Da quella prima seduta spiritica... il dubbio come pratica adattiva

Intervista a Gianrico Carofiglio

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©Wikipedia
Da tempo sei amico del CICAP e ti interessi ad alcuni dei temi di cui per tanti anni ci siamo occupati.

Sono un fan del CICAP da un sacco di tempo, mi piace tantissimo il lavoro che fate e sotto molti punti di vista mi ci riconosco.

Da adolescente mi infastidiva pensare che potessero succedere certi fenomeni indimostrati. Una volta, in vacanza mi invitarono a partecipare alla seduta di una medium, una ragazza di nome Marilù. In effetti il fantasma, muovendo un bicchierino sulle lettere, dava risposte giuste alle domande. Ero un quindicenne sospettoso, perciò posi una domanda alla quale solo io conoscevo la risposta: il fantasma rispose correttamente. Mi interrogai allora su come fosse possibile sottoporre il fenomeno a una falsificazione scientifica, anche se all’epoca non avevo questa terminologia. All’improvviso pensai che forse erano i presenti stessi, me compreso, a guidare inconsciamente il bicchierino alla risposta esatta; l’unico modo che mi venne in mente per saperlo fu di coprire le lettere, perché il fantasma, se c’era, non avrebbe avuto problemi a guardarle da sotto. A quel punto il fantasma cominciò a scrivere cose senza senso, e la medium disse che c’era una presenza ostile. E io fui espulso dal circolo degli amici paragnosti.

La visione del programma “Viaggio nel mondo del paranormale” di Piero Angela fu una delle esperienze più formative della mia vita, e fu proprio guardandola che scoprii di aver avuto ragione. È ovvio a pensarci: se tieni un dito dolcemente appoggiato sul bicchierino, il braccio dopo un po’ comincia a tremare; se tremano sette braccia il bicchierino comincia a muoversi, e se qualcuno sa qual è la risposta inconsapevolmente lo indirizza in una certa direzione. A quindici anni non avevo elaborato questa raffinatezza, però il criterio di verifica c’era. Mi piace molto questa idea del controllo razionale serio, senza ossessioni; l’idea che per fare un’affermazione è necessario provarla. È un’idea alla base non soltanto della scienza, ma anche delle relazioni personali, dei processi, e dello stesso metodo democratico, anche se spesso questo sfugge.

Nel tuo ex mestiere di magistrato, dimostrare e provare al di là di ogni ragionevole dubbio faceva parte del lavoro. Tuttavia, dubitare è una di quelle cose che non ci vengono naturali come esseri umani: siamo portati a cercare conferme, anziché smentite come si fa nella scienza, ed è un problema.

Non so cosa succeda agli esseri umani in generale. Per me è sempre stato naturale dubitare; anzi, me ne sono vergognato fino a quando non ho capito che era una buona cosa. Ricordo benissimo certe assemblee a scuola, certi esami o certe conversazioni su temi controversi, in cui avevo a che fare con persone sicurissime di quello che dicevano; e pensavo di essere l’unico a non sapere esattamente come stessero le cose.

Il dubbio è una pratica adattiva. Ovvio che certe circostanze richiedono reazioni immediate e automatiche, ma nella maggior parte dei casi bisogna fermarsi e pensare: cioè dubitare, chiedersi se quello che l’intuito suggerisce sia davvero corretto. È ciò di cui parlano gli psicologi, a cominciare da Kahneman e Tversky, a proposito dei pensieri lenti e veloci.

Molti anni fa, quando facevo il magistrato, avevo a che fare con investigatori, pubblici ministeri e poliziotti che dicevano di capire subito se qualcuno stesse mentendo. Vi do una notizia: queste persone (diffidatene se vi capita di incontrarle) sono le più facili da fregare. Uno bravo è capace di cogliere subito possibili indizi di menzogne, questo sì, ma poi deve fermarsi e domandarsi se siano davvero tali o siano piuttosto segnali di qualcos’altro. Deve cioè fare quello che nella scienza è, dopo l’ipotesi, la verifica sperimentale.

Suggerisco un modo per provare a scoprire se una persona sta mentendo. Cominciate a parlarle facendole raccontare cose su cui sicuramente risponderà onestamente, come dov’è nata e dove abita, e analizzate il suo modulo di comportamento di quando dice il vero: come si comporta, dove guarda, come si atteggia col corpo eccetera. Dopo aver acquisito un minimo di informazioni sul pattern, iniziate a fare domande più controverse: se l’atteggiamento dell’interlocutore resta simile a prima, probabilmente sta ancora dicendo la verità (oppure è molto bravo). Ma anche se notate un discostamento da quel funzionamento, non vuol dire per forza che l’altro stia mentendo; vi ponete il dubbio e andate a verificare. 

