In prospettiva storica: Mauro Capocci

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Quando si parla della pandemia di COVID-19, si fa spesso riferimento alla spagnola: questo succede perché è la pandemia più vicina a noi, oppure perché si assomigliano particolarmente?

Credo che sia perché è appena passato il centenario, che risale al 1918, e se ne è parlato tanto. E perché la spagnola è stata effettivamente l’ultima grande pandemia che ha interrotto una serie di funzioni sociali. Ci sono state altre pandemie, che hanno avuto numeri elevati di morti in giro per il mondo, come l’asiatica nel ’57, ma in nessuno di questi casi vi è stata l’interruzione dei funerali o degli assembramenti. La spagnola fu l’ultima di queste dimensioni e con queste conseguenze sociali: quarantene, interruzione dei trasporti e degli assembramenti. In più la spagnola apparve molto rapidamente. Un’altra somiglianza è che i virus respiratori tipicamente non hanno uno strato sociale di preferenza, proprio perché colpiscono più o meno tutti. La spagnola è stata forse la pandemia più grande, più grave e più mortale. Le cifre vanno dai 20 ai 100 milioni di morti in pochissimi mesi. Ed è probabilmente quella più vicina e di cui si conserva memoria, almeno indirettamente: i nonni di qualche mio amico possono ricordare dei racconti di altri su quando c’era la spagnola, o di persone morte di spagnola. Quindi da una parte abbiamo la vicinanza nel tempo, dall’altra il fatto che fu l’ultima grande pandemia globale che richiese questo tipo di misure sociali.

Quali sono le differenze tra la pandemia di influenza spagnola e quella di COVID-19?

La spagnola comparve durante la Grande guerra, che fu fondamentale nella sua diffusione, nei suoi effetti, nella sua rapidità e mortalità. Una importante caratteristica della spagnola, per fortuna diversa rispetto al COVID, fu che uccideva principalmente i giovani adulti fra i 18 e i 40 anni. La spagnola fu davvero un caso particolare.

Ci sono altre pandemie con cui si potrebbe fare il confronto?

Avremmo potuto fare riferimento ad altre epidemie, ma che hanno caratteristiche differenti. La polio e il vaiolo sono stati estremamente forti e importanti nella storia dell’umanità, però avevano caratteristiche molto diverse: per esempio, colpivano i bambini. Andando più indietro nel tempo, prima della spagnola possiamo ricordare il colera che, però, già alla fine dell’Ottocento era una malattia della povertà, quindi con caratteristiche sociali ben precise.

Oggi disponiamo di moltissimi dati epidemiologici ed economici su queste pandemie, lo stesso non si può dire per il passato. Dal punto di vista del metodo storico, come si cercano fonti adeguate?

Le fonti sono molto varie e occorre fare molte più estrapolazioni. Ad esempio, storici ed epidemiologi litigano ancora sui numeri della spagnola. C’è chi dice che vi furono 20 milioni di morti, chi 100-150 milioni: un’oscillazione enorme. Questo perché cambia il tipo di estrapolazione e di fonti. Il dibattito più recente sulle cifre della spagnola è nato dal fatto che alcuni epidemiologi hanno considerato le cifre ufficiali di mortalità in India, che era una colonia inglese. Storici e sociologi del mondo coloniale hanno messo in dubbio la validità di quei dati. Infatti, non abbiamo dati affidabili per affermare che tutti i nati o morti in India o altrove fossero registrati, e che tutte le diagnosi fossero corrette. La storica Eugenia Tognotti sostiene che le cifre sulla spagnola in Italia siano poco affidabili. I soldati che morirono di influenza mentre erano al fronte nel settembre/ottobre 1918, forse sono stati dichiarati morti al fronte. Un virus come l’influenza ha sicuramente fatto una strage nelle trincee della Prima Guerra Mondiale: erano luoghi sovraffollati, con igiene molto limitata, senza protezioni individuali, spesso anche in condizioni fisiche precarie. Tuttavia, conveniva un po’ a tutti dire che un soldato fosse morto al fronte: si dava una medaglia al valore e si rimandava la salma a casa col tricolore.

