I ''bias'' si spiegano, non sono spiegazioni

  • In Articoli
  • 25-05-2022
  • di Roberto Cubelli e Sergio Della Sala
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La mente irrazionale e la popolarizzazione dei bias


Anni fa si incominciò a discutere degli errori della mente, delle illusioni del pensiero, delle incoerenze dei processi mentali, delle imperfezioni della memoria, delle scorciatoie decisionali (Schacter, 2002; Della Sala e Dewar, 2010). In seguito, si è molto insistito sul concetto di irrazionalità della mente umana (Kanheman, 2012; Pinker, 2021) e si è giunti a sostenere che sono necessari programmi educativi per correggere la mente umana e algoritmi di intelligenza artificiale per evitare errori e diminuire il rumore che circonda i processi decisionali, ovverosia il grado di variabilità (Kahneman et al., 2021). L’obiettivo dichiarato è il superamento delle imperfezioni della mente, il modello da imitare o riprodurre è il cervello robotico.

Anche noi abbiamo parlato di inganni del cervello, di trappole cognitive, di false memorie e di errori testimoniali (Cubelli e Della Sala, 2007; Della Sala e Dewar, 2010, De Vito e Della Sala, 2010). Questi contributi avevano lo scopo di evidenziare le situazioni e i problemi che esponevano all’errore i sistemi cognitivi. Si voleva mostrare il valore euristico dell’errore, la sua utilità nel consentire la comprensione del funzionamento dei processi mentali; in nessun modo si voleva suggerire, come da altri sostenuto (Kahneman, 2012), l’irrazionalità del pensiero umano e la sua inadeguatezza di fronte alle nuove sfide adattive e di sviluppo che pongono problemi molto più complessi rispetto alle immediate esigenze di sopravvivenza e interazione con l’ambiente.

Oggi il termine bias, o bias cognitivo (Korteling e Toet, 2022), è entrato nel linguaggio comune come spiegazione di comportamenti che appaiono illogici o sbagliati (Cubelli e Della Sala, 2019). L’accezione che il termine ha assunto nel corso del tempo si è trasformata in un espediente esegetico in grado di render conto di ogni azione umana, perdendo valore interpretativo a favore di spiegazioni circolari e semplicistiche. L’elenco dei bias è numerosissimo (Figura 1) e, in assenza di proposte tassonomiche o di modelli di riferimento, si allunga periodicamente (Vecchioni, 2020). Il messaggio veicolato è che le scelte degli esseri umani sono sempre sbagliate (Garofalo, 2021) e che alle persone si debba insegnare come ragionare e decidere (Salomi, 2016). Questa conclusione non è ragionevole. È tempo di riavvolgere il nastro: non c’è solo la mente che mente ma anche la mente affidabile, non solo la mente fallace ma anche la mente efficiente. I comportamenti etichettati come bias sono sempre funzionali a uno scopo e quasi sempre sono efficaci; non sono la prova dell’insufficienza o dell'irrazionalità dell’attività mentale, ma la manifestazione della sua complessità.

Un esempio colto


Nelle presentazioni ai festival della scienza, negli articoli divulgativi, nelle discussioni fra non esperti, i bias cognitivi sono invocati per spiegare ciò che appare incongruo o non comprensibile. Sono diventati un mantra esplicativo con sottinteso un significato condiviso ma non definito, una conoscenza comune adattabile alle situazioni più disparate, un Sarchiapone[1] che pochi conoscono ma su cui molti discettano. Anche in contesti colti e critici, anche nel CICAP, i bias sono chiamati in causa come fossero spiegazioni e non invece fenomeni da spiegare.