C’è anche una tecnica quasi infallibile per scoprire se l’interlocutore mente in un racconto complesso, ammesso che sia disposto a collaborare: chiedergli di raccontare la storia al contrario, dalla fine al principio. Quando una persona procede con ordine è in grado di dare alla storia credibilità attraverso l’abilità narrativa, la sequenza dei fatti, la coerenza e la psicologia dei personaggi. Ma all’inverso questo è virtualmente impossibile, se non preparandosi a lungo: così si possono raccogliere incongruenze, salti, indizi a volte significativi di menzogna. Il racconto al contrario è anche utile nel caso in cui il soggetto stia dicendo la verità, per recuperare informazioni che nel racconto ordinario erano sfuggite; la coerenza narrativa è un grande strumento di sopravvivenza sociale, ma a volte ci porta a trascurare dettagli che lì per lì non sembrano necessari.

Il titolo del CICAP Fest 2021 è “Navigare l’incertezza”, qualcosa con cui conviviamo a fatica e che ci crea ansia. La ricerca di punti fermi e risposte, anche se falsi, è quotidiana. Come pensi che possiamo mettere un freno a questa tendenza?

Una celebre frase di Roosevelt dice: «Ciò di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa». È il potere paralizzante della paura a costituire un pericolo. Lo stesso vale per l’incertezza: non è l’incertezza a crearci problemi, ma la paura di essa; è l’idea che per procedere nel mondo sia necessario avere convinzioni radicate, essere capaci di esprimere una netta opinione su qualsiasi cosa, che ovviamente è impossibile. Accettare l’incertezza come una parte necessaria del nostro rapporto con gli altri e con la conoscenza, è una fonte di felicità e produce un senso di relazione col mondo che ci sta attorno.

Al contrario, il bisogno di applicare subito etichette a qualsiasi cosa preclude la conoscenza, perché ci rende incapaci di vedere tutto il resto. Gli psicologi la chiamano visione a tunnel: quando hai un’idea precisa di quello che devi vedere, non vedi altro. Nelle sue istruzioni ai terapeuti, Freud parla di osservazione fluttuante, ovvero un’osservazione capace di adeguarsi a quello che dice l’altro; è esattamente l’opposto dell’osservazione condizionata da preconcetti, etichette, bisogni di sicurezza, ansie da sanare.

Uno dei concetti più belli degli ultimi due secoli di storia del pensiero, secondo me, l’ha elaborato il poeta inglese Keats, ed è la capacità negativa. Vuol dire sapersi porre rispetto alla conoscenza senza dare subito una soluzione o collocare un’etichetta, ma vivendo nell’incertezza; la capacità di attendere, acquisire elementi, adeguarsi al ritmo, percepire in profondità quello che succede, nella consapevolezza che non si comprenderà mai tutto. Grazie al cielo, dico io. Se uno è capace di starci, l’incertezza è una benedizione.

Oggi grazie al web si è amplificata la tendenza a parlare di qualunque argomento improvvisandosi esperti laureati all’università di Google, e di immaginare teorie del complotto. Un tempo, diceva Eco, queste persone parlavano solo al bar, mentre oggi hanno un seguito. Tutti i giorni ne vediamo le conseguenze.

Sì e no. Credo che il pericolo esista e che non vada sottovalutato. Pensiamo al caso della ricerca sulla correlazione tra vaccini e insorgenza di sindromi autistiche o para-autistiche pubblicata su Nature: il giornalista Brian Deer scoprì cosa c’era dietro e la smentì, ma nel frattempo la notizia si era diffusa e un danno spaventoso era stato fatto.

Detto questo, per imparare a gestire i fenomeni da web teniamo presente che la maggior parte sono fuochi fatui: una fiammata oggi, e domani non se ne ricorda nessuno. Non c’è una regola assoluta, si tratta di capire caso per caso. In generale, quello che succede sui social scompare rapidamente. Per mettere in moto cambiamenti e diffondere idee di cui siamo convinti bisogna ricordarselo: non basta un singolo messaggio, non basta il fatto che un giorno diventi trending topic, ma occorre maneggiare i social come strumenti di argomentazione civile, cercando di impostare e sviluppare un dialogo con chi ci ascolta.

