Enigma nucleare

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  • 11-04-2013
  • di Margherita Fronte
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©sinderesi.eu
L’11 marzo del 2011 un terremoto di magnitudo 9, uno degli eventi sismici più forti che si siano mai registrati sulla Terra, e uno tsunami di 14 metri devastano la parte est dell’isola di Honshu, l’isola maggiore e più a nord del Giappone. Causano circa 20 mila morti, un numero elevatissimo in un paese che ha la più sviluppata tecnologia antisismica al mondo. Il sisma e l’onda si abbattono sulla centrale nucleare di Fukushima Daiichi, gestita dalla Tokyo Electric Power Company, la Tepco. È una centrale molto importante e molto grossa: è stata costruita negli anni settanta, quindi è piuttosto vecchia, però è uno dei maggiori complessi al mondo considerando anche la presenza di una centrale gemella. A Fukushima c’erano sei reattori al momento dell’incidente, di cui tre erano in funzione: l’uno, il due e il tre. Gli altri, il quattro, il cinque e il sei erano fermi per ispezioni o per manutenzione. La centrale di Fukushima, come tutte le centrali nucleari, aveva una serie di sistemi di sicurezza. Al momento del sisma, il sistema interrompe l’erogazione di energia elettrica e spegne i reattori. Tuttavia, anche quando un reattore nucleare si spegne, i prodotti della fissione continuano a decadere e producono un calore residuo che è circa pari al 4-6 per cento di quello prodotto quando il reattore è acceso. Questo significa che il reattore spento dovrà essere raffreddato. In assenza di elettricità, a Fukushima il raffreddamento è assicurato da due sistemi accessori. Il primo era alimentato da motori diesel, ma il terremoto e lo tsunami lo hanno messo immediatamente fuori uso. Il secondo sistema funziona grazie a batterie elettriche. Entra in funzione e continua a funzionare per otto ore. Il problema è che il terremoto ha interrotto le vie di comunicazione, c’è un’emergenza generalizzata, metà paese è devastato. Intervenire sulla centrale nucleare è difficile da punto di vista logistico e le batterie si esauriscono. Si riescono comunque a installare dei generatori di emergenza. Forse vi ricorderete anche le immagini di questi poveretti che sono stati poi chiamati «Gli eroi di Fukushima»: sono stati mandati lì sostanzialmente a morire perché hanno preso una dose di radiazioni molto elevata. Tuttavia la riuscita di questi interventi, nel caos generale e all’indomani di un terremoto di quelle proporzioni, è solo parziale. Nei reattori nucleari il livello del liquido di raffreddamento si abbassa, le barre di zirconio che rivestono le barre di uranio reagiscono con l’acqua e generano idrogeno, l’idrogeno fa salire la pressione all’interno dei reattori e i reattori esplodono. Quella serie di esplosioni che si è vista, anche filmata in lontananza, non ha nulla a che fare con le esplosioni nucleari, ma è dovuta all’aumento di pressione generato dall’idrogeno all’interno dei reattori. Il nocciolo dei reattori 1, 2 e 3 non più raffreddato va incontro a fusione parziale, dal 30 al 50 per cento. Questo è l’evento più temuto in un incidente nucleare, perché la fusione del nocciolo significa dispersione di materiale radioattivo nell’ambiente. E questo è ciò che accade, anche se il rilascio viene parzialmente contenuto dai vasi di contenimento dei reattori. L’incidente però è gravissimo. La scala INES è una scala internazionale che valuta la gravità degli incidenti nucleari e in quel caso ha raggiunto il livello 7. Soltanto a Chernobyl aveva raggiunto questo livello. È una scala logaritmica, quindi vuol dire che il livello 7 è molto più alto del 6. Nella storia non c’è mai stato un incidente di livello 6, gli incidenti più gravi sono stati quindi Chernobyl e Fukushima. Tuttavia la radioattività rilasciata a Fukushima è molto inferiore rispetto a quella di Chernobyl perché Chernobyl esplose verso l’alto, quindi rilasciò una quantità ingentissima di radioattività nell’aria. Qui invece la radioattività è andata per lo più nel terreno e in parte è stata appunto contenuta dai vasi dei reattori. L’area evacuata è stata di venti chilometri intorno alla centrale e ha interessato 130 mila persone. Questo punto ha suscitato una polemica molto forte perché all’indomani dell’incidente le autorità statunitensi diramarono un messaggio rivolto ai cittadini americani che si trovavano nella zona dicendo loro di evacuare se si trovavano entro 80 chilometri dalla centrale. Il governo giapponese invece evacuò coloro che si trovavano entro 20 chilometri, con una zona di attenzione fra i 20 e i 30. Fra l’altro non sono state evacuate delle zone in cui la radioattività era molto forte perché il vento portò a una dispersione particolare della radioattività sul territorio. Il problema è che il Giappone è un paese stretto e lungo e, con quella conformazione, evacuare 80 chilometri voleva dire spezzare a metà il paese, o perlomeno creare un enorme area off limits. Questo è un aspetto spesso sottovalutato, ma all’indomani di Fukushima molti paesi hanno ripensato la loro politica nucleare. Fra questi paesi ci sono stati anche la Svizzera e il Belgio, che hanno riconsiderato la loro strategia nucleare per il problema delle evacuazioni: se c’è un incidente di questo tipo in Belgio, l’area off limits diventa proporzionalmente piuttosto rilevante. La stessa cosa accadrebbe in Svizzera. Se una centrale nucleare avesse un incidente di questo tipo in Svizzera e l’area da evacuare fosse grande come avrebbe dovuto essere in questo caso o come è stata nel caso di Chernobyl, una parte importante del territorio svizzero diventerebbe off limits per un tempo sostanzialmente indefinito.