In un recente articolo su MicroMega, Silvano Fuso (2021) ha ricordato una storia terribile, accaduta a Londra il 22 luglio 2005. Dopo gli attentati che due settimane prima hanno provocato decine di morti e feriti, i poliziotti di Scotland Yard temono che un nuovo attentato sia imminente e controllano un edificio di tre piani, dove vivono tre persone di origine araba sospettate di preparare azioni suicide. Un giovane di 27 anni (con “gli occhi di taglio orientale” dirà un agente) esce dal palazzo ed è seguito. Prende un autobus, scende in prossimità di una stazione della metropolitana, fa una telefonata, prende un secondo autobus e scende vicino a un’altra stazione, entra nella metropolitana, corre verso il binario e sale sulla carrozza prima che si chiudano le porte. I poliziotti pensano che si sia accorto del pedinamento e, temendo che possa farsi esplodere tra la folla, lo raggiungono, bloccano il treno, lo fanno scendere e lo uccidono sparandogli in testa. La realtà è diversa da quella immaginata dagli investigatori: il giovane era brasiliano, non abitava con le persone sospettate, non era un terrorista, stava andando al lavoro, la prima stazione della metropolitana era chiusa, è stato costretto ad andare in un’altra stazione per prendere il treno, ha telefonato per avvisare del ritardo.

Nel suo articolo, puntuale e interessante, Fuso ritiene responsabili di quanto accaduto “gli inganni (o, detto più tecnicamente, i bias cognitivi) che portarono gli agenti di Scotland Yard a fraintendere completamente il comportamento del povero Jean Charles, fino al punto di ucciderlo” (p. 158). La responsabilità principale sarebbe del bias di conferma (Pluviano e Della Sala, 2020a) che “ci porta a considerare prevalentemente le evidenze che confermano le nostre idee pregresse (come quelle degli agenti di Scotland Yard) e a trascurare quelle che le contraddicono” (p. 163). L’episodio suggerisce un’altra interpretazione e mette in luce nel comportamento dei poliziotti gravi carenze etiche e professionali. Perché dopo averlo immobilizzato lo hanno ucciso? Perché non lo hanno fermato prima che entrasse nel treno e si creasse una situazione di potenziale pericolo? Perché, quando lo hanno catturato, non si sono preoccupati di identificarlo? I bias non c’entrano. I poliziotti hanno raccolto indizi che convergevano nel suggerire uno scenario probabile e coerente e hanno agito di conseguenza: bloccare il sospettato per verificare l’ipotesi investigativa sarebbe stato legittimo, l’uccisione invece è da condannare come atto criminale e assolutamente ingiustificato.

Nella vita di tutti i giorni ci si affida all’esperienza e alla valutazione di ciò che è probabile e plausibile. Non sempre le verifiche sono possibili prima di agire o decidere. Questo non significa che sempre ci si inganna o si sbaglia. Se così fosse si dovrebbero accettare i seguenti due paradossi.
  • (a) L’efficacia e la sicurezza dei vaccini per il Covid-19 sono ampiamente documentate e confermate. Per quanto bassa possa essere la probabilità di contagio, di malattia grave o di reazioni avverse, i vaccini non eliminano l’intrinseca incertezza che caratterizza ogni intervento sanitario nei singoli individui. Poiché sempre si deve agire con attenzione nelle diverse situazioni, questo significa che è ragionevole e condivisibile la posizione di chi rifiuta i vaccini, contrasta ogni forma di obbligo diretto e indiretto e, data la inevitabile presenza di persone contagiate nonostante la vaccinazione, suggerisce cautela e scetticismo nelle decisioni di politica sanitaria?
  • (b) Gli algoritmi utilizzati nei tribunali degli Stati Uniti per la valutazione del rischio di recidiva, e per determinare l’ammontare della cauzione, la durata della carcerazione o l’accesso alle misure alternative alla detenzione, sistematicamente indicano risultati sfavorevoli ai detenuti afroamericani: anche i computer hanno i bias?

Ovviamente a queste due domande non si può che rispondere in modo negativo.

Non è giustificato affermare che tutti i musulmani sono potenziali terroristi suicidi, che tutti i vaccinati eviteranno l’infezione e che tutti gli afroamericani inevitabilmente commettono reati. Tuttavia, sulla base dei dati disponibili, è legittimo concludere che la presenza di attentatori suicidi è più probabile tra i musulmani che tra i non musulmani, che il contagio è più probabile tra i non vaccinati che tra i vaccinati e che la reiterazione di certi reati è più probabile tra gli afroamericani che in altri gruppi etnici. Chi dovesse sostenere che ogni musulmano è un sospetto terrorista, ogni vaccinato è al riparo dalla malattia e ogni afroamericano è destinato a commettere sempre gli stessi reati è vittima non di bias, ma di ignoranza e rigidità. I bias non sono il fondamento cognitivo di razzismo, pseudoscienze e terrorismo e non devono essere usati come spiegazione esaustiva di comportamenti sociali e politici inaccettabili e inammissibili (Cubelli e Della Sala, 2020).