Ci sono anche i veri esperti e soprattutto la competenza, di cui nel tuo libro Della gentilezza e del coraggio dai una bella descrizione.

Competenza è la capacità di capire quando non si è competenti, l’intelligenza di riconoscere i propri limiti e di non superarli. Nel mio libro L’arte del dubbio, che si compone di veri verbali di processi commentati, c’è un capitolo intitolato “Testi esperti” che analizza la tecnica di interrogatorio e possibilmente di demolizione dell’esperto. Il punto debole dell’esperto è l’eccessiva sicurezza di sé: se sei categoricamente convinto di essere il portatore della verità in una data disciplina, sei la preda perfetta per un bravo controesaminatore. Nel capitolo riporto i controesami di due luminari della medicina legale che finiscono per dire sostanzialmente il contrario di quello che avevano detto con estrema sicurezza all’inizio.

Secondo Niels Bohr, competente è colui che ha commesso tutti gli errori possibili nel proprio campo. È una massima bella ma direi eccessiva; direi che è già competente ed esperto chi ha fatto un buon numero di errori, sa che ne farà degli altri e soprattutto è consapevole che la sua ignoranza è più vasta della sua conoscenza. Una bella metafora spiega che la conoscenza è un’isola che si va allargando nel mare dell’ignoranza; così facendo aumenta anche il suo perimetro, cioè lo spazio dell’ignoranza che la circonda. Più conosciamo cose, più siamo consapevoli di non saperle. Anche questa è una buona notizia, perché porta a un atteggiamento di reverenza verso l’universo e di entusiasmo rispetto alla possibilità infinita di conoscere altro.

Oggi però per molte persone, purtroppo, la competenza ha perso credibilità. Una delle cause è il modo in cui il normale dibattito che avviene su riviste scientifiche e convegni viene trasportato in televisione, come se presentasse evidenze scientifiche diverse anziché opinioni e punti di vista. Che colpa ha chi mette insieme queste trasmissioni cercando proprio il litigio, anziché aiutare il pubblico a capire?

Il narcisismo è una brutta bestia. Penso al libro L’altra faccia dello specchio del premio Nobel Konrad Lorenz: lo specchio è lo studioso che guarda il mondo, però lui stesso ha una sua fisiologia, una sua psicologia. Spesso si tratta di scienziati bravi ma con un ego smisurato che necessita di gratificazioni. Da un giorno all’altro si sono trovati in televisione come entità mitologiche, poi il meccanismo li addestra a entrare in un personaggio e dire quello che corrisponde alla loro parte in commedia: chi minimizza ed è ottimista, chi spara affermazioni catastrofiche. È accaduto anche a persone che in un primo momento mi erano parse competenti e caute. Tuttavia non possiamo prendercela coi singoli virologi o esperti: spesso sono muniti di un’eccellente competenza tecnica, ma non hanno la più pallida idea di cosa significhi stare in certe situazioni. C’è poi una colpa oggettiva del sistema dell’informazione. Nel periodo peggiore della pandemia sono andato molto meno in televisione, essenzialmente perché la maggior parte dei programmi cui partecipavo aveva un modo di trattare la situazione che ho trovato insopportabile. Insomma, servirebbe soprattutto intelligenza: una capacità, inutile dirlo, piuttosto rara.

In rete troviamo spesso personaggi convinti di esercitare l’arte del dubbio che rifiutano qualunque tipo di storia ufficiale, istituzionale, scientifica, e considerano tutto parte di un grande complotto. Si convincono di avere sviluppato capacità critiche, ma in realtà non utilizzano gli strumenti critici come dovrebbero.

Il dubbio è uno strumento per vagliare la fondatezza delle affermazioni che sentiamo, mentre dire che è tutto falso è proprio il contrario. Il complottismo è la pratica individuale e collettiva della paranoia. Il paranoico o il complottista trasformano ogni elemento contrario alla propria tesi in elemento a favore, dove l’assenza è prova della presenza. Il mio consiglio è di non ragionare con i complottisti se non nei rari casi in cui è possibile inchiodarli su specifici dati di fatto, quantificabili e inconfutabili; diversamente non ha senso.

Discutere da posizioni diverse è pratica nobile; effettuata nel modo giusto e con spirito aperto, è straordinariamente capace di arricchirci. Discutere, però, significa che tu ed io siamo tendenzialmente disposti ad ascoltare quello che dice l’altro e pronti a modificare il nostro punto di vista, se l’altro ci dice qualcosa di utile. Scordiamoci invece di poter convincere un complottista.

