si riducono spesso a una questione di onere della prova. Tuttavia, contrariamente all’opinione diffusa – anche tra gli scettici – stabilire da che parte stia l’onere non è sempre immediato.[1] Per esempio, si sentono spesso frasi come «Be’, stai facendo un’affermazione positiva, quindi l’onere è chiaramente tuo». Non così in fretta, ragazzi. Dal punto di vista logico, affermare P è esattamente lo stesso che negare non-P, il che significa che trasformare un’affermazione positiva in una negativa e viceversa è una semplice mossa sofistica.

Esiste in effetti una significativa letteratura filosofica (e giuridica) sul concetto di onere della prova, e gli scettici farebbero bene a studiarla almeno un po’. Per cominciare, attribuire correttamente l’onere della prova dipende molto dalla conoscenza di fondo consolidata[2]. Consideriamo la prima versione della teoria darwiniana dell’evoluzione: all’epoca la visione consolidata della diversità biologica era espressa dalla teologia naturale, così Darwin dovette lavorare sodo per prevenire un gran numero di possibili obiezioni alla sua teoria, obiezioni che – sebbene venissero da un punto di vista che oggi identificheremmo come “teoria” dell’Intelligent Design – erano perfettamente ragionevoli all’epoca. Ma i tempi sono cambiati, i contorni generali della teoria dell’evoluzione sono largamente accettati (tra gli scienziati), così ora l’onere della prova spetta ai sostenitori dell’Intelligent Design.

Un buon modo per cercare una distribuzione corretta dell’onere della prova è quello di adottare un punto di vista bayesiano[3]. Come è ben noto, il teorema di Bayes afferma che la probabilità P che una teoria T sia vera date certe osservazioni O, nota come la probabilità a posteriori (P[T|O]), è uguale alla probabilità a priori P[T], moltiplicata per la probabilità di osservare O se T fosse in effetti vera (P[O|T]), divisa per la probabilità a priori di fare l'osservazione (P[O).

Così, per esempio, la ragione per cui richiediamo un alto standard di prova per accettare la teoria T che gli UFO siano astronavi aliene in visita è che P[T] è molto bassa date le nozioni di fisica e ingegneria attualmente accettate. Ma se scoprissimo la propulsione a curvatura, diciamo, potremmo concludere che la probabilità a priori aumenterebbe significativamente, così che anche l’accettabilità di T date le osservazioni disponibili aumenterebbe (anche se di quanto dipenderebbe comunque dalla qualità delle testimonianze). Come sempre, in un quadro bayesiano vogliamo stare alla larga dagli estremi: se assumiamo una probabilità a priori 0 (scetticismo totale) o 1 (fede assoluta), allora nessuna quantità di prove ci smuoverà mai dalle nostre posizioni, che quindi non si potranno considerare ragionevoli.

Un’altra importante caratteristica dell’onere della prova è il suo legame con un gran numero di cosiddette fallacie logiche “informali” che – in certe circostanze – non sono affatto fallaci. Le tre fallacie informali più strettamente legate all’idea dell’onere della prova sono l’attacco ad hominem (attacco alla persona), la petitio principii (ragionamento circolare) e l’argumentum ad ignorantiam (argomento dell’ignoranza). Ho spazio per esaminare solo l’ultimo esempio, così lasceremo gli altri due per un’altra occasione (o, come si dice, come esercizio per il lettore).

L’argomento dell’ignoranza – sebbene di solito respinto senza neanche pensarci dagli scettici – in realtà non è necessariamente fallace (anche se naturalmente lo può essere).

In effetti, la differenza tra una versione fallace e una ragionevole di tale argomento risiede nell’attribuzione dell’onere della prova. Per esempio, supponiamo di essere alle prese con una discussione sulla teoria alla base dell’agopuntura. Questa teoria ipotizza una nuova forma di energia, qi, che scorre attraverso specifici percorsi di energia vitale noti come “meridiani”. Uno scettico può ragionevolmente sostenere che la scienza moderna non ha scoperto nulla che corrisponda al concetto dei meridiani, al che un credente nella teoria potrebbe ribattere con un’accusa di “ad ignorantiam”, del tipo «non c’è ragione di principio per cui il qi un giorno non potrebbe essere accettato nella fisica standard». Ma l’argomento dello scettico è ragionevole: mentre non si può escludere categoricamente l’esistenza del qi e dei meridiani, la scienza moderna è abbastanza avanzata da far sì che spetti al credente l’onere della prova di spiegare perché questa nuova forma di energia non è ancora stata scoperta e come farebbe a inserirsi nella fitta logica della fisica fondamentale contemporanea.

Al contrario, tuttavia, un’accusa di ad ignorantiam resiste quando viene fatta da uno scettico della già citata “teoria” dell’Intelligent Design in risposta all’affermazione ricorrente che «non si vede come l’evoluzione darwiniana potrebbe spiegare X». Qual è la differenza rispetto al caso precedente? È che la teoria scientifica di sfondo accettata è l’evoluzione darwiniana, così l’onere della prova è saldamente sulle spalle del sostenitore dell’ID (al contrario del caso dell’energia qi e dei meridiani, che non sono conoscenza consolidata ma piuttosto proprio ciò di cui si richiede evidenza nella discussione in oggetto). Così quando si impiega (o si rigetta) un’accusa di ad ignorantiam, quello che si sta davvero difendendo o rifiutando è una particolare concezione dell’onere della prova, così come si applica all’oggetto della discussione.

Un ultimo contributo da parte della filosofia riguardo all’onere della prova. Esso è, come praticamente tutto ciò di cui discutiamo, un esempio di ciò che Wittgenstein chiamava “gioco linguistico”. L’idea è che le persone hanno bisogno di un linguaggio condiviso per poter intrattenere una discussione significativa, cioè per poter giocare lo stesso gioco semantico. Wittgenstein non sosteneva l’idea banale che le persone dovrebbero parlare la stessa lingua (come l’inglese o l’italiano), pena il non capirsi letteralmente. L’idea era invece che per giocare un certo “gioco” linguistico dobbiamo essere d’accordo sulle regole e condizioni di fondo. Nel nostro caso, questo significa che gli scettici e i sostenitori di una determinata nozione controversa devono mettersi d’accordo su che cosa valga come regole di evidenza, conoscenza scientifica di base accettata, eccetera. Se non lo fanno – come accade spesso, per esempio, quando gli scettici discutono con i creazionisti della Terra giovane – allora il problema non è di logica o di onere della prova ma quello molto più fondamentale di parlare un linguaggio “privato” che l’interlocutore non capisce. Una grande sfida per lo scetticismo scientifico è semplicemente far sì che le persone accettino le regole del gioco prima ancora di cominciare a giocare.

Note

1) Massimo Pigliucci, “Whose Burden of Proof?”, Skeptical Inquirer Volume 37.3, May/June 2013.
2) Vedere su questo punto l’articolo di Manuele De Conti “La fallace inversione dell’onere della prova”, in Query 5, primavera 2011.
3) Vedere, in questa rubrica, “I rabdomanti, le corse dei cavalli e lo scetticismo”, in Query 3, autunno 2010.
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