Cosa sono i bias cognitivi


In ambito psicologico, l’espressione bias cognitivi si riferisce a comportamenti e ragionamenti che, in risposta a determinati stimoli o situazioni, mostrano sistematicamente e pressoché universalmente lo stesso profilo qualitativo, le stesse opzioni, gli stessi risultati non necessariamente corretti; indica scelte individuali o collettive che si ripetono nel tempo e rivelano atteggiamenti e schemi d’azione stabili e prevedibili (Cubelli e Della Sala, 2019). I bias non includono solo inganni, comportamenti inadeguati, risposte sbagliate o errori di logica. Sono bias anche:
  • (a) Le risposte maggioritarie. Si consideri per esempio il dilemma del carrello ferroviario, originariamente proposto nel 1967 dalla filosofa britannica Philippa Foot. La maggioranza delle persone spingerebbe una leva per deviare il corso del carrello che sta per investire e uccidere cinque persone, anche se questo comporta la morte di un uomo. Sono pochissimi quelli che spingerebbero un uomo sui binari per fermare la corsa del carrello e salvare le cinque persone in pericolo[2]. Si tratta di una scelta basata sulla percezione di un risultato positivo nonostante una responsabilità indiretta (tirando una leva, si salvano cinque persone anche se se ne lascia morire una) da preferire rispetto a una responsabilità diretta nonostante un risultato positivo (facendolo cadere, si uccide un uomo anche se ne salvano cinque).
  • (b) Le preferenze condivise. Tra queste vanno annoverate le conseguenze della somiglianza, che possono generare reazioni opposte: di inquietudine di fronte alle fattezze umane di un robot che producono repulsione e ne provocano il rifiuto (bias della valle inquietante, Pluviano e Della Sala, 2020b); di sicurezza e accettazione suscitati dalle persone con cui si condivide l’appartenenza alla stessa comunità e si hanno in comune valori, idee ed esperienze (ingroup bias).
  • (c) Le reazioni al contesto. Di una serie di eventi o di una lista di parole, ogni individuo ricorda meglio le informazioni che occupano le prime e le ultime posizioni; si tratta dell’effetto di “posizione seriale”. Questo fenomeno riflette i limiti di capacità della memoria di lavoro. Non potendo ripetere tutti gli stimoli, ci si limita a rievocarne una parte, ancorandosi alle posizioni poste all’inizio e alla fine della serie che, a parità di altre condizioni, svolgono un ruolo distintivo. Solo provando più volte è possibile apprendere la lista e considerare gli elementi centrali all’inizio ignorati. Un altro esempio è rappresentato dal publication bias, un comportamento collettivo che deriva da una attività scientifica ed editoriale dominata da un malinteso principio di originalità e da una eccessiva pressione a conseguire risultati. Una tale condotta ostacola l’avanzamento della conoscenza perché alimenta ipotesi fuorvianti (per un esempio che riguarda gli improbabili vantaggi cognitivi del bilinguismo, si veda De Bruin e Della Sala, 2015), ma è utile perché consente vantaggi personali in termini di visibilità, prestigio e carriera e, per questo, è una pratica pervasiva e resistente al cambiamento.


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Una rappresentazione del dilemma del carrello ferroviario. ©McGeddon Wikipedia Commons

Questi comportamenti sono classificabili come bias ma non rappresentano errori o decisioni illogiche. Semplicemente sono fenomeni frequenti e diffusi che dimostrano la complessità dei processi mentali; sono strategie che semplificano il ragionamento e che in molti casi generano una soluzione adeguata. Così come non tutti i bias sono errori, allo stesso modo non tutti gli errori sono etichettabili come bias. In molti casi, quando si parla di errori, ci si riferisce a situazioni limite, a difficoltà indotte da particolari stimoli o procedure sperimentali che rivelano la funzionalità e l'efficienza dei processi cognitivi e non la loro imperfezione. Le illusioni ottiche, per esempio, in cui linee di pari lunghezza sono percepite differenti e linee parallele appaiono inclinate[3], rivelano il funzionamento raffinato del sistema visivo, non la sua inadeguatezza.