Che cosa succede a Fukushima oggi. A novembre dell’anno scorso è stato raggiunto lo stato di “call shutdown”, vuol dire che il materiale nucleare è sceso sotto la temperatura di 100 gradi centigradi, e in teoria questo consentirebbe la rimozione del materiale nucleare. Il problema è che non si ha la minima idea di come fare. Il governo giapponese stima che una soluzione per rimuovere il materiale nucleare, attualmente fuso con il vaso della centrale, sarà trovata nei prossimi venticinque anni. Bisogna tenere presente che un vaso di contenimento è un muro di diversi metri di spessore e i reattori sono dei mastodonti. Per il completo smantellamento della centrale, che è irrecuperabile, si calcolano quarant’anni e un costo tutt’ora difficile da stimare. A questo proposito va detto che il costo complessivo di questo disastro è ancora difficilmente valutabile. Le conseguenze sulla salute vanno per esempio distinte in tre tipi: le conseguenze immediate per esposizione acuta che potrebbero aver subito i lavoratori e le persone che abitavano nelle immediate vicinanze della centrale; le esposizioni croniche, cioè di lungo periodo, a bassi livelli di radioattività, collegabili eventualmente con l’insorgenza di tumori; le conseguenze psicologiche, che non sono da sottovalutare. Nel caso di Chernobyl, per esempio, se noi prendiamo il dato OMS del Chernobyl Forum, i morti sono valutati in circa 9 mila, ma le conseguenze psicologiche su una popolazione che ancora oggi non può tornare nelle proprie case sono molto pesanti. Pensate all’impatto dell’incidente in un paese come il Giappone che, fortunatamente unico nella storia, ha subito gli attacchi nucleari. Sono due cose molto diverse, ma nella percezione pubblica l’incidente di Fukushima è stato così importante anche perché è avvenuto in Giappone, dove sono cadute le bombe su Nagasaki e Hiroshima. Noi sappiamo che sono due fenomeni completamente diversi, con conseguenze diversissime fra loro, ma nell’immaginario delle persone può presentarsi l’associazione: nucleare, bomba, guerra fredda, paura, energia. I danni per l’ambiente sono ancora difficili da valutare, sembrano tuttavia più contenuti rispetto a quanto si pensava inizialmente. C’è il problema delle zone off limits, sul quale ancora oggi infuria la polemica, perché sono state ripopolate delle aree che hanno dei livelli di radioattività elevati. Basti pensare che agli abitanti non è ancora oggi permesso di rientrare in zone intorno a Chernobyl che presentano livelli analoghi di radioattività.