Uno dei modi per curare questa paranoia collettiva è quello di una pratica tollerante dell’intelligenza critica. Un’altra cosa utile è parlare senza scagliarsi a testa bassa contro l’altra persona, che di quello si potrebbe solo giovare.

Parliamo di demagogia, visto che per via del tuo mestiere presti una particolare attenzione al linguaggio. Nella vita quotidiana ci può capitare di ascoltare discorsi in cui qualcuno cerca di manipolarci, di portarci in una direzione. Quali sono gli indizi per riconoscerli?

Ce ne sono parecchi. Tre sintomi piuttosto evidenti sono la ripetizione ossessiva di frasi fatte, l’individuazione di responsabili specifici dei problemi collettivi, e la sordità totale rispetto a quanto dicono gli interlocutori. Sono tutte pratiche che rientrano nella fuga dal dovere di pensare, sia da parte di chi parla, sia da parte di chi ascolta. Frasi fatte, espressioni demagogiche e capri espiatori ci liberano dall’ansia di analizzare il reale, di cercare di capire la complessità.

Invece la realtà è complessa. Ci sarà sempre qualcosa che ti sfugge o che dovrai rivedere, soluzioni che puoi cominciare a impostare ma che poi dovrai modificare; dovrai essere disposto a dire di aver sbagliato, cosa tonificante se uno l’apprezza. Nella raccolta di aforismi di Goethe si dice che gli errori rendono amabili, eppure la gente ha paura di sbagliare e paura di ammetterlo.

Il tuo saggio si intitola Della gentilezza e del coraggio: ma come possiamo definire oggi la gentilezza, e come la mettiamo in pratica nel dibattito quotidiano sempre più incattivito?

Dato che l’espressione si presta ad essere compresa in vari modi, all’inizio del saggio chiarisco subito qual è la gentilezza cui faccio riferimento. Non sono le buone maniere, non è la buona educazione, non è il garbo, per quanto siano tutte doti che ci piacciono. La mia riflessione sull’approccio non solo alla politica, ma in generale alla vita di relazione, si fonda sulla gentilezza come pratica di gestione del conflitto.

Parto dalla constatazione inevitabile che il conflitto fa parte delle nostre vite individuali e collettive, e che non è una cosa negativa: è un modo di progredire, senza non c’è movimento. Il conflitto può essere rifiutato, il che significa togliersi dalla possibilità di influire sulle vite individuali e collettive; può essere affrontato in una forma muscolare, brutale, testa contro testa, che si tratti di un avversario o di un’idea; oppure si può pensare a una strategia più raffinata.

Prendo le mosse dalle arti marziali, in cui ho un po’ di trascorsi. Il concetto cardine di ogni arte marziale è che non si oppone forza alla forza. Se ti spingono, l’istinto naturale è resistere e controspingere; invece, l’idea migliore è cedere e far perdere l’equilibrio all’avversario. In questo modo svolgi un’azione pedagogica, mostrando all’avversario che il suo attacco è una pessima idea, e al tempo stesso difensiva, disperdendo l’attacco. Lo stesso vale nell’ambito della conversazione, del dialogo con gli altri, sia comune sia politico. La gentilezza è una virtù marziale, proprio il contrario della remissività. Non significa tirarsi indietro, ma piuttosto andare incontro al conflitto, accettandolo coraggiosamente e consapevolmente. Bisogna avere un’estrema consapevolezza di sé e dell’altro, percepire cosa fa e poi adeguarsi. La mente deve essere limpida come uno specchio d’acqua, in modo da riflettere quel che succede e consentirci di agire di conseguenza, e deve restare calma, altrimenti l’immagine riflessa sarà confusa e la reazione non sarà adeguata. Complicato, ma entusiasmante.

È ovvio che le reazioni vanno graduate alla situazione; se abbiamo a che fare coi nazisti i mattoni in testa sono un buon argomento, come diceva Woody Allen, ma nella maggior parte dei casi è più che sufficiente un’azione di altro tipo.

La gentilezza richiede coraggio, che infatti compare nel titolo del libro. Devi decidere di essere diverso da come ti viene naturale, ottusamente incline a rispondere alla violenza con la violenza. Quando lo capisci però è bello, anche perché nel combattimento dialettico, molto più che nel combattimento fisico, è un superpotere: se sai tenere i nervi a posto, se sai ascoltare quello che dice l’altra persona e se sai adeguare la tua azione, diventi quasi invincibile. Non è un male, se sei portatore di buone idee.
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