Una classificazione dei bias cognitivi


In italiano il termine bias, che letteralmente significa “obliquo”, può essere reso con pregiudizio, parzialità o inclinazione: le diverse traduzioni indicano tipologie comportamentali diverse e diversi meccanismi cognitivi coinvolti (Cubelli e Della Sala, 2021).

Nel caso del pregiudizio, il bias è la conseguenza della personale concezione del mondo, non necessariamente esplicita, che deriva dall’organizzazione della conoscenza in schemi e categorie e che guida e orienta i processi di percezione, memoria e pensiero. Gli schemi di conoscenza descrivono in modo generale persone, oggetti, ed eventi, ma includono solo i dettagli caratterizzanti, comuni o più frequenti; rappresentano le tipologie, non i singoli esemplari; sono descrizioni di ciò che è assunto come tipico, non includono ogni possibilità fenomenica. Nelle situazioni concrete, in assenza di informazioni aggiuntive o contrarie, una caratteristica specificata a livello di schema tende a essere assunta come sempre vera. Un evento descritto come “Gianni è andato al ristorante ed è uscito soddisfatto” implica che Gianni sia stato servito da un cameriere, abbia mangiato, e pagato il conto. Le persone che devono descrivere l’ufficio di un docente universitario da cui sono appena uscite tendono a ricordare la presenza di libri, anche se assenti, perché attesi in quell’ambiente (Brewer e Treyens, 1981). Un prototipo condivide la maggior parte delle caratteristiche comuni agli elementi della categoria e consente di distinguere il grado di appartenenza dei singoli concetti: il canarino rappresenta la categoria degli uccelli più dello struzzo perché più simile al prototipo. Gli schemi si basano su relazioni associative immediatamente disponibili alla consapevolezza e descrivono ciò che è più frequente o che è creduto tipico. Quando si parla di residenti in Africa immediatamente si pensa a persone di pelle nera, quando ci si riferisce a medici si pensa a personale sanitario di sesso maschile. L’eccezione e la diversità tendono a essere non considerate. La caratteristica opposta (africani di pelle bianca, medici di sesso femminile), se non esplicitamente riportata all’interno di un discorso, è ignorata o esclusa[4]. Questa tendenza alla semplificazione favorisce inevitabilmente la formazione di stereotipi e pregiudizi (Mazzara, 1997), ma è funzionale ai processi di categorizzazione e all’acquisizione della conoscenza. In assenza della rappresentazione concettuale di cane, animali della cultura popolare come Scooby-Doo, Snoopy, Rataplan, Rin Tin Tin e Lassie non sarebbero riconosciuti come appartenenti alla stessa categoria, essendo così diversi l’uno dall’altro. All’interno di una rappresentazione concettuale, gli esemplari possono avere una collocazione diversa (essere centrali o periferici sulla base del numero di caratteristiche condivise) e questo spiega perché sia più facile categorizzare Pluto (coerente con il prototipo di cane) che Pippo (comportandosi da umano, più difficile da classificare come cane). La difficoltà a riconoscere Pippo non è necessariamente la prova di un’attitudine negativa o discriminatoria. Categorizzare e distinguere sono operazioni fondamentali per comprendere la realtà e per scoprire relazioni nuove, sorprendenti o addirittura contraddittorie (Eco, 1997).

Quando ci si riferisce a parzialità, il bias consiste nella selezione di una parte delle informazioni disponibili. A livello cognitivo si considerano solo le informazioni rilevanti per le operazioni di riconoscimento e memorizzazione di oggetti, parole e persone, e si ignorano i dettagli contingenti e irrilevanti (colore del materiale, carattere delle lettere, tipologia degli abiti). Se si elaborassero tutte le informazioni che l’ambiente propone, se si considerassero tutti i dettagli che colpiscono i sensi, non si sarebbe in grado di fare astrazioni, ragionare e prendere decisioni. Esattamente quello che capitava a Ireneo Funes, il personaggio creato dalla fantasia di Borges che ricordava “non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata [...] era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo aveva difficoltà a comprendere che il simbolo generico cane potesse designare molti disparati individui di varia dimensione e forma diversa; ma lo infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte)”.