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Ritorniamo alle conseguenze sulla salute, perché va detto che i primi studi sulle esposizioni acute hanno rivelato che fortunatamente l’esposizione della popolazione è stata molto bassa, non ci sono sicuramente situazioni di allarme al momento. C’è stato a settembre un caso di un tumore alla tiroide in un bambino, ma non è chiaro se sia collegabile all’incidente perché quel tumore ha una media di incubazione di cinque anni e quindi sarebbe passato troppo poco tempo. Complessivamente possiamo dire che per ora le conseguenze sulla popolazione sembrano limitate; sul lungo periodo invece potremo fare una valutazione solo fra circa vent’anni.

La domanda chiave allora è: era prevedibile un incidente di quel livello in un Paese con uno sviluppo tecnologico così avanzato? Fukushima si trova in un’area sicuramente a elevato rischio sismico, ma il Giappone è tutto a elevato rischio sismico. Rispetto ad altre zone del Giappone, come ad esempio la parte meridionale, questa zona è tutto sommato “più sicura”. In effetti un terremoto di magnitudo 9 a Fukushima era ritenuto improbabile prima che avvenisse, qualcuno diceva altamente improbabile. Tanto che all’indomani dell’incidente ci sono state dichiarazioni come quella di Christopher Scholz, sismologo della Columbia University, che spiegava che rispetto ad altre aree del Giappone quella sembrava abbastanza sicura e concludeva che se avesse dovuto decidere dove mettere un reattore, lo avrebbe messo proprio lì. Il direttore dell’impianto, alla fine degli anni novante, ha addirittura dichiarato che nel periodo in cui lui è stato lì non ha mai neppure considerato l’idea di uno tsunami. E allora se questa convinzione era così diffusa si può facilmente capire perché la centrale non era progettata per resistere a un sisma di magnitudo 9. Avrebbe potuto resistere a uno tsunami di 6/7 metri ma a uno di 14 no.

Nel luglio 2012 è stato diffuso il rapporto ufficiale della commissione investigativa incaricata dal governo giapponese di far luce sull’incidente. Il rapporto spiega che quando la centrale è stata progettata, cioè negli anni sessanta, le linee guida per la protezione sismica erano inadeguate; quelle linee guida infatti furono poi aggiornate, nel 1981 e nel 2006. Eppure la Tepco, grazie a una sorta di complicità delle autorità che avrebbero dovuto controllare, non ha mai adeguato i suoi impianti. Per questa ragione, la conclusione del rapporto è che l’incidente nucleare di Fukushima non può essere considerato un disastro naturale, ma che si è trattato di un disastro provocato dall’uomo. Usano addirittura l’espressione «profondamente provocato dall’uomo», spiegando che questo incidente poteva e doveva essere previsto e prevenuto e che i suoi effetti avrebbero potuto essere mitigati se ci fosse stata una risposta più efficace. Questa conclusione sottolinea quindi che a fallire non è stata la tecnologia, ma l’uomo. Non è la prima volta, anzi. L’errore umano è stato sempre citato quando ci sono stati incidenti nucleari. A Three Mile Island nel 1979, vi fu un guasto all’impianto di raffreddamento cui si sommò il fatto che un addetto al controllo non si accorse che la spia che segnalava quel tipo di guasto non funzionava. A Chernobyl si è parlato di una catena di errori umani, assolutamente vera e documentata. Questi errori clamorosi furono in parte dovuti anche a interessi politici ed economici, oltre che alla superficialità e all’arroganza di una delle persone che si trovava al momento dell’incidente nella sala di controllo. Il disastro di Fukushima fu nuovamente causato da un errore umano, come ci indica il rapporto della commissione giapponese. Il punto è allora: cosa dobbiamo concludere? Che la tecnologia si salva e l’uomo viene condannato? È difficile accettare una prospettiva di questo tipo perché la tecnologia non è qualcosa di diverso o di scisso da chi la progetta. All’indomani dell’incidente, Marcello Cini, fisico della Sapienza di Roma, ha analizzato in maniera molto lucida quest’aspetto su “Il Manifesto” e ha scritto: «La debolezza di una catena è quella del suo anello più debole, e siamo proprio noi umani che inevitabilmente facciamo parte di qualunque sistema da noi costruito per soddisfare i nostri bisogni che alla fine ne diventiamo il punto di rottura». Nella valutazione del rischio connesso all’utilizzo di una tecnologia noi non possiamo escludere l’uomo, è necessario tener presente che la debolezza di una tecnologia può essere determinata dal fattore umano. Non è sempre così, a volte l’uomo non è l’anello più debole. Nel caso del nucleare, quando si sono verificati grossi incidenti, l’anello debole siamo stati noi. Questo non significa, per quanto mi riguarda, che gli incidenti nucleari devono portarci a rifiutare in toto la tecnologia nucleare. È vero infatti che ci sono stati degli incidenti anche molto gravi, ma anche molte altre fonti energetiche provocano degli incidenti. Nel 2008 l’istituto svizzero Paul Sherrer, che è specializzato nella valutazione dei rischi industriali e in particolare di quelli derivati dall’uso delle energie, ha calcolato il numero di morti dovuti a incidenti connessi alla produzione di diverse fonti energetiche. Uno dei risultati fu che, se si guarda al numero dei morti che si registrano nel primo mese dopo un incidente, la produzione di petrolio risulta la più pericolosa in assoluto. Se lo sguardo si sposta sul lungo periodo, un dato che il Paul Sherrer Institute non ha calcolato, è chiaro che sicuramente i 9 mila morti di Chernobyl pesano moltissimo, ma va rilevato che molte altre fonti energetiche possono determinare tassi di mortalità molto alti. L’istituto svizzero ha invece simulato il peggior incidente possibile per i diversi processi di produzione di energia. Ne è emerso che, in termini di mortalità assoluta, l’energia più “pericolosa” è quella idroelettrica se si considera che, secondo le loro stime, il crollo di una diga può causare fino a 11.600 morti, contro gli oltre 10.000 calcolati a seguito dell’incidente peggiore che potrebbe avvenire in una centrale nucleare. Resta in ogni caso vero che incidenti nucleari come quello di Fukushima sono un grosso freno all’applicazione di questa tecnologia. Lo dimostra l’ultimo referendum italiano, che ha dato un esito che prima dell’incidente di Fukushima non era così scontato: gli Italiani a grande maggioranza hanno detto no per la seconda volta all’energia nucleare perché Fukushima occupava le pagine dei giornali e aveva monopolizzato l’attenzione dell’opinione pubblica.