Quindi il problema della ricostruzione dei numeri non sarebbe limitato al passato, ma esisterebbe ancora oggi?

Sì, c’è sempre, anche quando le statistiche sembrano molto precise e ben raccolte. C’è il modo di dire: «Esistono tre tipi di bugie: le bugie, le dannate bugie e le statistiche», perché le usi come vuoi, vai a vedere quello che vuoi contare. Per esempio, è vero che il fascismo ha debellato la malaria? Sì, le bonifiche hanno aiutato, ma se andiamo a vedere le cifre, notiamo che ad un certo punto si iniziarono a contare i morti e i contagi in modo che non risultassero nelle zone bonificate. Le statistiche vengono usate. Dal punto di vista della storia della medicina, è interessante osservare l’evoluzione della raccolta statistica dei dati. A partire dalla fine dell’Ottocento è migliorata la collaborazione internazionale, con una pressione per avere statistiche il più possibile affidabili. Ma questo funziona fino a un certo punto. Consideriamo ancora la malaria oggi: secondo le cifre dell’OMS, ci sono fra i 200 e i 400 mila morti. Parliamo di 200 mila morti di differenza: in una città come Bologna sarebbero evidenti! Questo perché nei Paesi più colpiti dalla malaria, per esempio Burkina Faso e Mali, è difficile raccogliere dati precisi. Oltretutto talvolta si effettua una diagnosi di malaria piuttosto che di malnutrizione o di HIV per una questione di convenienza: si possono garantire esami e cure che sarebbero altrimenti precluse. Molti fattori influiscono sulla raccolta dei dati, per cui sono sempre da prendere con le pinze. Uno storico consulta gli archivi ufficiali, le serie ISTAT o altre fonti, dopodiché osserva quanto collimano tra loro. Quali numeri sono veri, perché cambiano così tanto?
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Ospedale da campo negli USA durante l'epidemia da influenza Spagnola.
©Wikimedia Commons

Da storico nota questi limiti anche nella pandemia di COVID?

La certezza non c’è mai. Non ce l’abbiamo neanche adesso sul COVID: i numeri che abbiamo sono indicativi, li possiamo usare per capire l’andamento dell’epidemia. Anche quando i dati vengono raccolti bene, non sempre riescono a circolare. La collaborazione internazionale da questo punto di vista è fondamentale, non solo per far circolare le informazioni sul genoma del virus, ma anche per capire quante persone sono infette realmente nel mondo, e di volta in volta cercare di capire quanto questi numeri siano validi e quanto li possiamo utilizzare realmente. Questo è un problema da storico ma, in generale, riguarda la gestione delle epidemie e di questo tipo di fenomeni. Per lo storico in più c’è il fascino del perché alcuni dati cambino improvvisamente e non altri. Se in tre settimane si passa da 0 a 5 milioni di casi non è un problema biologico o di infezione, ma di raccolta dei dati. Perché non si stavano raccogliendo prima? Erano tenuti nascosti? Per esempio, negli anni ’20 del Novecento in Olanda fu cambiata la modalità di dichiarazione dei morti. Fu introdotto un certificato anonimo da mandare alle autorità e un certificato nominativo che poteva essere rilasciato alle famiglie. Con questa doppia certificazione le statistiche per alcolismo e sifilide schizzarono verso l’alto, perché non c’era più il problema sociale legato alla causa della morte, visto che il certificato era anonimo. Sono piccole cose che alla fine cambiano parecchio.

La costruzione sociale del dato.