A un livello più generale, la selezione delle informazioni è funzionale a istanze di coerenza e continuità per dare significato a un percorso storico personale o collettivo (Pluviano e Della Sala, 2019) e per confermare le scelte del passato e giustificare quelle del presente (Cubelli e Della Sala, 2021). Quando si vogliono mantenere rapporti affettivi, amichevoli o pacifici, si enfatizzano e si ricordano solo gli aspetti positivi, piacevoli e vantaggiosi delle persone e delle situazioni; al contrario, quando ci sono (o si vogliono) contrapposizione, conflitto e separazione, si considerano o si sopravvalutano gli aspetti negativi e gli eventi spiacevoli. Nella vita quotidiana, la parzialità è inevitabile: si coltivano interessi e attitudini, si seguono gusti e competenze, si scelgono compagnie e attività. Gli appassionati di calcio non devono necessariamente mantenersi aggiornati e preparati su ogni tipo di sport. Non potendo leggere tutti i libri pubblicati e vedere tutti i film in programmazione, si privilegiano gli autori e gli argomenti preferiti. Ogni giorno ci si informa leggendo uno o due quotidiani, non certo consultando l’intera rassegna stampa. Non si possono avere gli stessi rapporti con tutti: è inevitabile tendere a frequentare gruppi, coltivare amicizie e programmare viaggi solo con persone di cui si condividono sensibilità e valori.

Il terzo significato di bias, inclinazione, fa riferimento ai limiti di capacità e di elaborazione dei processi cognitivi che emergono nell’esecuzione di compiti specifici. Sinonimi per questa accezione di bias sono tendenza, orientamento, propensione: parole che indicano l’uso sistematico o preferenziale, non sempre consapevole, di strategie non sempre adeguate nei compiti di ragionamento e soluzione dei problemi. Per esempio, la mente non è in grado di trattare grandi numeri, sottoporli a calcoli mentali, ricordarli; questo porta a utilizzare parole generiche e approssimative come miriadi o moltitudine oppure ad affidarsi all’intuito che induce errori di stima per difetto o per eccesso. Si consideri la leggenda di Sissa Nassir, inventore degli scacchi. Lo Scià di Persia, che aveva promesso una ricompensa per l’invenzione, acconsentì di dargli quanto aveva chiesto: un chicco di riso nella prima casella della scacchiera, due nella seconda, quattro nella terza, otto nella quarta, e via raddoppiando fino alla sessantaquattresima, convinto che si trattasse di una richiesta modesta. Trasecolò quando scoprì che l’ammontare corrispondeva a un numero di chicchi di riso esorbitante e impossibile da acquisire: 18.446.744.073.709.551.615 (ovverosia 1,8447·1019). Incapace di calcolare la somma dei termini di una progressione geometrica di ragione 2 il cui primo termine vale 1, lo Scià si era affidato all’idea che, trattandosi di numeri piccoli (moltiplicare più volte per 2 partendo da 1), il totale dovesse essere un numero piccolo o comunque accettabile. L’incapacità di eseguire un calcolo difficile ha determinato un errore di sottostima[5]. Allo stesso modo, di fronte alla crescita esponenziale del Covid-19, alcuni clinici, politici e commentatori, in televisione e nelle sedi istituzionali, hanno sottostimato l'esito di questa progressione, la sua entità e quindi l’impatto sul Sistema Sanitario Nazionale.

