Tre cose un po' diverse

img
L’andamento nel tempo delle risposte corrette alle tre domande standard dell’indice di alfabetizzazione scientifica
La copertina di questo numero di Query è dedicata alla valutazione della ricerca e ai suoi strumenti, argomenti molto vicini a quelli di cui ci occupiamo in questa rubrica. Perciò, per una volta, faremo qualcosa di un po’ diverso dal solito, parlando brevemente di tre argomenti distinti.

Il primo riguarda questa stessa rubrica: come le altre, dal numero scorso ha guadagnato un sottotitolo. Quando è nata ormai molti anni fa, con il numero 1 di Query, Toolbox era stata pensata come “la cassetta degli attrezzi dello scettico”, che contiene gli strumenti che servono per lavorare in modo scientifico: era il titolo di una conferenza preparata con Andrea Ferrero, e oggi è una delle lezioni introduttive ai corsi organizzati dal CICAP. Quindi non “il metodo scientifico”, che è un argomento spinoso e molto difficile da definire, ma più prosaicamente “il modo di lavorare scientifico”. Abbiamo perciò parlato di protocolli sperimentali, di statistica, di modelli matematici e altro ancora. Poi, un po’ alla volta, l’attenzione si è spostata ad altri aspetti del lavoro scientifico, spesso con un occhio alle loro distorsioni e al confine con le pseudoscienze. Non più tanto gli attrezzi, quindi, quanto piuttosto i meccanismi interni che servono a far funzionare la scienza: appunto, “gli ingranaggi della ricerca scientifica”.

Secondo argomento. Observa Science in Society, un centro di ricerca indipendente che da vent’anni segue l’evoluzione dei rapporti tra scienza e società in Italia, pubblica ogni anno l’Annuario Scienza Tecnologia e Società per i tipi de Il Mulino. Ne abbiamo parlato in questa rubrica ormai cinque anni fa, ed è appena uscita l’edizione 2023, come al solito con tantissimi dati e spunti per ragionare sulla scienza.

Un dato fornito dall’Annuario di cui avevamo discusso nel 2018, e per il quale vale la pena fare un piccolo aggiornamento, è il cosiddetto “indice di alfabetizzazione scientifica”. Come notavamo allora, controllare l’andamento del livello di alfabetizzazione scientifica della popolazione è una pratica ormai consolidata anche a livello internazionale. Si fa usando tre domande standard: «Il Sole è un pianeta?», «Gli antibiotici uccidono sia i virus che i batteri?» e «Gli elettroni sono più piccoli degli atomi?» Pur non essendo una misura di precisione ma un indicatore generico, è un sistema standardizzato, per cui permette di fare confronti tra gruppi o periodi diversi e, nel caso di variazioni importanti, di decidere se vale la pena di approfondire. Inoltre, è facile e costa poco.

Come si vede dal grafico nella pagina a fianco, negli ultimi sette-otto anni la lenta ma costante crescita dell’indice di alfabetizzazione sembra essere un po’ rallentata. Consola il fatto che, se ci si limita ai giovani, più della metà è in grado di rispondere correttamente a tutte e tre le domande.

Un altro dato particolarmente interessante (e in un certo senso divertente) riferito nell’Annuario riguarda dove gli italiani ripongono la loro fiducia in questioni scientifiche. Il 91.1% afferma di avere fiducia nella scienza in generale, l’88.9% negli scienziati, l’86.8% nelle istituzioni di ricerca. Intanto, quindi, la “sfiducia nella scienza” che si osserva per esempio attraverso la diffidenza nei confronti dei vaccini o i dubbi sul riscaldamento globale, è un fenomeno meno semplice da descrivere di quanto si potrebbe pensare, e probabilmente meno vasto di quanto lascerebbero supporre certe narrazioni. La fiducia però crolla clamorosamente quando gli scienziati diventano “esperti che intervengono pubblicamente in TV o sui social media”, dei quali dichiara di fidarsi solo il 43.2% degli italiani. Quanto questo sia legato al modo sovente sgangherato di comunicare con il pubblico che gli scienziati hanno avuto durante la pandemia è molto difficile da stimare, ma la tentazione di concluderne che per uno scienziato andare in TV non sia una buona idea è abbastanza forte.

Terzo: non una vera recensione ma un suggerimento di ascolto.

JHEP (acronimo di “Journal of High Energy Physics”) è una rivista scientifica molto particolare. Le riviste tradizionali in abbonamento sono finanziate attraverso, appunto, gli abbonamenti che sottoscrivono le biblioteche delle università e degli enti di ricerca. Le riviste open access sono liberamente consultabili online, ma si finanziano attraverso le Article Processing Charges (APC), cioè le spese di lavorazione editoriale a carico delle istituzioni che pubblicano i lavori dei loro ricercatori.

In entrambi i casi, però, i costi sono estremamente elevati, al limite dello scandaloso. O forse anche oltre il limite, dato che le case editrici che pubblicano riviste scientifiche hanno margini di guadagno tra i più alti: secondo un articolo di Stephen Buranyi pubblicato sul Guardian nel 2017, il gigante dell’editoria scientifica Elsevier ha dichiarato nel 2010 un margine del 36%: più di Apple, Google o Amazon. D’altronde i ricercatori scrivono gratis i loro articoli per le riviste, gli articoli sono controllati da revisori che lavorano gratis (la peer review è considerata uno dei compiti istituzionali di un ricercatore), e da quando le riviste sono principalmente online non ci sono più neanche i costi di stampa e distribuzione. Certo, ci sono spese per la gestione di tutto il processo, per lo sviluppo e la gestione delle piattaforme online su cui gli articoli sono pubblicati eccetera, ma giustificano costi così esorbitanti?

Daniele Amati, fisico teorico della SISSA di Trieste, pensava di no. Fu così che nel 1997 nacque JHEP, una rivista scientifica completamente di proprietà di un’università (appunto, la SISSA) e che avrebbe avuto un costo limitato alla copertura delle effettive spese di produzione. JHEP ebbe immediatamente un grande successo nella comunità scientifica; da allora sono accadute molte cose e oggi JHEP, che continua a essere di proprietà della SISSA, è una rivista completamente open access, distribuita sulla piattaforma di Springer, un altro gigante dell’editoria scientifica. Non si paga né per leggere né per pubblicare; i costi sono completamente coperti da SCOAP3, lo Sponsoring Consortium for Open Access Publishing in Particle Physics: un consorzio guidato dal CERN proprio per finanziare in maniera efficiente e trasparente l’adozione dell’Open Access nel campo della fisica delle particelle elementari.

La storia di JHEP che abbiamo riassunto qui è raccontata dalla giornalista scientifica Federica Sgorbissa in Paper, un podcast prodotto da SISSA Medialab in collaborazione con Le Scienze in occasione del 25° anniversario di JHEP. Le otto puntate di Paper, che ha il meraviglioso sottotitolo “come la scienza diventa scienza”, si occupano di temi che abbiamo spesso incontrato in questa rubrica. Si parla di preprint e archivi di preprint, di peer review, di open access, di riviste predatorie e articoli “piratati”, di quanti soldi girano nel mondo dell’editoria scientifica e infine proprio di JHEP.

Il podcast si trova su tutte le maggiori piattaforme ed è fortemente consigliato ai lettori di questa rubrica, e non solo: non a caso, infatti, lo troverete citato anche nelle pagine di questo numero di Query dedicate a recensioni e segnalazioni.

Categorie

Sullo stesso argomento

Prometeo

accessToken: '2206040148.1677ed0.0fda6df7e8ad4d22abe321c59edeb25f',