Esatto. Poniamo il caso del COVID. Il governo centrale dice alle Regioni che sono loro a dover fornire i numeri, così il governo può decidere se quelle possono riaprire le fabbriche o i confini; se le cifre superano una certa soglia continua l’isolamento in casa, se sono inferiori possono fare come preferiscono. Ma lasciando il controllo di questi dati alle Regioni, si rischia di avere una sottostima, perché non c’è un incentivo a fornire i numeri giusti. Quindi come facciamo a fidarci di questi dati? Occorre un controllo su più fronti. Il dato può essere in buona parte costruito, anche semplicemente dalla capacità di rilevazione. Questo vale anche per il passato. Come sono stati raccolti i dati per la spagnola, nelle aree più sperdute? Possiamo fare una serie di inferenze andando a contare i necrologi, i funerali fatti, i registri di parrocchia e tentare di fare stime, ma i numeri precisi non li avremo.

Esistono metodi per superare questi limiti?

Nell’uso delle statistiche e nella raccolta dei dati, ci sono molti aspetti da tenere in considerazione. Ad esempio, possiamo valutare la gravità di un’epidemia sulla base dei suoi effetti sociali. Uno storico dell’economia italiano, Carlo Cipolla, ha studiato diverse epidemie dal ‘300 al ‘600 integrando le informazioni con dati economici. Con questo approccio, è emerso che dopo la peste del ‘300, il costo dei contratti di lavoro agricolo era aumentato. Poiché era aumentato il costo della forza lavoro, significava che erano morte delle persone. Questi effetti possono essere a lungo termine: per esempio, un servo della gleba prima non costava quasi niente, aumentando di prezzo acquistava più potere. O ancora, a Firenze nel 1348 sono scomparse molte delle imprese familiari più importanti, per esempio nella produzione della lana. Mancano le loro tasse, non svolgono più le attività, non hanno più rappresentanti nella loro corporazione delle arti. Sono indicatori efficaci. Il vaiolo ha ucciso molte persone, ma ebbe probabilmente effetti sociali minori rispetto ad altre malattie meno mortali ma con effetti economici devastanti. In Italia la malaria ha avuto effetti sociali più forti rispetto al vaiolo, dato che colpiva nelle zone, soprattutto al Sud, dove si sarebbe potuto coltivare molto: aree agricole importanti sono state inabitabili per millenni. Quando ricostruiamo le storie delle pandemie, dobbiamo distinguere l’impatto sociale, economico, culturale dall’impatto clinico.

Quali potrebbero essere gli indicatori sociali di questa pandemia di COVID-19?

Noi siamo più immuni rispetto a questo tipo di conseguenze sociali, ma ne abbiamo di altro tipo, come stiamo vedendo in questi giorni. Si stanno studiando molto i trasferimenti in auto, gli spostamenti dei cellulari, come aumenta e diminuisce il traffico, quanto aumentano gli ordini di Amazon, di Uber e aziende simili. Tra poco potremo osservare quali sono gli effetti reali di questa pandemia, al di là delle cifre singole di morti e di casi.

A proposito di questo impatto sociale, ha scritto che questa è la più grande quarantena della storia. Come mai si è prodotto questo fenomeno?
Un po’ perché siamo in tanti, un po’ perché per la prima volta ci siamo trovati di fronte a condizioni sociali in cui era possibile applicare una quarantena a questo livello. La sola quarantena di Wuhan e provincia, con 60 milioni di persone, sarebbe stata la più grande della storia. Inoltre, dato che abbiamo una enorme rapidità di collegamenti, è stato necessario mettere in quarantena tutti, tutti insieme. In passato si sarebbero potute mettere in quarantena prima Parigi, poi Londra, dopo una settimana o due mesi New York: la quarantena avrebbe seguito la pandemia.

Quindi la globalizzazione ha il suo peso.