Il caso opposto, con tendenza alla sovrastima, è rappresentato dal paradosso del compleanno, proposto nel 1939 dal matematico Richard von Mises: “Quante persone ci devono essere in un gruppo perché la probabilità che due di loro festeggino il compleanno lo stesso giorno sia maggiore del 50%?”. Chi non sa calcolare la probabilità generalmente si affida alle esperienze e alle credenze personali (il giorno del compleanno è strettamente legato all’identità individuale, i giorni dell’anno sono tanti) e stima che il numero delle persone richiesto debba essere molto alto (si pensa che sia raro incontrare due persone nate lo stesso giorno, anche se in anni diversi). In realtà, per avere una probabilità superiore al 50% sono sufficienti 23 persone (sui paradossi relativi alla probabilità delle coincidenze, si veda Falletta, 2001). La teoria della probabilità illustra bene perché non ci si debba mai affidare all’intuito (soprattutto in caso di scommesse). Il calcolo della probabilità però si basa su un articolato impianto teorico e procedurale e richiede una formazione tecnica adeguata, in assenza della quale è inevitabile mostrare una inclinazione a commettere errori di valutazione e stima. La mente umana è incapace di manipolare grandi numeri e complesse procedure di calcolo e si mostra incline a usare ingenue strategie e soluzioni che causano errori sistematici e prevedibili. Per superare i limiti della biologia, non per modificare la mente ma per ottenere prestazioni corrette o più efficaci, è necessario ricorrere alla tecnologia e all’educazione. Il corpo umano non consente di volare o di correre oltre una certa velocità; ciononostante, grazie alla scienza, gli esseri umani sono ora in grado di percorrere grandi distanze in poco tempo e superando ogni genere di ostacoli. La mente è così perfetta da saper compensare le proprie imperfezioni strutturali creando e utilizzando nuovi strumenti e conoscenze.

Il ricorso ai bias come spiegazione è diventato ubiquo e proposto anche da osservatori attenti e raffinati. In un articolo sul Foglio del 7 gennaio 2022, Enrico Bucci, esprimendo la doverosa solidarietà nei confronti di Antonella Viola minacciata da una lettera anonima contenente un proiettile, ha condannato “le pregiudiziose affermazioni e le infondate argomentazioni di chi, sulla base della propria agenda e del bias di conferma, porta ogni giorno confusione nella discussione pubblica”. Anche in questo caso il riferimento al bias di conferma è fuori luogo. Il rifiuto delle evidenze, la non disponibilità all’ascolto e il fanatismo militante non hanno nulla a che vedere con il bias di conferma che è riscontrabile in ogni persona e non implica comportamenti spregevoli. Spesso si usano i bias come scorciatoie esplicative di comportamenti che si intendono biasimare ma il bias di conferma si riscontra nei no-vax tanto quanto in persone favorevoli alle vaccinazioni; è presente indipendentemente dalle rispettive posizioni, è un modo di funzionamento della mente, non la causa di uno specifico comportamento. Oltretutto, considerando la classificazione esposta sopra, non è chiaro in questo caso cosa si intenda per bias di conferma. Una strenua difesa delle proprie convinzioni (bias come pregiudizio)? La raccolta di informazioni limitata alle fonti con cui si è d'accordo (bias come parzialità)? La difficoltà a considerare le condizioni che falsificano l’argomento sostenuto (bias come inclinazione)? Tutti questi aspetti sono riscontrabili in ogni individuo e in ogni gruppo, non solo in coloro che adottano comportamenti stigmatizzabili. I bias non possono essere la causa del comportamento di un gruppo e non di un altro. Affermare che essere no-vax è dovuto ad uno specifico bias (per esempio il bias di conferma) implica che solo i no-vax presentino quel bias e che chi è favorevole alle vaccinazioni ne sia privo. Ma se anche coloro che sono favorevoli alle vaccinazioni sono influenzati dallo stesso bias (seppur con risultati diametralmente opposti) allora l’ipotesi che vi sia la relazione causale tra specifico bias e essere no-vax è falsificata.

I bias si osservano in ogni persona, indipendentemente dalle particolari credenze e posizioni ideologiche. Chi sceglie, si schiera, agisce, qualunque cosa faccia inevitabilmente mostra bias. Si consideri di nuovo il bias di conferma. Una persona può ritenere che una parte politica sia preferibile a un’altra (pregiudizio), preferire la lettura di autori appartenenti alla sua stessa area (parzialità) e pensare che i propri leader siano più onesti di quelli della fazione opposta (inclinazione). Assumere una posizione, in ogni ambito della vita sociale e personale, non può che comportare il bias di conferma. Pensare di eliminare definitivamente questo bias significa suggerire l’inazione, l’indifferenza, la passiva accettazione dell’esistente. Chi ogni giorno sostiene la fiducia nei vaccini e fa riferimento alla letteratura scientifica invece che alle reti sociali, non può tacere, apparire neutrale, solo per non rivelare la sua inclinazione a cercare la conferma (e l’esclusione delle condizioni di falsificazione) delle proprie convinzioni.

