Come comunicano le istituzioni scientifiche?

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  • 02-08-2021
  • di Giuseppe Stilo
L’apertura al pubblico generale delle università e dei luoghi in cui si fa ricerca scientifica è ormai un fatto scontato. Si tratta di una tendenza che in tempi recenti è andata accelerando[1]. Ma perché queste organizzazioni si danno a questo genere di attività? La risposta più semplice è che, dipendendo sempre di più dalla destinazione di risorse scarse e in molti casi per niente sicure, “farsi sentire” è indispensabile.

Eppure, di come tutto ciò funzioni in dettaglio si sa poco. Esistono studi sul funzionamento degli uffici di pubbliche relazioni delle università[2]; di solito ci dicono che in questi contesti sono favoriti nella comunicazione gli scienziati interessati a promuovere la propria immagine e i propri risultati. Non c’è da stupirsi che, in un quadro di questo tipo, risultino privilegiati elementi generali come la sorpresa insita in una “scoperta”, i grandi numeri, le situazioni di crisi o di conflitto, gli eventi catastrofici e le storie di vita vissuta, quelle cosiddette di human interest.

Un gruppo di ricercatori, però, si è reso conto che, ad altri livelli, non si sa molto di cosa sia la comunicazione pubblica delle istituzioni scientifiche. Per questo, si è formato un gruppo di ricerca internazionale che comprende anche due studiosi che lavorano in università italiane: Massimiano Bucchi, ordinario di Sociologia all’Università di Trento, e Barbara Saracino, che ha un dottorato in metodologia delle scienze sociali ed è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna.

Insieme, hanno condotto uno studio su un campione di ben 2030 enti di ricerca di otto Paesi: Brasile, Germania, Giappone, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti. Scopo della ricerca, poi uscita su PLOS ONE[3], era di testare l’ipotesi secondo cui la comunicazione pubblica delle organizzazioni scientifiche assumerebbe aspetti diversi a seconda dei Paesi e delle discipline, ma che a condizionarla sarebbero anche altri elementi, segnatamente il contesto in cui si trova l’ente di ricerca e il suo livello di impegno nella comunicazione. Come vedremo, alcuni risultati della ricerca hanno sorpreso gli stessi ricercatori.

In generale, le ricerche finora disponibili in letteratura indicano che chi lavora nelle scienze naturali è meno impegnato pubblicamente di chi si occupa di scienze sociali (fanno eccezione l’astronomia e le scienze del clima), e che di solito chi è attivo nelle prime è più attento alle attività educative rivolte al pubblico e alle scuole, chi lo è nelle seconde si mostra più propenso all’impegno civico[4].

Tuttavia, finora non si era provveduto a rendere alcuni concetti in termini operativi. Per cercare di far fronte a questo vuoto, il gruppo di studiosi ha distinto tre formati comunicativi generali diversi, cioè gli eventi pubblici, i media tradizionali e i nuovi media. Su questo sfondo è stata individuata una serie di fattori destinati a valutare la comunicazione pubblica degli istituti scientifici (P), in funzione delle loro strutture organizzative generali (C) e della disponibilità dell’organizzazione verso la comunicazione pubblica (D). In termini operativi, è possibile asserire che P = f(C, D).

Più in dettaglio, i fattori di tipo C sono quelli che caratterizzano il tipo di istituzione e l’ambito di ricerca, e, non ultimo, il Paese in cui l’istituzione opera, oltre che la dimensione del budget annuale destinato alla ricerca; i fattori di tipo D, invece, sono il riflesso dell’impegno comunicativo dell’ente (dimensione del budget destinato alla comunicazione, presenza di linee guida comunicative, staff dedicati e impegno comunicativo pro capite dei ricercatori).

Sono state poi prese in considerazione tre variabili dipendenti (gli eventi pubblici, i media tradizionali e i nuovi media) e per esse sono stati costruiti alcuni indici dell’intensità della comunicazione pubblica delle istituzioni. Alle variabili dipendenti sono state aggiunte quelle indipendenti, che poi sono quelle che riguardano l’ambiente organizzativo (C) e la disponibilità a impegnarsi nella comunicazione pubblica (D).

Quali sono stati i risultati dell’analisi dei dati, ricavati da questionari online sulle loro attività?

In generale, si assiste a una crescita abbastanza rapida della professionalizzazione della comunicazione istituzionale, con formazione (almeno in alcuni casi) di gruppi di lavoro altamente specializzati. In varie realtà nazionali, rispetto anche a soli cinque anni fa, il panorama è in forte movimento. Un po’ tutti gli enti, ovunque si trovino, usano in maniera ampia gli eventi pubblici e i media tradizionali, mentre risultano meno frequentati i nuovi media. Buona parte delle interazioni web avviene attraverso i siti istituzionali, e il 46% degli enti non usa mai Facebook; per Twitter, addirittura, non lo fa il 60%. Di norma, se un ente è ad alta attività in un formato comunicativo, lo sarà anche negli altri due.

D’altro canto, i numeri circa la presenza di strutture dedicate alla comunicazione pubblica - le possiede solo la metà degli enti - sono tali che l’esistenza di vere e proprie politiche comunicative non è ancora un fatto scontato e uniforme.

Ci sono poi differenze, anche se relativamente contenute, quanto al livello d’impegno fra Paesi e discipline scientifiche. Il Brasile è in testa un po’ in tutti gli ambiti, mentre l’Italia si colloca nel mezzo, ma utilizza più di altri Paesi i media tradizionali.

Dai risultati, lo studio ha tratto tre osservazioni principali.