Certo. Già nel recente passato abbiamo visto che il colera arrivò per la prima volta in Europa nel 1820 perché i trasporti erano diventati molto più rapidi. I passeggeri malati che precedentemente morivano o guarivano nei lunghi viaggi, prima di arrivare a destinazione, con i nuovi mezzi a vapore arrivavano ancora infettivi. Quindi la velocità del trasporto diventa fondamentale nel gestire le quarantene. Abbiamo attuato la quarantena più grande della storia anche perché era l’unico modo per gestire la pandemia.

Qual è la cosa che, da storico, ti ha colpito di più di questa pandemia?

Che ci ritroviamo con gli stessi strumenti che si usavano nel ’400, con i riti e la mistica dei numeri: l’epidemiologo o il virologo alle 6 del pomeriggio ci annuncia se moriremo o ci salveremo, come sta andando la curva. Sembra quasi di seguire lo scioglimento del sangue di San Gennaro. Ma come possiamo gestire un modello del genere? Si ha una fede mistica in questi numeri e nella loro comunicazione. Nelle prime settimane, guardavamo l’oracolo dei numeri tutti i giorni per vedere come stavano andando i dati: tentavamo di placare le nostre ansie con numeri quasi tirati a caso da persone che in perfetta buona fede non sanno che pesci prendere. Nell’incertezza, mi fido di qualcuno che non ha più certezze di me, ma me le dice meglio: prima avveniva attraverso il Vangelo o Nostradamus, adesso con i numeri. Però il ruolo è sempre lo stesso. I modelli dell’Imperial College non hanno previsto molto cosa stava succedendo, anche se in buona fede. È veramente interessante vedere come i modelli statistici o le persone che parlavano in televisione sembrino aver avuto lo stesso ruolo dei sacerdoti e degli astrologi di tre o quattro secoli fa ed è la situazione che trovi nelle descrizioni che fa Daniel Defoe della peste di Londra del 1665-1666. Nei prossimi mesi potremo valutare come sia stata la comunicazione in questo periodo. Sicuramente quello che abbiamo visto è l'incapacità di comunicare l’incertezza intrinseca nella scienza.

Ritieni che le persone si siano comportate diversamente nei confronti dell’isolamento imposto dalle autorità? O si sono ripetute dinamiche già osservate nel corso della storia?

Mi ha stupito abbastanza il livello di obbedienza e di accettazione. In realtà in Italia siamo stati abbastanza bravi da questo punto di vista. Dal punto di vista storico, la capacità di imporre misure biomedico-sanitarie, e in generale di obbedienza della cittadinanza, è un tratto che osserviamo nell’evoluzione dello Stato moderno. La capacità dello Stato di controllare i comportamenti dei cittadini è aumentata: abbiamo stipulato un nuovo patto sociale per cui si sa che le tasse vengono utilizzate per i servizi sanitari, per le scuole, eccetera. Adesso paghiamo le tasse molto più di quanto non si facesse un secolo fa. Secondo me ci siamo fidati abbastanza delle autorità, anche quando queste hanno preso decisioni che sembravano incomprensibili o contraddittorie. Mi ha stupito che, ad ogni livello, le istituzioni per qualche tempo siano andate d’accordo. Sui giornali, la prospettiva è stata diversa: bastano 10 casi negativi su 6 milioni di persone, ma riempiono il giornale. Nei documenti del passato accade lo stesso: troviamo il racconto del singolo caso. D’altra parte, se i quotidiani riportano che sono state identificate duecento persone che si sono spostate senza giustificazione, penso che non sia un risultato da poco: siamo riusciti in un territorio così vasto a individuare queste duecento persone che stavano violando le regole.

Il controllo esercitato durante questa pandemia è diverso rispetto al passato?