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I bias non si correggono


Il sistema cognitivo umano è eccellente; si consideri come in pochi mesi si sia riusciti a sviluppare vaccini in grado di limitare i danni del Covid-19. Al pari di ogni sistema, la mente può fallire a causa del suo modo di funzionare o dei suoi limiti strutturali. Nel primo caso i fallimenti danno origine a errori (come le illusioni percettive, i lapsus e le false memorie), nel secondo caso sono alla base delle difficoltà di ragionamento e di soluzione dei problemi. Gli errori possono essere fonte di conoscenza. Le false memorie, per esempio, non sono mai completamente false, sono ricostruzioni del passato basate su conoscenze, situazioni e scopi del presente. Per questo motivo, le testimonianze che vanno sempre interpretate e verificate perché subiscono l’influenza di disinformazione e suggestione, possono essere utili nelle indagini investigative e nella ricerca storica. I bias cognitivi, che si riscontrano sia tra gli errori che tra le difficoltà di ragionamento, costituiscono un insieme eterogeneo di fenomeni e meccanismi psicologici, e si riferiscono a domini cognitivi diversi e a un’ampia varietà di comportamenti complessi. Questo insieme di comportamenti però non può essere usato a scopo diagnostico, come se fossero espressione di anomalie patologiche, o per esprimere giudizi di valore, come se nei dilemmi morali ci fosse la risposta esatta e si potessero ricavare dati normativi.

Chi denuncia la presenza di bias spesso si propone di normalizzare o correggere il comportamento giudicato deficitario o inadeguato. Il famosissimo esperimento del gorilla invisibile[6] dimostra la selettività dell’attenzione e la sua funzione di filtro delle informazioni irrilevanti. Il fatto di non notare un gorilla che passa fra ragazzi che giocano a basket è indicativo della capacità di focalizzare l’attenzione sul compito che si vuole eseguire. Non è un difetto, è un vantaggio. In assenza di un sistema di attenzione selettiva, si sarebbe in balia degli stimoli ambientali, anche se insignificanti o incongrui con ciò che si sta facendo. Quando questa funzione dell’attenzione è danneggiata in seguito a particolari lesioni cerebrali (Boccardi et al. 2002), le persone colpite soffrono della “sindrome da dipendenza ambientale” (Lhermitte, 1986): sono incapaci di inibire azioni stimolate da ciò che vedono o sentono e utilizzano afinalisticamente ogni oggetto a portata di mano (Brazzelli et al., 1994). Proporre strategie per rimediare (Wiseman, 2005) a questa forma di “cecità”, come fosse una patologia da correggere, è non solo inutile ma anche controproducente: il bias dell’attenzione che impedisce di vedere il gorilla è spettacolare ma non è un difetto, è rivelatore dell’efficienza della mente umana.

Gran parte dell’elaborazione mentale avviene in modo inconscio o implicito (Legrenzi e Umiltà, 2018). Il comportamento verso persone e situazioni è regolato da propensioni e avversioni di cui si ha poca o nulla consapevolezza. L’esistenza dei bias ha suggerito che sia possibile rilevare l’attitudine implicita verso atteggiamenti e comportamenti di tipo discriminatorio e razzista. A questo scopo è stato proposto un test basato sui tempi di risposta ad associazioni tra stimoli (IAT - Greenwald et al., 1998), che è assolutamente inadeguato (Cubelli e Della Sala, 2020) e che ha dato la stura, in molti ambiti professionali, a corsi completamente inefficaci per correggere i pregiudizi impliciti (Chivers, 2020). I bias non sono all’origine delle esecrabili opinioni razziste e degli inaccettabili comportamenti di discriminazione. Per contrastare iniquità, ingiustizia e amoralità pubblica serve non la rilevazione dei bias come fossero alla base delle responsabilità individuali ma la messa in atto di interventi di carattere politico e culturale che educhino e aiutino le persone ad avere maggiore conoscenza e consapevolezza del funzionamento della mente umana.