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©hereandnow.vbur.org
Al di là della questione degli incidenti, ritengo che ci siano due elementi da prendere in considerazione per tratteggiare un quadro completo. Il primo è ricavato da stime ufficiali dell’agenzia internazionale per l’energia atomica secondo cui l’uranio disponibile a costi accettabili e convenienti durerà altri 160 anni, al tasso di sfruttamento che c’era prima di Fukushima. Ovviamente ora molte centrali sono state spente, quindi questo dato va riconsiderato, ma è chiaro che la questione resta. Fra l’altro, questa stima è abbastanza ottimistica perché considera sia gli eventuali progressi tecnologici per l’estrazione sia l’eventuale scoperta di nuovi giacimenti. 160 anni sembrano molti, ma bisogna considerare che prima di Fukushima la percentuale di energia nucleare in rapporto alla produzione totale di energia nel mondo era inferiore al 10 per cento. Alla luce di questa stima l’idea che l’energia nucleare possa sostituire il petrolio e il carbone è evidentemente un’assurdità.

Il secondo elemento che considero di rilievo è relativo al fatto che il 90 per cento delle scorie radioattive ad alta intensità è ancora oggi stoccata provvisoriamente nelle centrali. Se si eccettuano infatti pochissimi Paesi, come per esempio la Finlandia che sostanzialmente è spopolata, nessuno dei grandi Paesi che usano l’energia nucleare ha trovato ancora un metodo per smaltire le scorie ad alta intensità. Forse qualcuno ricorda la vicenda della Yucca Mountain. Avevano pensato di stoccare materiale radioattivo ad alta intensità in questa montagna, ma il progetto, costato 11 miliardi di dollari, è completamente fallito a dimostrazione della difficoltà di questa operazione. Il Giappone non ha un sito di stoccaggio permanente, e così la Francia. Fra l’altro a Fukushima questo fu un problema perché anche in quel sito erano depositate delle scorie radioattive ad alta intensità, stoccate nelle piscine sotto la centrale, e a un certo punto anche le piscine cominciarono a svuotarsi. Ora, senza fare numeri o ragionamenti troppo complicati, il punto è secondo me chiaramente riassumibile in una conclusione, che non vuole essere provocatoria ma semplicemente descrittiva: se l’uomo di Neanderthal avesse avuto le centrali nucleari, noi non avremmo ancora smesso di smaltire le sue scorie.

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