Siamo riusciti adesso a controllare così tanto le persone perché le vie di movimento sono ben diverse rispetto al passato. Lo Stato moderno è fatto di strade, ferrovie, rotte aeree, estremamente capillari ma anche estremamente controllabili. Due secoli fa i passeggeri erano di meno, ma non li avresti potuti trovare. Come chi passava dalla Lombardia alla Svizzera attraverso le Alpi: avevano diversi sentieri per portare le cose da una parte all’altra, ed erano loro a diffondere le epidemie. Nel libro «Chi ruppe i rastelli a Montelupo?», Carlo Cipolla racconta di un’epidemia in un paesino del contado fiorentino, dove la sera chiudevano le porte del paese per evitare che la gente andasse in giro; una mattina le trovano rotte, la gente usciva e l'epidemia si diffondeva. Il frate, che era più o meno il governatore di quel paesello, chiese ai fiorentini di inviare le guardie armate per controllare la popolazione: erano solo cento persone, ma se volevano uscire dalla città, rompevano i cancelli senza problemi. Questa possibilità non esiste più. O almeno, adesso certe forme di controllo le accettiamo tranquillamente. Da storico mi domando: adesso e nel passato, quanto medicina e sanità sono state utilizzate come strumenti per altri fini? Secondo me dobbiamo tenerlo presente. Lo smart working per tutti: torneremo indietro oppure no? O ci sarà qualcuno a cui costerà meno pagare i dipendenti per lavorare da casa e non mantenere più l’ufficio? Con la giustificazione dell’emergenza sanitaria, il lavoro diventa stare a casa, non si ha necessità dei mezzi pubblici, non si esce più: cambia la società.

L’assetto sociale sta cambiando?

Sì. Verrà sfruttato per qualcosa? Ci sono degli interessi? In passato cambiamenti del genere si sono diretti soprattutto verso fasce sociali e gruppi sociali non protetti, come il respingimento degli immigrati che avrebbero potuto portare malattie. Il cordone sanitario che c’era fra l’Impero austro-ungarico e i Balcani, durato tre secoli, serviva sia per tenere lontane le epidemie di peste, sia come strumento militare per tenere lontane queste persone. Lo scopo militare e quello sanitario andavano di pari passo. Gli italiani che sono emigrati negli USA all’inizio del Novecento sono stati respinti e discriminati perché portatori di malattie, perché biologicamente e medicalmente inferiori, esseri patologici. Nella storia la medicalizzazione dei comportamenti arriva in genere nei confronti di qualcuno che è già percepito come nemico sociale. Costruisco il nemico socialmente, trovo un motivo biomedico e a quel punto ho tutte le giustificazioni: nessuno si espone al rischio di malattia pur di difendere zingari, ebrei, omosessuali. Non parlo solo dei nazisti. Più recentemente, negli anni ’80, l’HIV era vista come malattia degli omosessuali, dei tossicodipendenti e degli haitiani.

Nel caso del COVID, i Cinesi sono stati il primo gruppo imputato. Ritieni che questo pregiudizio contro i cinesi sia un fenomeno analogo?

Non credo, all’inizio non c’è stato molto razzismo verso i cinesi. Lo troviamo a livello politico, quando si incolpa la Cina, ma è diverso. Mi riferisco più allo spazio pubblico come lo viviamo. È un meccanismo più sottile. Nei prossimi mesi un qualsiasi sindaco che andasse con le ruspe a tirare giù un campo nomadi per rinchiuderli da qualche parte, lo potrebbe fare in nome della sanità pubblica: dobbiamo controllare tutti e quindi dobbiamo mettere tutti in condizione di essere controllati. Sono aspetti in qualche modo distopici.

Si è osservato, soprattutto all’inizio dell’epidemia, una sorta di risorgimento del sentimento di identità nazionale: non solo i canti dai balconi, ma anche la chiusura dei confini, dei porti, degli aeroporti. Questa rinascita del sentimento nazionale è un fenomeno nuovo o si è sempre associato alle epidemie, nel senso di riscoperta dell’appartenenza al proprio gruppo come gruppo dei sani e dei puri contro gli altri, i potenziali infetti?