Conclusione


Senza prototipi, semplificazioni e scorciatoie non sarebbero possibili il pensiero astratto e la costruzione della conoscenza. I bias non spiegano, sono fenomeni empirici. Il termine bias si deve usare per descrivere e classificare, non per spiegare. Le persone hanno idee e convinzioni consolidate nel tempo e a cui vogliono rimanere fedeli, privilegiano le fonti di informazioni che conoscono e apprezzano, tendono a ignorare ciò che è implicito o non immediatamente disponibile. Da qui possono originare i bias: le convinzioni diventano pregiudizi, la preparazione risulta parziale, le strategie si rivelano inadeguate. Di tutto questo è necessario essere consapevoli affinché, nelle singole situazioni e di fronte agli specifici problemi, si possa agire, individualmente e come società, nel modo più corretto possibile, sospendendo il giudizio, controllando il processo decisionale, evitando automatismi e reazioni immediate.

Note

1) Termine napoletano reso famoso da uno sketch di Walter Chiari, in cui i passeggeri in un vagone ferroviario fingono di sapere cosa sia il Sarchiapone; video qui: https://tinyurl.com/2p8sfczw ; testo qui: https://tinyurl.com/5n9yxbzu
2) I due scenari elicitano anche diverse attivazioni cerebrali: https://tinyurl.com/568jdw4x
4) Nel romanzo La disciplina di Penelope, Gianrico Carofiglio ripropone il vecchio enigma del chirurgo che rifiuta di operare il bambino rimasto gravemente ferito nell’incidente stradale in cui è morto il padre. Poche persone, molto lentamente e solo dopo aver considerato altre ipotesi come la famiglia omogenitoriale o il genitore adottivo, comprendono che il chirurgo è la madre. La prevalenza degli uomini nella professione e il genere grammaticale del nome implicitamente portano a una rappresentazione concettuale di chirurgo che esclude le donne, ostacolando così la comprensione delle singole situazioni. Anche gli algoritmi rispondono a questa asimmetria dettata da frequenza e tipicità, statisticamente accurata ma socialmente inaccettabile (Cao et al., 2019): Google Translate rende l’espressione inglese “the doctor and the nurse” come “il dottore e l’infermiera”.
5) Dante ha ripreso questa leggenda per indicare il numero degli angeli: L'incendio suo seguiva ogne scintilla;/ed eran tante, che 'l numero loro/più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla (Paradiso, XXVIII, 91-92). Moltiplicando per mille, anziché raddoppiare, in corrispondenza di ogni casella della scacchiera, si ottiene ~1,001*10189, un numero impressionante (quasi duecento cifre), praticamente impossibile da denominare e soprattutto da immaginare (https://tinyurl.com/2p8a3a7v ).


Riferimenti bibliografici

  • Boccardi, E., Della Sala, S., Motto, C., Spinnler, H. (2002) Utilisation behaviour consequent to bilateral SMA softening. Cortex, 38, 289-308.
  • Brazzelli, M., Colombo, N., Della Sala, S., Spinnler, H. (1994) Spared and impaired cognitive abilities after bilateral frontal damage. Cortex, 30: 27-51.
  • Brewer, W. F., Treyens, J. C. (1981) Role of schemata in memory for places. Cognitive Psychology, 13(2): 207–230.
  • Cao, J., Kleiman-Weiner, M., Banaji, M.R. (2019) People Make the Same Bayesian Judgment They Criticize in Others. Psychological Science, 30(1): 20-31.
  • Chivers, T. (2020) How racist are you? Companies spend a fortune on 'implicit bias tests' — but they are next to useless. The Post, January 15; https://bit.ly/2Tj8tk7
  • Cubelli, R., Della Sala, S. (2007) False testimonianze. Mente & Cervello, 29: 86-93.
  • Cubelli, R., Della Sala, S. (2019) Bias Cognitivi: la mente obliqua. Query, 39, 6-7.
  • Cubelli, R., Della Sala, S. (2020) L’Implicit Association Test (IAT) non è la macchina della verità: l’illusoria ricerca di pregiudizi e ricordi inconsapevoli. Query, 43, 52-57.
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