La prima è che la comunicazione pubblica sistematica, pianificata e con una strategia alle spalle si sta diffondendo fra le istituzioni di ricerca, ma è ancora in una fase di crescita tumultuosa e diversificata. I risultati indicano che in generale i media tradizionali continuano a ricevere un’attenzione assai superiore rispetto a quella destinata ai nuovi media, in particolare in Paesi come la Germania. La cosa ha sorpreso gli autori dello studio visto che i nuovi media richiedono un impegno di risorse assai minore. In effetti il pubblico di tutti gli otto Paesi considerati continua a ricevere l’informazione scientifica assai più dai media tradizionali[5] che da altre fonti. Anche perché, stando all’evidenza disponibile, l’uso dei nuovi media da parte di singoli ricercatori e del pubblico rimane piuttosto modesto, così come è bassa la reputazione di questi mezzi[6].

D’altra parte, se è vero che i nuovi media non godono in generale di buona reputazione né da parte degli scienziati presi sul piano individuale né da parte del pubblico, è anche vero che le strutture istituzionali comunicative degli organismi di ricerca più grossi ne fanno un impiego notevole. Perché lo fanno, stante che appunto questi nuovi media non godono di buona reputazione?

La spiegazione offerta dallo studio è che parecchi account istituzionali sono gestiti in effetti da singoli scienziati, comprensibilmente desiderosi di esser conosciuti dall’opinione pubblica. Questo uso personalizzato dei nuovi media consente loro di mantenere il controllo individuale della comunicazione e di bypassare il ruolo dei media tradizionali. I quali a loro volta sono percepiti sovente come soggetti che permettono o impediscono allo scienziato il contatto immediato con il pubblico.

La seconda conclusione dello studio è che sussistono differenze notevoli fra Paesi e fra aree disciplinari. Sul punto, l’esistenza di un dibattito pubblico sulle questioni scientifiche, l’impegno da parte del mondo politico e dei governi, l’attenzione di una società verso l’una o l’altra disciplina sembrano fattori in grado di trascinare con sé l’impegno comunicativo delle istituzioni di ricerca in realtà nazionali diverse fra loro. Il fattore “Stato” spiega senz’altro parte delle diversità.

Inoltre, a rendere più o meno importante la comunicazione pubblica sono decisive la presenza di strutture e organismi specializzati nella comunicazione, e l’esistenza di un capitolo di bilancio specificamente dedicato. Quest’ultima osservazione, che presa all’ingrosso sembrerebbe dire “più soldi, più comunicazione”, tuttavia, al momento lascia in ombra un punto decisivo: non è ancora chiaro se sia la maggior disponibilità di risorse a determinare un livello più alto di impegno pubblico, oppure se sia la convinzione dei responsabili decisionali che la comunicazione esterna sia un fatto strategico a portare a una più ampia destinazione di risorse. Sulla questione non sembra esserci un’evidenza empirica sufficiente in un senso o nell’altro.

Nel complesso, al momento, la conclusione è che le istituzioni che vogliono essere più visibili impegnano più risorse, creano più rapporti con i media tradizionali, più profili sui social, ecc.; al contempo, sul piano individuale, gli scienziati preferiscono investire parte delle loro risorse negli eventi, nei quali cercheranno di norma di assumere un ruolo da protagonisti. Sembra, insomma, delinearsi una tensione significativa fra le modalità comunicative individuali e quelle istituzionali.

Il risultato finale è comunque una combinazione dei fattori dei gruppi C e D sopra descritti. Non è detto che le strutture dedicate portino in maniera lineare a un’attività maggiore, ma senza strutture dedicate ci sarà meno attività. Il punto risulta più evidente in società fortemente orientate al mercato privato, come quelle USA e UK, meno in Paesi di forte presenza statale, come il nostro, in cui la comunicazione istituzionale è percepita come un bene pubblico: potrà sembrare paradossale, ma dove la mano pubblica è meno visibile, come in America e in Gran Bretagna, alcuni enti di ricerca rischiano di comunicare di meno.

Gli stessi autori dello studio si chiedono: quali saranno le conseguenze della crescente professionalizzazione della comunicazione, per la scienza in quanto tale e per la discussione pubblica sulla scienza? Con lo sviluppo di queste strutture comunicative, gli scienziati stanno perdendo in maniera definitiva il controllo del loro storytelling?

Note

1) Entradas M, Bauer MW. (2017). Mobilisation for public engagement: Benchmarking the practices of research institutes. Public Understanding of Science. 26(7):771–88; Marcinkowski F, Kohring M, Fürst S, Friedrichsmeier A. (2014). Organizational Influence on Scientists’ Efforts to Go Public: An Empirical Investigation. Science Communication. 36(1):56–80.
2) Peters HP. (2012). Scientific Sources and the Mass Media: Forms and Consequences of Medialization. In: Rödder S., Franzen M. WP (a cura di). The Sciences’ Media Connection–Public Communication and its Repercussions. 217-239.
3) Entradas M, Bauer MW, O'Muircheartaigh C, Marcinkowski F, Okamura A, et al. (2020). Public communication by research institutes compared across countries and sciences: Building capacity for engagement or competing for visibility?. PLOS ONE 15(11): e0242950. DOI: 10.1371/journal.pone.0242950
4) Besley JC, Dudo A, Yuan S. (2018). Scientists’ views about communication objectives. Public Understanding of Science. 27(6):708-30.
5) Eurobarometer Special 401-Responsible Research and Innovation (RRI), Science and Technology. 2013; National Science Board. Science and Technology Indicators. Washington, DC. 2016.
6) Entradas M, Bauer MW (2019). Bustling public communication by astronomers around the world driven by personal and contextual factors. Nature Astronomy. 3(2):183-7; Entradas M, Marcelino J, Bauer MW, Lewenstein B. Public communication by climate scientists: what, with whom and why? (2019). Climatic Change. 154(1-2):69-85.

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