In parte l’esclusione è un fenomeno che è già stato osservato: mi chiudo verso l’esterno perché noi siamo puliti e voi siete sporchi. Il problema è che ora non possiamo chiuderci del tutto. All’inizio, abbiamo chiuso gli scambi con la Cina, sperando che l’epidemia non arrivasse da noi ma non si poteva pensare di chiudere del tutto e per sempre gli scambi con la Cina. Sarebbe stato un cambiamento enorme, non l’avremmo sopportato in tempi così brevi. In passato l’orgoglio nazionale c’era, ma questa volta sembra sia stato soprattutto legato ai sacrifici, non a una presunta superiorità medica: dopo due settimane, siamo diventati noi gli untori.

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Polizia durante l'influenza Spagnola a Seattle.
©Wikimedia Commons
Però, per esempio, c’è stata la retorica dei canti sui balconi perché «noi italiani siamo creativi».

Quello sì, una retorica di orgoglio nazionale su quanto siamo bravi a resistere anche in queste condizioni di privazione e sul modello italiano seguito in tutto il mondo. Adesso nel mondo iniziano a prenderci in giro per queste cose. Non credo fosse associato a una medicalizzazione della superiorità e al dire che c’è un nemico biomedico alle porte che non dobbiamo far entrare. Sicuramente nel corso della storia troviamo vari esempi per cui alcune malattie sono associate agli altri, agli stranieri. La sifilide viene detta mal francese, mal spagnolo, malattia di Napoli, malattia dei Polacchi, malattia dei Russi, malattia degli Indiani, a seconda di chi la guarda, di chi dà il nome: c'è uno straniero a cui dare la colpa e attribuire l’origine della malattia, soprattutto se immorale come la sifilide. In questo caso, a parte Trump che si ostina a parlare di virus cinese, mi sembra che nessuno abbia fatto discorsi di orgoglio nazionale, se non con retorica bellica, come «Resisteremo alla tempesta», tentativi di emulare Churchill di fronte alla guerra coi nazisti; «Affronteremo questa guerra tutti insieme, come una famiglia, canteremo l’inno sui balconi».

Una delle caratteristiche di cui si è discusso nel caso del COVID è la cosiddetta «infodemia»: le persone erano alla ricerca spasmodica di informazioni di cui c’era dall’altra parte una produzione in eccesso. Ritieni che sia un tratto della contemporaneità o si possono rintracciare degli elementi paralleli in altre situazioni del passato?

La quantità di informazioni è ben diversa: come la rapidità di contagio, così la produzione e la circolazione delle informazioni oggi è molto diversa rispetto al passato. Però troviamo alcuni generi di comunicazione e letterari che possono essere associati alle epidemie, come alcuni tipi di narrazioni complottistiche. Per esempio, attribuire il contagio a qualcuno di esterno, dire che non ci stanno raccontando tutto, incolpare il 5G, che le autorità non fanno abbastanza o che c’è l’influenza delle costellazioni. L’identificazione di un nemico è piuttosto comune nel corso delle epidemie: prima costruisci un nemico poi, quando arriva l’epidemia, gli attribuisci anche quella colpa, e a quel punto non ci sono aspetti culturali che tengano, è diventata medicina.

Quali sono le similitudini e le differenze nel linguaggio adoperato in questi casi?

Nel presente c’è la tendenza a rivestire di termini scientifici o pseudoscientifici ciò che scientifico non è. Come per il 5G e le radiazioni “elettromagnetizzanti sui subneuroni pseudoneurali”. I discorsi dei grandi predicatori del ’300 sulla peste erano simili, ma invece di usare la scienza usavano la religione, basandosi sui testi religiosi e sul concetto di peccato. Così come nel ’300 ci poteva essere una profanazione della religione, adesso all’origine di questa epidemia ci sarebbe una sorta di profanazione della natura. Ci sono aspetti misticheggianti in alcune visioni quasi apocalittiche della pandemia. È vero che questa pandemia è collegata al nostro stile di vita, al fatto che distruggiamo foreste e ci troviamo più vicini ad alcuni animali; però quando leggo le narrazioni in cui la natura viene personificata in un essere quasi sovrannaturale, capace di volontà e di vendetta perché abbiamo distrutto la biodiversità, trovo delle similitudini con il discorso religioso del passato.

In questi mesi il conflitto fra gli scienziati è stato un tema molto discusso. Questo è un fenomeno nuovo o si ritrova nel passato?

Si ritrova anche nel passato. Troviamo casi di buona fede e casi di malafede. Troviamo il medico inglese che difende alcune misure se il focolaio dell’epidemia è nelle colonie inglesi, e altre se il focolaio è nelle colonie francesi: nel secondo caso il colera veniva considerato contagioso, quindi era necessaria la quarantena, la chiusura del porto, e così via.

È un caso di conflitto interno, in cui la stessa persona sostiene due tesi opposte?

Non necessariamente la stessa persona, anche se può capitare. Lo sto studiando da vicino: nel 1905, una decina d'anni dopo che Koch aveva identificato il bacillo del colera, in Egitto ne sono state trovate altre forme nei pellegrini diretti alla Mecca e di ritorno verso l’Europa, il Nord Africa, i Balcani. Si trovano diverse forme di vibrione: alcune che danno il colera subito, altre che non danno sintomi ma che per il resto si comportano come gli altri vibrioni del colera, per cui esistevano portatori sani. Vi è quindi ora uno scontro fra chi considera quei vibrioni del colera come l’origine della malattia ed altri studiosi secondo cui non dobbiamo guardare alla microbiologia, ma alla clinica: non è il batterio che conta, ma i sintomi. Il dibattito scientifico qui diventa più sfumato e segue i confini nazionali: gli italiani dicono una cosa, i tedeschi un’altra, a seconda degli interessi politici e delle idee sulla circolazione di merci e persone che vogliono difendere. Ecco perché assistiamo a contrasti tra microbiologi, epidemiologi e clinici.

In che modo ritieni possibile mediare le decisioni derivanti da questi dibattiti?

Tutte queste istanze devono essere mediate dalla politica. Il problema è quanto la politica ascolta gli scienziati, come li ascolta e quanto sia in grado di usare quelle informazioni per prendere decisioni nell’interesse della comunità. Roberto Speranza, Ministro della Salute, ha detto che gli scienziati ci devono dare certezze: non ritengo sia così. Occorre capire come funziona la scienza e non chiederle quello che non può dare. Le decisioni non spettano agli scienziati. In questo periodo, mi sembra che le autorità si siano chiuse dietro ai numeri e alla scienza, senza prendersi una responsabilità politica di decisione che non fosse quella imposta da un modello o da un virologo. Mi sembra che questo sia stato dovuto a una mancata comprensione di come funziona la scienza, all’idea che la scienza possa dare tutte le risposte. Il virologo mi dice come devo igienizzare e qual è il miglior sapone per farlo, ma sono io a dover sapere dove usarlo e quanto ne posso comprare. È tutto più complesso di come la scienza potrebbe raccontarcelo, e proprio perché abbiamo la scienza sappiamo che è tutto più complesso. Da storico vedo che gli esperti non sono mai concordi, che giustamente la scienza procede per dibattito e che la veridicità di un risultato emerge dopo anni; che le decisioni che portano a un vaccino, a un farmaco, sono decisioni politiche e ci mettono anni ad arrivare; che le promesse fatte dai politici sulla base di «la scienza ci salverà» o «facciamo quello che dice la scienza» lasciano il tempo che trovano. Questa è la cosa più preoccupante: sembra che la storia non ci abbia insegnato nulla, purtroppo. Vi è ricorsività. Non so se avremmo potuto fare le cose in maniera diversa. Ma vedo una tendenza a ripetere gli errori del passato, senza troppi miglioramenti.
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